SENTENZA N. 390
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, e 26, commi 1, 2 e 3, della legge 29 gennaio 1986, n. 21 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti), nonchè dell'art. 9 della legge 5 marzo 1990, n. 45 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti), promosso con ordinanza emessa il 17 agosto 1994 dal Pretore di Bologna, sezione distaccata di Imola, nel procedimento civile vertente tra Zapparata Vittorio e la Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, iscritta al n. 673 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visto l'atto di costituzione della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei dottori commercialisti, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice relatore Cesare Ruperto;
udito l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento civile promosso da Zapparata Vittorio contro la Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, al fine di sentir dichiarare il proprio diritto ad ottenere il relativo trattamento pensionistico di vecchiaia a partire dal mese di luglio del 1992, il Pretore di Bologna, sezione distaccata di Imola, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza emessa il 17 agosto 1994, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione - degli artt. 2, comma 1, e 26, commi 1, 2 e 3 della legge 29 gennaio 1986, n. 21 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti), nonchè dell'art. 9 della legge 5 marzo 1990, n. 45 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti), in quanto modificativi in senso peggiorativo della precedente disciplina dettata dalla legge 23 dicembre 1970, n. 1140, relativa ai requisiti minimi di età e di contribuzione richiesti per il conseguimento del trattamento pensionistico.
Affermata la rilevanza della questione, in quanto il ricorrente (nato il 6 giugno 1922) avrebbe avuto diritto alla pensione di vecchiaia in base alla normativa di cui alla legge n. 1140 del 1970 ma non secondo quella nuova di riforma - avendo compiuto il 65o anno di età dopo l'entrata in vigore della legge n. 21 del 1986, senza che a quella data fosse maturato il requisito dei 25 anni di iscrizione e contribuzione, ed avendo maturato i 20 anni di iscrizione e contribuzione solo alla fine del 1991 nell'imminenza del compimento del 70o anno di età -, osserva il giudice remittente come la riforma introdotta con la legge n. 21 del 1986 (che, all'art. 2, ha prolungato di cinque anni il periodo minimo di contribuzione richiesto rispettivamente al raggiungimento del 65o e del 70o anno di età) abbia inciso negativamente su posizioni sostanziali di aspettativa del diritto, quale quella di cui al giudizio a quo. E ciò, pur nella previsione (risultante dagli artt. 26 della legge n. 21 del 1986 e 9 della legge n. 45 del 1990) di un regime transitorio di tutela di coloro tra gli iscritti che fossero in procinto di ottenere il trattamento secondo i vecchi criteri.
Con riguardo al primo profilo rileva il remittente che - conformemente alla giurisprudenza della Corte costituzionale - non può dirsi consentita una modificazione legislativa la quale, intervenendo in una fase avanzata del rapporto di lavoro, venga a peggiorare, senza una inderogabile esigenza, in misura notevole ed in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività lavorativa.
Con riguardo al secondo profilo, osserva lo stesso remittente come la disciplina transitoria prevista dai citati artt. 26 della legge n. 21 del 1986 e 9 della legge n. 45 del 1990, pur essendo diretta ad evitare mutamenti in senso peggiorativo di situazioni in corso di maturazione, rimane irrazionalmente inapplicabile ai casi - del tutto assimilabili a quelli contemplati dalle norme - quali quello oggetto del giudizio a quo (in cui il soggetto iscritto alla Cassa, che abbia maturato i requisiti di età e di contribuzione oltre i termini previsti dalle disposizioni de quibus, ha la sola alternativa di richiedere la restituzione dei contributi ovvero di attendere il maturarsi dei requisiti minimi). Casi che perciò resterebbero caratterizzati dalla lamentata compressione delle aspettative.
