SENTENZA N.13
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 17-bis, comma 3, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, nel testo introdotto dall'art. 3 del decreto legislativo 13 luglio 1994, n. 480 (Riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773), dell'art. 705 del codice penale e dell'art. 13 del decreto legislativo 13 luglio 1994, n. 480, promossi con ordinanze emesse il 27 febbraio 1995 (n. 1 ordinanza) e il 31 gennaio 1995 (n. 3 ordinanze) dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze, rispettivamente iscritte ai nn. 311, 317, 318, 319 e 440 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 23 e 35, prima serie speciale dell'anno 1995.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 novembre 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di tre procedimenti penali, richiesto della emissione del decreto penale di condanna nei confronti di persone imputate per avere, nella loro qualità di esercenti il commercio di cose antiche o usate, omesso di trascrivere nell'apposito registro le operazioni di vendita giornaliere, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze, dopo aver respinto, "allo stato", la richiesta, ha, con tre ordinanze del 31 gennaio 1995 (R.O. 317, 318 e 440 del 1995), sollevato di ufficio, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 17-bis, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, introdotto dall'art. 3 del decreto legislativo 13 luglio 1994, n. 480, "nella parte in cui esclude dalla depenalizzazione la fattispecie relativa alla violazione dell'art. 128 con riguardo alle attività previste dall'art. 126", ora sanzionata penalmente ai sensi dell'art. 17 dello stesso testo unico.
Premette il giudice a quo che, in materia di esercizio del commercio di cose antiche o usate, così come in materia di esercizio del commercio di oggetti preziosi, la disciplina sanzionatoria per le violazioni dell'obbligo di preventiva dichiarazione e di licenza nonché delle prescrizioni indicate dal testo unico di pubblica sicurezza, sono state oggetto di profonda modificazione a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 480 del 1994.
Più in particolare, abrogato l'art. 706 del codice penale in forza dell'art. 13 del predetto decreto legislativo, "la violazione degli obblighi esistenti in materia di commercio di cose antiche e usate" è ora sanzionata dall'art. 17 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, sostituito dall'art. 2 del decreto legislativo n. 480 del 1994 che, relativamente alle violazioni delle disposizioni del testo unico, per le quali non sia stabilita una pena o una sanzione amministrativa, ovvero non provveda il codice penale, commina l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda fino a lire quattrocentomila.
In caso di mancata preventiva dichiarazione all'autorità in ordine al commercio delle cose antiche o usate, l'art. 126 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza interviene, invece, esclusivamente in via amministrativa (ex art. 17-bis del testo unico, quale sostituito dall'art. 3 del decreto legislativo n. 480 del 1994), mentre la violazione delle prescrizioni imposte dall'art. 128 dello stesso testo unico non è stata depenalizzata; e ciò perché l'abrogazione dell'art. 706 del codice penale ha determinato l'applicabilità dell'art. 17, primo comma, del testo unico (come sostituito dall'art. 2 del più volte ricordato decreto legislativo); infine, poiché l'art. 705 del codice penale non è stato, diversamente dall'art. 706, abrogato, la violazione dell'obbligo di preventiva licenza di pubblica sicurezza con riferimento al commercio di cose preziose resta assoggettata alla pena dell'arresto fino a sei mesi o dell'ammenda da lire centomila a lire due milioni; anche se l'art. 705 del codice penale risulta implicitamente non più vigente con riguardo alle violazioni previste dall'art. 128 del testo unico, ora sanzionate in via amministrativa con il pagamento della somma da lire trecentomila a lire due milioni, con eccezione delle attività previste dall'art. 126.
Di conseguenza, "attività relative a due settori molto simili", oggetto precedentemente di una disciplina omogenea in considerazione della corrispondente omogeneità degli interessi protetti (attraverso forme di controllo dirette a prevenire e reprimere reati contro il patrimonio anche in danno degli acquirenti), in forza della disciplina sanzionatoria scaturente dal decreto legislativo n. 480 del 1994 divengono oggetto di un trattamento del tutto ingiustificatamente differenziato; con in più una limitazione dell'iniziativa privata, ulteriormente ingiustificata là dove è contemplata ancora la repressione penale.
