Sentenza n. 379 del 1995

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SENTENZA N. 379

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 23 febbraio 1961, n. 215 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959), promosso con ordinanza emessa il 6 maggio 1994 dalla Corte di cassazione sui ricorsi riuniti proposti da Maffi Aldo ed altro, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 giugno 1995 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1. -- La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 23 febbraio 1961, n. 215, nella parte in cui, dando esecuzione alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, consente, in connessione con il precedente art. 3, l'esperimento di rogatorie all'estero, disposte in fase dibattimentale, senza garantire la presenza del difensore dell'imputato.

2. -- Premette il giudice a quo che nel caso sottoposto al suo esame è applicabile la Convenzione di Strasburgo del 20 aprile 1959, sottoscritta e resa esecutiva in Italia con legge 23 febbraio 1961, n. 215 (art. 2), e operante nei confronti della Francia dal 23 maggio 1967, dopo la ratifica da parte di quest'ultima.

Detta Convenzione, all'art. 3, dispone che lo Stato richiesto farà eseguire <<nelle forme previste dalla propria legislazione>> le rogatorie relative a procedimenti penali a lui dirette dall'autorità giudiziaria dello Stato richiedente.

Al successivo art. 4 dispone che le autorità e <<le persone in causa>> potranno assistere all'esecuzione della rogatoria se lo Stato richiesto <<vi consente>>. Norma che va interpretata in connessione con il precedente art. 3, nel senso che lo Stato richiesto, ove la propria legislazione lo preveda, può consentire o meno la presenza, all'assunzione della prova, delle <<autorità>> e delle <<persone in causa>>, senza garantire il diritto all'assistenza del difensore, anche ove tale diritto sia inderogabilmente garantito dall'ordinamento dello Stato richiedente.

Avendo l'Italia reso esecutiva detta Convenzione, ne deriva, secondo la Corte di cassazione, che le rogatorie eseguite in conformità di essa e della legislazione dello Stato richiesto, sono utilizzabili nel processo penale, ponendosi la legge di esecuzione come norma speciale -- in conformità a quanto stabilito dall'art. 696 del codice di procedura penale -- rispetto alle norme processuali generali in tema di assunzione della prova.

3. -- Ciò premesso, il remittente rileva che la Corte costituzionale, già in riferimento al precedente codice di procedura penale, sin dalle sentenze n. 63 e 64 del 1972, ha ritenuto che, mentre non viola di regola l'art. 24 della Costituzione l'assunzione di prove testimoniali in istruttoria senza la presenza del difensore, tale presenza deve essere inderogabilmente garantita -- perchè non ne risulti violato l'art. 24 della Costituzione -- ove si tratti di prove non ripetibili in dibattimento alla presenza del difensore.

Da tali decisioni si evincerebbe il principio che l'art. 24 della Costituzione impone che la prova da utilizzare, non a meri fini istruttori, ma ai fini della decisione, debba essere necessariamente assunta con la partecipazione del difensore. Osserva ancora il remittente, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il diritto di difesa, in quanto ineludibile garanzia di assistenza tecnico- professionale, deve essere assicurato in modo effettivo ed è tra i diritti considerati dalla Costituzione inviolabili ed irrinunciabili.

In tale contesto la presenza del difensore alla prova non avrebbe solo lo scopo di garantire il contraddittorio, ma anche la stessa legalità formale e sostanziale dell'assunzione, rientrando fra i compiti del difensore quello di tutelare l'imputato attraverso l'irrinunciabile controllo, tecnico-professionale, che la prova sia assunta in effettiva conformità alle regole processuali, con particolare riferimento a quelle che ne assicurano la <<genuinità>>.

Viene, infine, richiamata la sentenza n. 436 del 1990, con la quale questa Corte ha affermato l'essenzialità, ai fini della garanzia del diritto di difesa, del ruolo del difensore in sede d'incidente probatorio, in relazione all'equiparazione della prova ivi assunta a quella assunta in dibattimento. Ne risulterebbe confermata, indirettamente, ma espressamente, la necessità della presenza del difensore per l'assunzione delle prove in fase dibattimentale, in relazione alla tutela del diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione. In conclusione la Corte remittente ritiene non manifestamente infondato il dubbio che la norma in esame, consentendo l'utilizzazione di prove testimoniali assunte, in fase dibattimentale, attraverso rogatorie internazionali che non garantiscono la presenza del difensore dell'imputato, comprometta il diritto di difesa in maniera irreversibile, con sentendo di fondare la decisione su prove assunte in violazione dell'art. 24 della Costituzione.