2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la declaratoria d'inammissibilità o, in subordine, d'infondatezza della questione. In una memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, osserva l'Avvocatura come l'innalzamento del periodo minimo di effettiva iscrizione e contribuzione risponda alle esigenze economiche della Cassa di previdenza de qua ed alla necessità di adeguare i suddetti limiti a quelli già previsti per le altre casse di previdenza dei liberi professionisti, nel contesto di un più ampio disegno del legislatore volto a porre una disciplina unitaria delle diverse categorie professionali.
Sottolinea, inoltre, che i diritti quesiti dei soggetti interessati sono tutelati - nel pieno rispetto del principio di uguaglianza proprio dalla censurata disciplina transitoria, specificamente diretta ad evitare mutamenti in senso peggiorativo delle situazioni in corso di maturazione.
3. - Si è costituita in giudizio la Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti, osservando che l'aspettativa alla pensione di vecchiaia - diritto soggettivo a formazione progressiva ovvero sottoposto a termine - risulta comunque tutelata attraverso l'istituto dell'automaticità della prestazione, che si consegue al verificarsi dei relativi fatti costitutivi, cioè della maturazione dell'età pensionabile e del minimo contributivo richiesto: la cui determinazione risulta in ogni caso necessaria per la configurabilità di una qualsiasi garanzia dello stesso diritto alla pensione, sia pure nelle forme della aspettativa. Se così non fosse - aggiunge la Cassa - il legislatore si troverebbe impossibilitato a varare qualsiasi tipo di riforma in materia previdenziale che muti in peius le condizioni per ottenere la pensione: il diritto alla quale non comporta certo che il soggetto abbia un'assicurazione a vita sull'immutabilità delle norme che ne regolano l'attribuzione. Secondo la deducente, è del tutto ragionevole la riforma attuata dalla normativa de qua, chiaramente intesa alla garanzia del diritto di tutti gli iscritti a godere del trattamento di vecchiaia, attraverso un più equo reperimento delle risorse finanziarie; donde l'insussistenza della denunciata violazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione.
Considerato in diritto
1. - Il Pretore di Bologna, sezione distaccata di Imola, ha sollevato questione di legittimità - in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione - dell'art. 2, comma 1, della legge 29 gennaio 1986, n. 21, nella parte in cui ha prolungato di cinque anni il periodo minimo, originariamente stabilito dall'art. 5 della legge n. 1140 del 1970, richiesto per ottenere la pensione di vecchiaia da parte dei dottori commercialisti al raggiungimento del sessantacinquesimo o del settantesimo anno di età, elevandolo rispettivamente a trenta e venticinque anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore degli stessi dottori commercialisti, con ciò venendo ad incidere in senso peggiorativo su situazioni sostanziali di aspettativa di diritto sorte in capo agli iscritti alla Cassa nella vigenza della normativa riformata.
Il giudice a quo, con riferimento agli stessi parametri costituzionali sopra menzionati, ha altresì censurato il combinato disposto degli artt. 26, commi 1, 2 e 3, della legge n. 21 del 1986 e 9 della legge n. 45 del 1990, in quanto non includono nel proprio àmbito di applicazione quegli iscritti, quali il ricorrente nel giudizio a quo, che abbiano raggiunto i limiti minimi di iscrizione e di contribuzione alla Cassa, previsti dalla nuova normativa, in un momento successivo ai periodi contemplati dalla disciplina transitoria.
2. - Le due questioni, strettamente connesse fra loro e perciò da esaminare congiuntamente, non sono fondate.
Questa Corte ha già avuto occasione di affermare (v. sentenze n. 573 del 1990, n. 822 del 1988 e n. 349 del 1985) che nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione). Unica condizione essenziale è che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto.
3. - Ebbene, la denunciata normativa ha osservato detta condizione essenziale e dunque deve ritenersi esente dalle prospettate censure.