2. - Lo stesso Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze, sempre con ordinanza del 31 gennaio 1995 (R.O. 319 del 1995), dopo aver disatteso la richiesta di emissione di decreto penale nei confronti di persona imputata di aver esercitato l'attività di commercio di oggetti preziosi senza la licenza di pubblica sicurezza, reato previsto dall'art. 705 del codice penale, in relazione all'art. 127 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, ha denunciato, ancora una volta in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione ed adottando la stessa motivazione contenuta nelle ordinanze sub 1, l'art. 17-bis del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, introdotto dall'art. 3 del decreto legislativo n. 480 del 1994, "nella parte in cui esclude dalla depenalizzazione le fattispecie relative alla violazione dell'art. 127" dello stesso testo unico, e l'art. 705 del codice penale, "che punisce la mancanza di preventiva licenza per il commercio di cose preziose in riferimento all'art. 127" dello stesso testo unico; nonché l'art. 13 del decreto legislativo n. 480 del 1994, "nella parte in cui non abroga la disposizione dell'art. 705 c.p.".
3. - Richiesto dal pubblico ministero dell'archiviazione per abolitio criminis della notizia di reato riguardante la violazione, da parte di un commerciante di cose antiche, delle norme relative alla tenuta dei registri delle operazioni commerciali, violazione di cui all'art. 128 del testo unico di pubblica sicurezza, lo stesso Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze riteneva di non poter provvedere in conformità, risultando la violazione addebitata all'indagato tuttora rilevante sul piano penale. E ciò in quanto la detta violazione sarebbe stata depenalizzata solo nei confronti dei commercianti di preziosi ma non anche nei riguardi degli esercenti il commercio di cose antiche o usate.
Prima, però, di richiedere la formulazione dell'imputazione, ha sollevato, con ordinanza del 27 febbraio 1995 (R.O. 311 del 1995), in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, adottando le medesime argomentazioni di cui ai precedenti provvedimenti rimessivi, questione di legittimità dell'art. 17-bis del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza "nella parte in cui esclude dalla depenalizzazione la fattispecie relativa alla violazione dell'art. 128 TULPS con riferimento alle attività previste dall'art. 126 TULPS, ora sanzionata penalmente ai sensi del primo comma dell'art. 17 TULPS".
4. - In due dei cinque giudizi (precisamente in quelli instaurati da R.O. 319 del 1995 e 440 del 1995) è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, "con riserva di ulteriori deduzioni", che le questioni siano dichiarate inammissibili.
Considerato in diritto
1. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe. I relativi giudizi vanno, quindi, riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
2. - Comune oggetto di censura è l'art. 17-bis, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza introdotto dall'art. 3 del decreto legislativo 13 luglio 1994, n. 480, "nella parte in cui esclude dalla depenalizzazione la fattispecie relativa alla violazione dell'art. 128, con riguardo alle attività previste dall'art. 126" ora sanzionata penalmente ai sensi dell'art. 17 dello stesso testo unico.
Una ordinanza (precisamente R.O. n. 319 del 1995) denuncia anche l'illegittimità dell'art. 705 del codice penale e dell'art. 13 del decreto legislativo n. 480 del 1994, nella parte in cui, mentre con la prima disposizione, non abrogata, viene sancita l'immanente perseguibilità del commercio non autorizzato di cose preziose, la seconda disposizione - alla lettera a - ha contemplato l'abrogazione dell'art. 706 del codice penale concernente il commercio clandestino di cose antiche.
Le questioni non sono fondate.
3. - Prima di prendere in esame le censure di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo è necessario individuare il quadro normativo in cui le varie denunce si iscrivono, dato che tale quadro appare di non agevole comprensione alla luce delle innovazioni introdotte dal decreto legislativo n. 480 del 1994 con il quale è stata data attuazione alla legge 23 dicembre 1993, n. 562, che ha conferito al Governo la delega per la riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e delle disposizioni ad essa connesse o complementari.
