SENTENZA N. 414
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 589 del codice penale in relazione all'art. 4 della legge 2 dicembre 1975, n. 644 (Disciplina dei prelievi di parti di cadavere a scopo di trapianto terapeutico e norme sul prelievo dell'ipofisi da cadavere a scopo di produzione di estratti per uso terapeutico), e agli artt. 1 e 2 della legge 29 dicembre 1993, n. 578 (Norme per l'accertamento e la certificazione di morte), promosso con ordinanza emessa il 21 settembre 1994 dal GIP presso la Pretura circondariale di Rovigo nel procedimento penale a carico di Evstifeev Doriano, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 1995;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 28 giugno 1995 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Evstifeev Doriano, imputato di omicidio colposo, il GIP presso la Pretura circondariale di Rovigo, con ordinanza emessa l'8 ottobre 1993, aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 589 del codice penale, nella parte in cui il precetto penale di tale norma incriminatrice viene esteso ad una nozione di morte diversa da quella codicistica, e rinvenibile nell'art. 4 della legge 2 dicembre 1975, n. 644. Questa Corte, con ordinanza n. 237 del 1994, ha restituito gli atti al giudice a quo affinchè provvedesse al riesame della rilevanza della questione alla stregua dello ius superveniens rappresentato dalla legge 29 dicembre 1993, n. 578, recante norme per l'accertamento e la certificazione di morte.
Con ordinanza emessa il 21 settembre 1994 lo stesso giudice a quo ha nuovamente rimesso gli atti a questa Corte, osservando che anche alla luce della nuova legge la questione è tuttora rilevante ai fini della decisione.
Invero, l'art. 1 della sopravvenuta legge stabilisce che la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, mentre il successivo art. 2, rubricato "Accertamento di morte", pur distinguendo la morte (avvenuta) per arresto cardiocircolatorio dalla morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche, ribadisce che la morte si intende avvenuta quando sono cessate tutte le funzioni dell'encefalo.
Appare pertanto evidente, rileva il giudice a quo, che sia la norma di cui all'art. 4 della legge 2 dicembre 1975, n. 644, che quelle di cui agli artt. 1 e 2 della sopravvenuta legge n. 578 del 1993, consentono di pervenire ad un'unica conclusione, e cioè che all'imputato viene addebitato a titolo di reato un fatto diverso da quello previsto dall'originario precetto penale di cui all'art. 589 del codice penale: quest'ultimo, infatti, fa riferimento alla morte naturalisticamente intesa in quanto, fino all'avvenuto prelevamento da parte dei sanitari degli organi della vittima "il suo cuore continuerà a battere, il suo sangue a circolare, ed i suoi polmoni a respirare, sia pure in modo assistito".
In punto di non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo, nel riportarsi alle argomentazioni già contenute nella prima delle due ordinanze di rimessione, osserva, in particolare, che l'art. 589 del codice penale, interpretato nel senso che il precetto penale in esso contenuto si estende fino a ricomprendere la morte di cui all'art. 4 della legge n. 644 del 1975, implicitamente sostituito dagli artt. 1 e 2 della legge n. 578 del 1993, si pone in contrasto con l'art. 25 della Costituzione, in quanto l'interpretazione della norma censurata sfocerebbe in un procedimento analogico in malam partem non consentito nella materia penale.
2. - Nel giudizio avanti a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità ovvero per la manifesta infondatezza della questione.
Preliminarmente, osserva l'Avvocatura che il giudice rimettente mira ad ottenere una non con sentita pronuncia additiva in materia penale volta ad integrare, nei sensi previsti dall'ordinanza, il precetto penale di cui all'art. 589 del codice penale.
In secondo luogo si tratterebbe di una questione meramente interpretativa della vigente disciplina che, come tale, è rimessa alla prudente valutazione dello stesso giudice a quo.
Nel merito, la difesa erariale afferma che la legge, nell'intendere come "morte" la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, ha recepito quanto già autorevolmente sostenuto in dottrina, secondo la quale la nozione di morte è unica e consiste nell'arresto di ogni attività del sistema nervoso, mentre i concetti di morte "cerebrale", "cardiaca" o "respiratoria" (art. 2, comma 1 e 2, della legge n. 578 del 1993) si riferiscono esclusivamente ai modi di accertamento del momento finale della vita.