4. -- È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza (recte: inammissibilità) della questione.

Rileva l'Avvocatura che la questione, così come formulata, appare priva del requisito della rilevanza, perchè ciò che nel caso in esame viene in discussione non è la legge di esecuzione e di autorizzazione alla ratifica dell'indicata Convenzione, nè le disposizioni del codice di rito concernenti la valutazione degli effetti che al mezzo di prova assunto per rogatoria possono essere riconosciuti nell'ordinamento interno, ma esclusivamente il risultato pratico di una singola domanda di cooperazione.

La valutazione dell'attività espletata, ossia il riconoscimento degli effetti giuridici dell'atto assunto per rogatoria, prosegue l'Avvocatura deve essere condotta alla stregua della legge dello stato richiedente e, quindi, nel caso in esame, secondo le norme del codice di rito concernenti la valutazione della prova, interpretate alla luce dei principi generali dell'ordinamento della Repubblica (ai sensi degli artt. 671, primo comma, n. 3, del codice Rocco, e 733 del codice vigente, applicabili analogicamente), i quali esplicitano meglio il concetto di ordine pubblico, di cui all'art. 31 delle preleggi.

In sostanza il giudice nazionale dovrebbe procedere ad una eventuale valutazione della contrarietà ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico dell'atto assunto per rogatoria, accertare se il contenuto dello stesso, per le modalità con cui si è formato, si risolva o meno in un corpo estraneo al nostro sistema. E tale accertamento, di esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria, andrebbe condotto secondo le regole che concernono nel nostro ordinamento la valutazione della prova, senza che possa assumere alcuna rilevanza l'indicata legge di esecuzione, la quale si è limitata a predisporre per le autorità nazionali (cui spetta la valutazione dell'opportunità e della eventuale rilevanza del mezzo formante oggetto della domanda di rogatoria) uno strumento di cooperazione giudiziaria in materia penale.

In conseguenza, la circostanza che il risultato pratico della cooperazione si sia nel caso di specie risolto, come assume il giudice di legittimità, nell'assunzione di un atto nullo (o inutilizzabile) per il nostro ordinamento, indicherebbe solo i limiti della cooperazione internazionale, ma non prospetterebbe alcun profilo di incostituzionalità della norma impugnata (o di altre disposizioni) avente rilevanza in sede di giudizio incidentale.

Considerato in diritto

1. -- La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 23 febbraio 1961, n. 215, nella parte in cui, dando esecuzione all'art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, sottoscritta a Strasburgo il 20 aprile 1959, "consente l'esperimento di rogatorie all'estero, disposte in fase dibattimentale, anche senza la presenza del difensore dell'imputato".

Ad avviso della Corte remittente, detta norma, in quanto consentirebbe "di fondare la decisione" su di una prova assunta senza la garanzia della partecipazione del difensore, si pone in insanabile contrasto con il principio fondamentale del diritto alla difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione.

2. -- Va in primo luogo esaminata l'eccezione di infondatezza (recte: inammissibilità) sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio e rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato. La difesa del Governo pone in dubbio la rilevanza della questione nel giudizio a quo osservando che quanto lamentato dal giudice remittente non sarebbe conseguenza diretta della norma impugnata, bensì solo del risultato pratico di una singola domanda di assistenza; ciò in quanto la Convenzione di Strasburgo si limiterebbe soltanto ad offrire uno strumento di cooperazione giudiziaria in materia penale alle Autorità nazionali, lasciando nella facoltà dello Stato richiesto lo stabilire le concrete modalità di assunzione dell'atto.

3. -- L'eccezione deve essere disattesa.