4. - Pure prima delle intervenute innovazioni la disciplina denunciata non si prestava ad una agevole lettura interpretativa per l'intersecarsi di disposizioni codicistiche con disposizioni del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e talora anche del relativo regolamento, in funzione attuativa delle disposizioni del testo unico.
Collocata nell'ambito delle contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio, la disciplina del commercio non autorizzato di cose preziose e del commercio clandestino di cose antiche di cui agli artt. 705 e 706 del codice penale rispondeva ad una ratio di prevenzione analoga a quella alla base dei reati di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, di possesso ingiustificato di valori, di omessa denuncia di cose provenienti da delitto, di vendita o consegna di chiavi o grimaldelli a persona sconosciuta, di apertura arbitraria di luoghi o di oggetti e di acquisto di cose di sospetta provenienza (disciplinati, rispettivamente, dagli artt. 707, 708, 709, 710, 711 e 712 del codice penale).
La comune finalità essenzialmente preventiva di tali fattispecie, mentre aveva modo di concretizzarsi, almeno di regola, per queste ultime ipotesi contravvenzionali, attraverso una compiuta delineazione precettiva nelle previsioni codicistiche, relativamente alle altre ipotesi contravvenzionali risultava non del tutto autosufficiente, tanto da venire integrata, oltre che dal disposto degli artt. 126, 127 e 128 del detto testo unico, anche da talune disposizioni del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635, contenente l'approvazione del regolamento per l'esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773, delle leggi di pubblica sicurezza. E sta qui, soprattutto, la ragione delle difficoltà ermeneutiche cui si è sopra fatto cenno, così da richiedere preliminarmente alla presente decisione un quadro esaustivo della disciplina vigente in materia, quadro che ha alla sua base gli artt. 705 e 706 del codice penale.
5. - L'art. 705 del codice penale punisce con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda da lire duecentomila a lire due milioni chiunque senza licenza dell'Autorità o senza osservare le prescrizioni di legge, fabbrica o pone in commercio cose preziose o compie su di esse operazioni di mediazione o esercita altre simili industrie, atti o attività. Una norma che trova ulteriori specificazioni negli artt. 127 e 128 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza concernenti, il primo, l'individuazione dei soggetti tenuti a munirsi dell'autorizzazione amministrativa (fabbricanti, commercianti, mediatori, cesellatori, orafi, incastonatori di pietre preziose ed esercenti di arti affini, nonché commercianti, fabbricanti ed esercenti stranieri e loro agenti, rappresentanti, commessi viaggiatori o piazzisti che intendano fare commercio nel territorio dello Stato degli oggetti preziosi da essi importati), gli oneri per conseguire la licenza e i requisiti di validità e di durata della licenza stessa; ed il secondo le modalità di compimento delle operazioni, l'obbligo di tenuta del registro giornaliero e di identificazione dell'operatore, nonché il divieto dell'esercente che abbia comprato preziosi di alterarli o alienarli se non dieci giorni dopo l'acquisto, tranne che si tratti di oggetti comprati presso i fondachieri o i fabbricanti ovvero all'asta pubblica.
Sempre in materia di esercizio del commercio di oggetti preziosi, alcune disposizioni del regolamento di esecuzione del testo unico dettano prescrizioni relative sia alla licenza, di cui si sarebbero dovuti provvedere, fra l'altro, tanto gli esercenti abituali quanto gli esercenti occasionali (art. 243) nonché i fabbricanti e i commercianti di articoli con montature o guarnizioni in metalli preziosi, con eccezione dei fabbricanti e dei commercianti di penne stilografiche nelle quali l'impiego di metalli preziosi sia limitato al pennino (art. 244), sia alle indicazioni relative al registro prescritto dall'art. 128 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (art. 247).
Non a caso, dunque, dottrina e giurisprudenza hanno qualificato l'art. 705 del codice penale come norma a carattere (prevalentemente) sanzionatorio delle prescrizioni dettate dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e del relativo regolamento, rispetto alle quali peraltro il regime sanzionatorio previsto dall'art. 17 del testo unico restava non operante, provvedendo a tal fine il codice penale.