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza di rimessione, che ha dato luogo alla restituzione degli atti da parte di questa Corte mediante ordinanza n. 237 del 1994, il giudice rimettente, nella prospettiva che l'imputato potrebbe essere condannato per omicidio colposo pur non avendo causato la situazione che il legislatore del 1930 aveva inteso come "morte", sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 589 del codice penale denunziando: a) violazione del principio di divieto di analogia in malam partem; b) irragionevole assoggettamento di fatti diversi alla medesima sanzione o applicazione di norme diverse allo stesso evento letale; c) violazione del principio della personalità della responsabilità penale, dovendosi addebitare ad un soggetto un evento dipendente da fatto altrui (in particolare, dei medici espiantanti).
Con altra ordinanza di rimessione, lo stesso GIP presso il Tribunale di Rovigo, nel ritenere persistente, anche alla luce della recente disciplina, la rilevanza della stessa questione e confermando, sintetizzandoli, i motivi di legittimità costituzionale precedentemente esposti, osserva che la norma incriminatrice (art. 589 del codice penale) punisce il delitto di omicidio colposo con riferimento ad una nozione di morte che, secondo la conoscenza e la volontà del legislatore del 1930, corrisponde ad una concezione di ordine naturalistico, in quanto connessa al concorso della cessazione delle tre funzioni superiori (cardiaca, respiratoria e cerebrale). Oggi, invece, essendo possibile, in forza di sofisticate tecniche di rianimazione, protrarre notevolmente la circolazione sanguigna, il battito cardiaco e la respirazione, la diversa nozione di morte sarebbe identificata dalla legge 29 dicembre 1993, n. 578, solo nell'irreversibile venir meno delle funzioni cerebrali, ancorchè sia ancora in atto la circolazione sanguigna, il cuore continui a battere e non sia cessata la respirazione.
Ciò posto, il giudice rimettente, considerato che "vi è la prova in atti che la vittima dell'incidente stradale, nel momento in cui furono prelevati gli organi, dal punto di vista naturalistico nel senso sopra chiarito era ancora viva", rileva che, per collegare l'evento morte al comportamento del conducente del veicolo e non alla cessazione delle pratiche di rianimazione ed all'espianto degli organi, occorrerebbe dilatare, mediante un non consentito procedimento analogico, il precetto della norma incriminatrice, riferentesi alla morte naturalisticamente intesa, fino a ricomprendervi il diverso fatto di "morte cerebrale". Da ciò deriverebbero ulteriori conseguenze relative all'identificazione dei soggetti che hanno posto in essere l'effettiva causa dell'evento letale diversamente concepito, peraltro con disparità di trattamento nei vari casi di morte. Il che per il giudice a quo determinerebbe l'illegittimità costituzionale del citato art. 589 del codice penale in relazione sia all'art. 4 della legge 2 dicembre 1975, n. 644, che agli artt. 1 e 2 della legge n. 578 del 1993.
2. - La questione è infondata.
Va anzitutto esaminato se nella specie si verifichi la denunziata ipotesi di applicazione analogica di una norma in materia penale, con violazione del principio di stretta legalità.
Il problema giuridico che è alla base dell'ordinanza di rimessione attiene alla presunta illegittimità della estensione della stessa norma incriminatrice ad un diverso fatto previsto da norme successive, in quanto l'art. 589 del codice penale, nel prevedere la responsabilità di chi "cagiona per colpa la morte di un uomo" farebbe riferimento a quella determinata nozione di morte che la scienza medica riteneva valida al momento dell'emanazione della norma stessa e ai metodi di accertamento previsti dal regolamento di polizia mortuaria allora vigente.
Devono in proposito premettersi alcuni principi relativi al noto fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonchè a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali.
Si ritiene in queste ipotesi che il rinvio, anche implicito, ad altre fonti o ad esterni contrassegni naturalistici non violi il principio di legalità della norma penale - ancorchè si sia verificato mutamento di quelle fonti e di quei contrassegni rispetto al momento in cui la legge penale fu emanata - una volta che la reale situazione non si sia alterata sostanzialmente, essendo invece rimasto fermo lo stesso contenuto significativo dell'espressione usata per indicare gli estremi costitutivi delle fattispecie ed il disvalore della figura criminosa. In tal caso l'evolversi delle fonti di rinvio viene utilizzato mediante interpretazione logico- sistematica, assiologica e per il principio dell'unità dell'ordinamento, non in via analogica, come sostiene il giudice a quo.
