Sentenza n. 196 del 1995

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SENTENZA N.196

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Avv. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO,

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 26 della legge 30 aprile l969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), come modificato dall'art. 3 del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114 (Conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, concernente norme per il miglioramento di alcuni trattamenti previdenziali ed assistenziali) e dell'art. 14-septies, aggiunto al decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, dalla legge di conversione 29 febbraio 1980, n. 33 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto- legge 30 dicembre 1979, n. 663, concernente provvedimenti per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonchè proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in base alla legge 1 giugno 1977, n. 285, sull'occupazione giovanile), promosso con ordinanza emessa il 26 ottobre 1994 dal Pretore di Parma nel procedimento civile vertente tra Balestrieri Maria e l'I.N.P.S., iscritta al n. 28 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visti gli atti di costituzione di Balestrieri Maria e dell'I.N.P.S. nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 2 maggio 1995 il Giudice relatore Cesare Ruperto; uditi gli avv.ti Franco Agostini per Balestrieri Maria e Carlo De Angelis per l''I.N.P.S.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di una controversia previdenziale vertente tra Balestrieri Maria e l'I.N.P.S. per l'erogazione della pensione sociale (negata in sede amministrativa poiché la ricorrente, ultrasessantacinquenne dal 19 ottobre 1989, godeva di un reddito che, cumulato con quello del marito, superava il limite di legge), il Pretore di Parma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, con ordinanza emessa il 26 ottobre 1994, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 38, primo comma, della Costituzione, dell'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), come modificato dall'art. 3 del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114 (Conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, concernente norme per il miglioramento di alcuni trattamenti previdenziali ed assistenziali) e dell'art. 14-septies, aggiunto al decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, dalla legge di conversione 29 febbraio 1980, n. 33 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, concernente provvedimenti per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonché proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in base alla legge 1 giugno 1977, n. 285, sull'occupazione giovanile), nella parte in cui, nell'indicare il limite di reddito cumulato con quello del coniuge, ostativo al conseguimento della pensione sociale, non prevedono, per gli ultrasessantacinquenni, il medesimo meccanismo di determinazione del reddito individuale stabilito per la concessione dell'assegno mensile agli invalidi parziali di cui all'art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, indipendentemente dall'accertamento della effettiva invalidità e solo in ragione dell'età.

Il Pretore a quo - operata una ricognizione dell'evoluzione giurisprudenziale della Corte costituzionale contenuta nelle sentenze n. 769 del 7 luglio 1988 e n. 88 del 9 marzo 1992 - sostiene che se si assume (conformemente a quanto affermato nella sentenza n. 769 del 1988) la sussistenza di una sostanziale equivalenza fra la condizione di inabilità dell'infrasessantacinquenne e lo stato di vecchiaia (pure presumibilmente invalidante) dell'ultrasessantacinquenne, se ne deve dedurre che non hanno ragion d'essere differenziazioni nella individuazione delle condizioni di bisogno che danno titolo al sostegno solidaristico della collettività; né ha senso che dopo l'età suddetta (65 anni) si riconoscano stati di inabilità superiore ai due terzi, che essa già di per sé presuntivamente comporta.

Se, invece, si vuol distinguere (come chiarito dalla sentenza n. 88 del 1992), fra gli anziani ultrasessantacinquenni e coloro che siano effettivamente invalidi, se ne dovrebbe dedurre - in applicazione del principio di uguaglianza, ex art. 3 della Costituzione, ed al fine di superare la incoerenza di tale ultima pronuncia - che se l'ultrasessantacinquenne diventa anche invalido (e non solo per l'età) ha diritto sì di richiedere la pensione sociale, ma alle stesse condizioni reddituali previste per la pensione sociale sostitutiva, in favore dell'invalido ultrasessantacinquenne, già titolare di assegno ex art. 13, della legge n. 118 del 1971. E se così è, non sembrerebbe ammissibile demandare al legislatore o addirittura al giudice di operare le nuove determinazioni del reddito cumulato.

2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione, assumendo che la stessa Corte costituzionale, nel contesto della richiamata sentenza n. 769 del 1988, ha espressamente affermato che spetta al legislatore il compito di "realizzare l'omogeneizzazione, a parità di condizioni, tra i livelli reddituali idonei ad individuare lo stato di bisogno, così come il porre mano all'opportuno adeguamento dei livelli di prestazione"; laddove, inoltre, "al paradigma del principio di uguaglianza non si può fare ricorso quando le disposizioni di legge ordinaria, dalle quali si pretende di trarre il tertium comparationis, si rivelino derogatorie rispetto alla regola desumibile dal sistema" come nel caso dell'art. 14-septies del decreto-legge n. 663 del 1979, secondo quanto riconosciuto dallo stesso remittente.

Afferma inoltre l'Avvocatura dello Stato - sul punto della fondatezza - come debba farsi esclusivo riferimento alla sentenza n. 88 del 1992 (peraltro ritenuta non contrastante con la precedente sentenza n. 769 del 1988), nella parte in cui pone in evidenza la diversità di situazioni che possono rendere addirittura illegittima la mancata previsione di meccanismi differenziati di valutazione.