6. - A sua volta, l'art. 706 del codice penale (poi abrogato dall'art. 13, lettera a, del decreto legislativo n. 480 del 1994) puniva con la sola ammenda chiunque esercitasse il commercio di cose antiche o usate "senza averne prima fatta dichiarazione all'Autorità quando la legge la richiede o senza osservare le prescrizioni della legge". Anche questa disposizione non risultava dotata di compiuto valore precettivo, trovando una disciplina integrativa, pure qui, sia nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza sia nel relativo regolamento. Più in particolare, l'art. 126 del testo unico (tuttora vigente, come si vedrà) ribadisce il divieto di commercio di cose antiche o usate senza averne fatta dichiarazione preventiva, mentre l'art. 128 contempla una serie di obblighi nell'esercizio delle operazioni, nonché di doveri di esibizione, identici a quelli stabiliti per gli esercenti il commercio di oggetti preziosi.
Ulteriori prescrizioni sono stabilite nel regolamento, talora comuni a quelle gravanti sui commercianti di cose preziose talora dettate specificamente per gli esercenti il commercio di cose antiche o usate, come l'indicazione della sede dell'esercizio con obbligo di comunicazione dell'eventuale trasferimento (art.242).
7. - L'assetto normativo così strutturato ha subito una prima radicale revisione ad opera della sentenza costituzionale n. 121 del 1963, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità "delle norme contenute nei primi quattro commi dell'art. 128 della legge di pubblica sicurezza, nella parte in cui tali norme riguardano operazioni su oggetti preziosi nuovi nel senso esposto in motivazione, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione".
La natura di tale statuizione si raccorda, dunque, inscindibilmente con l'esposizione dei motivi, in grado, quindi, di vincolare in modo incondizionato in sede interpretativa; donde la necessità di ripercorrere qui i vari passaggi della motivazione anche al fine di descrivere in quale misura il sistema normativo risulti in materia modificato.
8. - La Corte, dopo aver chiarito che scopo della norma contenuta nell'art. 128 è il controllo della "circolazione delle cose di valore, al fine di reprimere il commercio clandestino di esse quando provengano da attività criminose ed al fine di contribuire alla prevenzione ed alla scoperta di tali attività" - donde la sua esclusiva rispondenza ad esigenze di pubblica sicurezza - ebbe ad operare un decisivo discrimine tra oggetto prezioso nuovo ed oggetto prezioso usato: un discrimine avente valore determinante ai fini della comprensione della norma denunciata ove si consideri che la nozione di prezioso "nuovo" è fondata "non su concetti fisici ed economici, bensì su concetti giuridici". Oggetto nuovo, nel senso voluto dall'art. 128 (con inevitabili riverberi, non solo sul disposto degli artt. 126 e 127 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, ma anche degli artt. 705 e 706 del codice penale), "è quello che sia stato formato per la prima volta con materia prima o mediante trasformazione di un oggetto usato, quando la trasformazione sia stata così radicale da mutarne il precedente carattere, e sia stato messo in circolazione da un fabbricante munito di licenza a norma del primo comma dell'art. 127" del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza "e ulteriormente scambiato tra soggetti che hanno tale licenza o tra uno di essi e un soggetto non munito di licenza, purché costui abbia la veste di acquirente". In caso contrario, pure se oggetto del commercio siano preziosi, l'acquisto e gli scambi successivi dovranno considerarsi come acquisto e scambio di oggetti usati, "anche se l'oggetto stesso sia nuovo dal punto di vista fisico ed economico". Ed, ancor più puntualmente, "per adoperare un termine non giuridico ma di uso comune, si può dire che la merce è di "seconda mano", in quanto non proviene, come nuova, da una fabbrica o da un esercente abilitato a tale commercio, ma, avendo, per effetto dei precedenti passaggi, esaurito il ciclo dei trasferimenti dal fabbricante al privato acquirente, ha perduto il suo carattere di "oggetto nuovo"". La conclusione è, dunque, nel senso che l'oggetto prezioso "che sia stato messo in circolazione dopo che era pervenuto nelle mani di un privato a causa di un negozio (lecito o illecito) o di un rinvenimento o di un'attività criminosa" non rientra "nella categoria delle cose preziose ma nella categoria degli oggetti usati".