Al di là del risultato concreto di una singola rogatoria, ciò che la questione sollevata intende censurare è proprio la possibilità, consentita dalla norma impugnata, che si proceda all'assunzione di una prova all'estero senza che alla difesa dell'imputato venga permesso di assistere; ciò in luogo della auspicata obbligatorietà "della presenza del difensore dell'imputato".

Tanto è sufficiente per confermare la rilevanza della questione.

4. -- Nel merito la questione non è fondata nei sensi di seguito esposti.

In linea generale è del tutto evidente che, nell'ordinamento italiano, in base al principio sancito nell'art. 24 della Costituzione, la presenza del difensore dell'imputato (o che questi sia posto in grado di assistere) si pone come garanzia irrinunciabile ai fini dell'assunzione di una prova in fase dibattimentale.

Del pari evidente è che, sulla base della citata convenzione internazionale di assistenza giudiziaria, l'atto probatorio assunto all'estero per rogatoria non può che essere espletato nelle forme proprie dello Stato richiesto, ove sono ovviamente inapplicabili le regole processuali proprie dello Stato richiedente.

Peraltro -- è appena il caso di sottolineare -- non potendo certamente essere imposto in sede internazionale (in difetto di diversa norma pattizia), il principio dell'obbligatorietà della presenza del difensore nell'assunzione delle prove dibattimentali, anche l'accoglimento della questione, in ipotesi, non potrebbe avere altro effetto che quello di precludere del tutto all'Autorità giudiziaria italiana qualsiasi possibilità di formulare richieste di rogatoria.

Occorre, invece, distinguere tra norme che regolano l'assunzione della prova e norme che ne disciplinano l'utilizzazione.

Sul punto non può essere condivisa l'affermazione del giudice remittente secondo cui le prove assunte nel rispetto della Convenzione sono, per ciò stesso, pienamente utilizzabili; nulla afferma la Convenzione sulla utilizzabilità delle prove assunte per rogatoria, nè dalle suddette norme, o da altro, può ricavarsi il principio della rinuncia del giudice nazionale a verificare, in piena indi pendenza e secondo i principi fondamentali del proprio ordinamento, se le modalità con cui l'atto è stato assunto lo rendano utilizzabile come prova.

In breve, posto che la domanda di assistenza giudiziaria crea un rapporto tra Stati, ciascuno dei quali si presenta nel proprio ordine indipendente e sovrano, il medesimo principio postula che, da un lato, l'esecuzione materiale degli atti richiesti debba necessariamente avvenire nei modi previsti dalla lex fori e, dall'altro, che la valutazione delle attività espletate (ossia degli effetti che a detti atti possono essere riconosciuti) vada condotta alla stregua dell'ordinamento dello Stato richiedente.

Nè il contrario orientamento espresso dal giudice a quo può essere considerato diritto vivente, posto che altre decisioni della medesima Corte hanno da tempo avvertito che, ai fini della utilizzabilità di un atto, non basta che questo risulti compiuto secondo le regole vigenti nello Stato in cui è stato assunto, ma occorre anche che dette modalità non si pongano in contrasto con le leggi interne proibitive concernenti le persone e gli atti e con quelle che, in qualsiasi modo, riguardino l'ordine pubblico, tra le quali, prime tra tutte, quelle che riguardano l'esercizio inderogabile dei diritti della difesa.

La norma impugnata, quindi, sulla base di un'interpretazione costituzionalmente vincolata dal rispetto della garanzia sancita dal secondo comma dell'art. 24 della Costituzione, non solo consente che il giudice italiano, prima dell'espletamento dell'atto, si avvalga di tutte le facoltà riconosciutegli dalla Convenzione medesima per ottenere il consenso dello Stato richiesto in ordine alla presenza delle parti interessate (e dei rispettivi difensori), ma non preclude in alcun modo all'Autorità giudiziaria di procedere alla valutazione della eventuale contrarietà, ai principi fondamentali del nostro ordinamento, dell'atto assunto per rogatoria, e, quindi, di accertare, caso per caso, se il contenuto dello stesso, per le modalità con cui si è formato, possa o meno essere utilizzato.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 23 febbraio 1961, n. 215 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959) sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 25 luglio 1995.