Giova notare che il legislatore ha introdotto la nuova disciplina nel quadro d'una più generale riforma della previdenza dei liberi professionisti, che ha segnato nel tempo il passaggio dalla fase della mutualità a quella della solidarietà, contrassegnata da un diverso utilizzo delle risorse finanziarie in base al criterio della gestione a ripartizione. Il che ha fra l'altro comportato la necessità di elevare il numero degli anni di effettiva iscrizione alla Cassa e di contribuzione per ottenere la pensione di vecchiaia.
Con ciò si è ovviamente venuti ad incidere in senso peggiorativo su pregresse posizioni assicurative in itinere. Ma è innegabile che il più severo regime dei requisiti di concedibilità della pensione trovi razionale giustificazione nell'inderogabile esigenza di assicurare un equilibrato andamento del bilancio della Cassa di previdenza dei dottori commercialisti ed ovviare così all'insorgenza di notevoli difficoltà finanziarie (v. relazione del presidente della Commissione lavoro del Senato in data 25 settembre 1985), che avrebbero potuto riflettersi sulla capacità stessa di effettuare in futuro le prestazioni pensionistiche a tutti gli aventi diritto.
D'altronde, la stessa struttura di tipo solidaristico di sistemi pensionistici, come appunto quelli dei liberi professionisti (v. sentenze n. 88 del 1995 e n. 133 del 1984), comporta una non necessaria corrispondenza tra i contributi versati e le prestazioni erogate. Al che consegue anche la insussistenza di un diritto dell'iscritto alla intangibilità del trattamento pensionistico vigente nel momento in cui ebbe inizio l'iscrizione.
Nè con ciò può venirsi a configurare una lesione dell'art. 38 della Costituzione, per il cui rispetto infatti è sufficiente che al lavoratore siano attribuite adeguate prestazioni previdenziali (v. sentenza n. 307 del 1989). Le quali, nella fattispecie, appaiono sufficientemente garantite dalla possibilità del ricorrente (sottolineata anche nell'ordinanza di rimessione) di attendere il maturarsi dei requisiti minimi, salvo a richiedere la restituzione dei contributi versati, ex art. 21 della legge n. 21 del 1986.
4. - Il legislatore, comunque, non ha mancato di predisporre un'adeguata tutela a favore di quei soggetti le cui aspettative, maturate durante l'iter di formazione progressiva del diritto al trattamento di vecchiaia, avevano raggiunto un elevato livello di consolidamento. Essa è stata contestualmente approntata mediante la specifica previsione di un graduale regime transitorio, contenuto nel pure denunciato art. 26 della citata legge n. 21 del 1986 (come successivamente interpretato ed integrato dall'art. 9 della legge n. 45 del 1990).
Trattasi di una previsione normativa che appare adeguata al prefisso scopo di consentire che il nuovo regime istituito si coordinasse al precedente in modo da evitare la vanificazione di aspettative già legittimamente createsi ed, insieme, irragionevoli disparità di trattamento fra gli assicurati prossimi alla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia.
Se poi alcuni soggetti, come il ricorrente nel giudizio a quo, sono rimasti fuori da tale previsione, ciò è avvenuto perchè le loro aspettative - secondo il non irrazionale criterio di valutazione seguito dal legislatore, nell'ottica di una opzione discrezionale - non erano pervenute ad un livello di consolidamento così elevato da creare quell'affidamento da questa Corte ritenuto di valore costituzionalmente protetto nella conservazione dell'attuale trattamento pensionistico.
Per escludere la lamentata disparità di trattamento, basta considerare l'evidente disomogeneità fra le posizioni normativamente previste e quella del ricorrente nel giudizio a quo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, e 26, commi 1, 2 e 3 della legge 29 gennaio 1986, n. 21 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti), nonchè dell'art. 9 della legge 5 marzo 1990, n. 45 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti), sollevata, in relazione agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dal Pretore di Bologna, sezione distaccata di Imola, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 1995.
Antonio BALDASSARRE, Presidente
Cesare RUPERTO, Redattore
Depositata in cancelleria il 26 luglio 1995.