Sta, quindi, nella dilatazione della nozione di oggetto usato e nella conseguente restrizione della nozione di oggetto prezioso la ratio decidendi della dichiarazione di illegittimità dei primi quattro commi dell'art. 128 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
Sotto il profilo della violazione dell'art. 41 della Costituzione, la Corte ebbe a rimarcare come non sia giustificato "pretendere che per comprare cose preziose nuove da un commerciante che ne abbia licenza si debba esibire un documento di riconoscimento e non è giustificato il sistema che la legge impone per le stesse operazioni", con una conseguente ingiustificata limitazione del volume di affari per i commercianti da cui può derivare un danno per la comunità, e con una non necessaria menomazione della libertà dei privati acquirenti assoggettati "a formalità così pesanti e così lesive di quella sfera di riservatezza che deve essere rispettata nei limiti in cui lo consenta la tutela degli interessi della collettività nel campo della sicurezza, dell'economia e della finanza pubblica"; aggravio del tutto ingiustificato per ciò che si riferisce alla polizia di sicurezza.
Una illegittimità incidente pure - concluse la ricordata sentenza - sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza non potendosi "imporre ad una categoria di esercenti una disciplina particolare e più rigorosa di quella stabilità per le categorie similari".
Non si mancò, poi, di ribadire, in presenza di una norma "che si aggiunge alla serie ormai abbastanza nutrita delle disposizioni che hanno perduto la loro originaria integrità testuale", l'auspicio di una revisione sistematica del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
9. - Dal dictum della sentenza n. 121 del 1963 emerge, dunque, un quadro normativo che esonera i commercianti di oggetti preziosi "nuovi" (nel senso indicato da tale decisione) dall'adempimento degli obblighi previsti dall'art. 128, primo, secondo, terzo e quarto comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e cioè dall'obbligo di compiere operazioni soltanto con persone provviste di carta di identità o di altro documento munito di fotografia proveniente dall'amministrazione dello Stato (primo comma), di tenere un registro delle operazioni che compiono giornalmente ed in cui devono essere annotate le generalità di coloro con i quali le operazioni stesse sono compiute (secondo comma), tenuti, a loro volta a dimostrare la loro identità (quarto comma), registro che deve essere esibito agli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza ad ogni loro richiesta (terzo comma).
Le dette disposizioni (al pari di quelle regolamentari che ad esse si riferiscono) trovano, di conseguenza, applicazione esclusivamente nei confronti degli esercenti il commercio di oggetti usati, ivi compresi i "preziosi usati"; solo in tal modo giustificandosi, in relazione alle finalità di pubblica sicurezza che sono alla base dei precetti ora ricordati, una serie di controlli così penetranti come quelli prescritti dalla norma dichiarata parzialmente illegittima.
10. - Nel panorama normativo così verificato dalla più volte ricordata sentenza n. 121 del 1963, si inseriscono, ad oltre venti anni di distanza, le innovazioni introdotte dal decreto legislativo 13 luglio 1994, n. 480.