3. - In materia è appunto sopravvenuta l'opportunità di indicare legislativamente il concetto di morte ed i metodi di accertamento, con la conseguenziale chiarificazione del senso della originaria norma incriminatrice. Se invero nel 1930 il legislatore non aveva sentito l'esigenza di precisare la nozione di morte, rimettendosi agli orientamenti della scienza medica, in base alla quale furono stabiliti (mediante il regolamento di polizia mortuaria) i criteri da seguire prima della chiusura dei cadaveri, il successivo sviluppo delle conoscenze scientifiche e dei perfezionamenti tecnologici, anche in relazione alle misure di rianimazione e di realizzazione dei trapianti di organi vascolarizzati, ha posto la necessità per il diritto di riconsiderare quei dati scientifici ed operare delle scelte, introducendo per via legislativa una nozione di morte ed ampliando i criteri per il suo accertamento.
Come è noto, la cessazione della vita della persona umana è un fenomeno graduale che passa da una situazione relativa all'"individuo" (cessazione reversibile, e poi irreversibile, delle funzioni superiori del cuore, della respirazione, del cervello) ad una situazione di cessazione assoluta di vita di tutto l'"organismo". Mentre questa seconda situazione (c.d. biologica) costituisce un dato finale ed obiettivo, la prima (c.d. morte clinica) implica delle opzioni del legislatore che tengano conto, per un verso, della certezza del processo irreversibile dell'estinzione della vita e, per altro, della tempestività dell'accertamento, tale da non pregiudicare l'utilizzabilità degli organi da trapiantare. In realtà, il problema di determinare quale sia il momento decisivo per ritenere, a tutti gli effetti, estinta la persona umana, costituisce oggetto della attenta valutazione del legislatore, il quale è chiamato a ponderare, all'interno di una logica di prudente apprezzamento, non solo i dati della scienza medica, ma anche il complesso quadro dei valori di riferimento, in sintonia altresì con le altre norme dell'ordinamento, nonchè con i principi deontologici e l'espressione del comune sentire.
4. - Allo stato attuale della scienza e del prevalente pensiero, può dirsi che la recente legge n. 578 del 1993, nel riflettere i progressi scientifici ed al fine di conseguire risultati di solidarietà sociale ed esigenze di fondamentale giustizia (rispetto della vita, unicità del concetto di decesso, certezza della irreversibilità di estinzione della persona), non si ponga in contrasto con norme e principi costituzionali per quanto concerne il circoscritto oggetto del presente giudizio, attinente alla chiarificazione della nozione di morte e l'indicazione dei criteri di accertamento della stessa.
In particolare, è sufficiente accennare che l'art. 1 della legge identifica l'unico concetto di morte nella "cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo", e i successivi artico li indicano i metodi di accertamento, anche distinguendo fra le diverse cause patologiche: sempre, tuttavia, nell'ipotesi che le stesse siano tali da comportare la predetta cessazione. Si ritiene invero che, estinguendosi irreversibilmente ogni funzionalità del "tronco cerebrale", si determina la disgregazione di quella unitarietà organica che distingue la persona da un insieme di parti anatomiche, ancorchè singolarmente vitali. Il successivo regolamento (emanato con d.m. 22 agosto 1994, n. 582) precisa ulteriormente le moderne modalità dell'accertamento.
Nel ricondurre quindi ad unità la definizione della morte, in cui confluiscono i vari tipi di accertamento, il legislatore ha inteso superare i dubbi circa sostanziali discriminazioni, fornendo normativamente il significato attuale che, a tutti gli effetti giuridici, assume nel nostro ordinamento il termine fattuale "morte", di cui all'art. 589 del codice penale.
Queste non irragionevoli opzioni legislative, sia pure esterne alla disposizione contenuta nel codice penale e successive alla emanazione dello stesso, devono pertanto essere qualificate come facenti parte della descrizione del fatto (evento morte), senza che ciò dia luogo ad alcuna violazione del principio di stretta legalità di cui all'art. 25 della Costituzione.
Le precedenti considerazioni valgono ad escludere anche le lamentate violazioni degli articoli 3 e 27 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 589 del codice penale, in relazione agli artt. 4 della legge 2 dicembre 1975, n. 644 (Disciplina dei prelievi di parti di cadavere a scopo di trapianto terapeutico e norme sul prelievo dell'ipofisi da cadavere a scopo di produzione di estratti per uso terapeutico), 1 e 2, comma 2, della legge 29 dicembre 1993, n. 578 (Norme per l'accertamento e la certificazione di morte), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dal GIP presso la Pretura circondariale di Rovigo, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 1995.
Antonio BALDASSARRE, Presidente
Fernando SANTOSUOSSO, Redattore
Depositata in cancelleria il 27 luglio 1995.