Il detto testo normativo - emanato in attuazione della legge-delega 21 dicembre 1993, n. 562, al fine di realizzare "una vasta depenalizzazione dei reati minori cercando peraltro di evitare gran parte delle difficoltà incontrate nei precedenti provvedimenti di trasformazione degli illeciti amministrativi" (così la Relazione al disegno di legge-delega, presentato dal Ministro di grazia e giustizia di concerto con il Ministro dell'interno) - prevede anzi tutto, per quel che qui direttamente interessa, la sanzione penale dell'arresto fino a tre mesi o dell'ammenda fino a lire quattrocento mila per le violazioni del testo unico "per le quali non è stabilita una pena o una sanzione amministrativa ovvero non provvede il codice penale" (art. 17, primo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, nel testo sostituito dall'art. 2 del decreto legislativo n. 480 del 1994). A sua volta l'art. 3, comma 1, dello stesso decreto legislativo ha introdotto l'art. 17-bis del medesimo testo unico, il quale al comma 3 dispone che le "violazioni alle disposizioni di cui agli articoli... 126, 128, escluse le attività previste dall'art. 126... sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire trecentomila a lire due milioni". Da detta disposizione - a parte l'oscurità del lessico normativo, di davvero difficile comprensione (sarebbe stato rispondente ad una più rigorosa tecnica legislativa descrivere nominatim i casi di esclusione dalla depenalizzazione) - si può ricavare (anche per la esatta corrispondenza all'art. 1, lettera a della legge-delega) che restano tuttora assoggettate a sanzione penale le violazioni dell'art. 128 del testo unico da parte degli esercenti il commercio di cose antiche o usate (le attività, cioè, disciplinate dall'art 126). L'esigenza di una simile delimitazione appare, del resto, chiarita dalla Relazione al suddetto disegno di legge-delega allorché si precisa come relativamente al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza "la delega prevede un duplice intervento nel senso sia della mera abrogazione di talune fattispecie specificamente individuate (lettera c del comma 1 dell'art. 1), sia di una depenalizzazione a vasto raggio di quei titoli che non risultino del tutto superati per l'intervento di leggi successive o di dichiarazioni di incostituzionalità (lettera a del comma 1 dell'art. 1)". In tale linea direttiva si giustifica la "abrogazione pura e semplice di quelle contravvenzioni che, trovando sostanziale corrispondenza in omologhi precetti del testo unico da sottoporre a depenalizzazione, non potrebbero sopravvivere se non a costo di un'assurda contraddizione. Si tratta delle ipotesi contravvenzionali di cui agli articoli 662 (esercizio abusivo dell'arte tipografica) ed, appunto, 706 (commercio clandestino di cose antiche) del codice penale (lettera c del comma 1 dell'articolo 1)".
Ed infatti l'art. 13, lettera a, del decreto legislativo n. 480 del 1994 ha espressamente previsto l'abrogazione dell'art. 706 del codice penale.
Quanto al richiamo della Relazione al disegno di legge-delega a pronunce di illegittimità costituzionale, esso non può non essere inteso in riferimento alla più volte ricordata sentenza n. 121 del 1963; tanto più che sempre dalla stessa Relazione risulta che pure con riguardo alle contravvenzioni previste dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, alla depenalizzazione generalizzata avrebbero dovuto corrispondere "alcune eccezioni giustificabili con il rango degli interessi in gioco".
E ciò anche se della ridetta pronuncia di questa Corte non risulta menzione né nella Relazione alla legge-delega né nei lavori preparatori del decreto legislativo n. 480 del 1994.
Resta comunque, quale presupposto alla base dell'attuale disciplina del commercio di oggetti preziosi e del commercio di oggetti antichi e usati, la permanente operatività della parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 128 del testo unico; pure se non può non essere rilevato come una corretta previsione normativa avrebbe dovuto comportare un intervento sull'art. 128 del testo unico, al fine di escludere qualsivoglia sanzione per la violazione dei precetti di cui ai primi quattro commi relativamente agli esercenti il commercio di oggetti preziosi nuovi.
11. - Gli equivoci a cui la non chiara lettera dell'art. 17-bis, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza può dar luogo appaiono evidenti dalla semplice lettura di una delle ordinanze di rimessione (precisamente R.O. n. 331 del 1995). Di fronte all'addebito elevato nei confronti di un commerciante di cose antiche concernente l'omessa tenuta del registro delle operazioni commerciali, il pubblico ministero aveva infatti richiesto l'archiviazione, assumendo l'avvenuta depenalizzazione dell'art. 128 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, in forza dell'art. 3, comma 3, del decreto legislativo n. 480 del 1994. In tre altri casi, riguardanti un'analoga violazione, il pubblico ministero aveva, invece, domandato l'emissione del decreto penale (R.O. 317, 318 e 440 del 1995).
A tutte le dette richieste dei pubblici ministeri, peraltro, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze ha risposto sollevando questione di legittimità costituzionale dell'art. 17-bis, comma 3, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, nella parte in cui esclude dalla depenalizzazione le violazioni dell'art. 128 dello stesso testo unico commesse dai commercianti di cose antiche o usate.
12. - Senonché, pur dovendosi condividere la scelta interpretativa quanto all'immanenza nei confronti degli esercenti il commercio di cose antiche e usate della sanzione penale prevista dall'art. 128, non altrettanto rigorosa appare, invece, la lettura della norma assunta quale tertium comparationis in relazione alla denunciata violazione del principio di eguaglianza: e cioè quella risultante dal combinato disposto degli artt. 17-bis, comma 3, 127 e 128 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza relativamente alle stesse violazioni addebitabili con riferimento agli esercenti di oggetti preziosi. Una simile prospettazione, infatti, non tiene conto del decisum della sentenza costituzionale n. 121 del 1963, che, nel dichiarare l'illegittimità dei primi quattro commi dell'art. 128 per la parte riguardante le operazioni su oggetti preziosi nuovi, ha precisato come la cosa preziosa se non più nuova, nel senso chiarito in motivazione, rientra nel novero delle cose usate, in ordine alle quali trova piena giustificazione, considerate le esigenze teleologiche alla base dell'art. 128, la repressione penale delle violazioni.
Di qui la conclusione che la norma denunciata, così come interpretata alla stregua della sentenza n. 121 del 1963, non contrasta con la Costituzione per nessuno dei parametri invocati. Non con l'art. 3 della Costituzione, perché la serie di controlli previsti dalla norma più volte richiamata si giustifica soltanto nei confronti degli esercenti il commercio di cose antiche e usate (ivi comprese le cose preziose usate) e non anche nei confronti degli esercenti il commercio di preziosi (nuovi). E non con riguardo all'art. 41 della Costituzione, perché, stanti le finalità di pubblica sicurezza poste a fondamento della norma che si assume violata nei procedimenti a quibus, non risulta irragionevole (argomentando a contrario dalla sentenza n. 121 del 1963) un sistema di controlli diretti a prevenire la commissione di reati contro il patrimonio.
13. - Non fondata è pure la questione di legittimità degli artt. 705 del codice penale e 13 del decreto legislativo n. 480 del 1994 nella parte in cui il primo contempla tuttora la repressione penale del commercio non autorizzato di cose preziose ed il secondo ha corrispondentemente depenalizzato il solo art. 706 del codice penale e non anche l'art. 705 dello stesso codice.
La scelta legislativa non appare, infatti, irragionevole ove si consideri la necessità di una maggiore tutela connessa all'autorizzazione all'esercizio del commercio di cose preziose (nuove) rispetto all'autorizzazione all'esercizio del commercio di cose antiche usate. Si tratta di un giudizio di valore che non può definirsi arbitrario, dato che esso già emerge dalla semplice comparazione della sanzione prevista dall'ancora vigente art. 705 del codice penale (arresto fino a tre mesi o ammenda da lire centomila a lire due milioni) rispetto alla pena prevista invece dall'abrogato art. 706 dello stesso codice (ammenda da lire ventimila a lire duecentomila).
Il che esclude anche la dedotta violazione dell'art. 41 della Costituzione, intrinsecamente collegata, come essa appare, alla inosservanza dell'art. 3.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17-bis, comma 3, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), nel testo introdotto dall'art. 3 del decreto legislativo 13 luglio 1994, n. 480 (Riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze con tre ordinanze del 31 gennaio 1995 (R.O. 317, 318 e 440 del 1995) ed una ordinanza del 27 febbraio 1995 (R.O. 311 del 1995);
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 705 del codice penale e dell'art. 13 del decreto legislativo 13 luglio 1994, n. 480 (Riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Firenze con ordinanza del 31 gennaio 1995 (R.O. 319 del 1995).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 gennaio 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 29 gennaio 1996.