3. - Si sono costituite entrambe le parti private: l'I.N.P.S., concludendo nel senso della inammissibilità o, comunque, dell'infondatezza della questione, in base a considerazioni conformi a quelle svolte dall'Avvocatura dello Stato, con l'ulteriore precisazione che, nella fattispecie, la ricorrente risulta essere anziana ma non invalida; la Balestrieri, concludendo per la dichiarazione dell'illegittimità delle norme impugnate alla stregua della motivazione contenuta nell'ordinanza di remissione, e sottolineando - in una memoria depositata nell'imminenza dell'udienza - come non possa più essere ritenuto il carattere "derogatorio (e temporaneo)" dello scostamento tra il limite di reddito individuale previsto dall'impugnato art. 14-septies del decreto-legge n. 663 del 1979 ai fini della concessione dell'assegno di invalidità e quello fissato per la pensione sociale, con conseguente utilizzabilità della norma quale tertium comparationis, suscettibile di estensione ai sensi degli artt. 3 e 38, primo comma, della Costituzione.

Considerato in diritto

1.-Il Pretore di Parma ha sollevato questione di illegittimità costituzionale dell'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (come modificato dall'art. 3 del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114) e dell'art. 14-septies, aggiunto al decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33, nella parte in cui, nell'indicare il limite di reddito cumulato con quello del coniuge, ostativo al conseguimento della pensione sociale, non prevedono, per gli ultrasessantacinquenni, il medesimo meccanismo di determinazione del reddito individuale stabilito per la concessione dell'assegno mensile agli invalidi parziali ex art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, indipendentemente dall'accertamento dell'effettiva invalidità e solo in ragione dell'età.

Ad avviso del remittente, le norme de quibus si pongono in contrasto con gli artt. 3 e 38, primo comma, della Costituzione, in quanto-attesa la sostanziale equivalenza fra lo stato d'invalidità parziale dell'infrasessantacinquenne e quello di vecchiaia conseguente al superamento del sessantacinquesimo anno di età-appare irragionevole la previsione di differenti regimi di individuazione delle condizioni di bisogno che danno titolo al sostegno solidaristico della collettività.

All'evidente scopo di rafforzare tale conclusione, il giudice a quo prospetta l'alternativa conseguenziale alla eventuale riaffermazione della necessità di un differente regime giuridico tra gli ultrasessantacinquenni solamente anziani e coloro i quali siano effettivamente invalidi (secondo quanto ritenuto da questa Corte con la sentenza n. 88 del 1992, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 26 della legge n. 153 del 1969 e successive modificazioni, nella parte in cui, nell'indicare il limite di reddito cumulato con quello del coniuge, ostativo al conseguimento della pensione sociale, non prevede un meccanismo differenziato di determinazione per gli ultrasessantacinquenni divenuti invalidi). E sostiene come da codesta distinzione si dovrebbe dedurre, proprio in applicazione del principio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, che se l'ultrasessantacinquenne diventa anche invalido (e non solo per l'età) ha diritto sì di richiedere la pensione sociale, ma alle stesse condizioni reddituali previste per la pensione sociale sostitutiva in favore dell'invalido ultrasessantacinquenne già titolare di assegno ex art. 13 della legge n. 118 del 1971: altrimenti risultando viziato di incoerenza il sistema normativo.

2.-Va anzitutto rilevato che tale ultima prospettazione alternativa risulta estranea rispetto alla fattispecie oggetto del giudizio a quo e dunque-giusta l'eccezione sollevata dal costituito I.N.P.S.-essa deve ritenersi priva della necessaria rilevanza; in merito alla quale, d'altronde, il remittente non offre alcuna motivazione.

Pertanto, l'esame della Corte va limitato al quesito se le norme denunziate siano da ritenersi costituzionalmente illegittime - come sospetta il giudice a quo - <nella parte in cui, nell'indicare il limite di reddito cumulato con quello del coniuge, ostativo al conseguimento della pensione sociale, non prevedono, per gli ultrassessantacinquenni, il medesimo meccanismo di determinazione del reddito individuale stabilito per la concessione dell'assegno mensile agli invalidi parziali ex art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, indipendentemente dall'accertamento dell'effettiva invalidità e solo in ragione dell'età>.

3. - La questione non è fondata.

Già investita del vaglio di costituzionalità delle norme in esame, questa Corte ha messo in luce - con la sentenza n. 769 del 1988, richiamata nell'ordinanza di remissione- la necessità di porre rimedio, nel sistema dei requisiti reddituali fissati per il conseguimento, rispettivamente, dei trattamenti di invalidità e della pensione sociale, al difetto di coerenza provocato dall'art. 14-septies, anche ora in esame, a cagione sia del divario venutosi a determinare riguardo ai limiti di reddito stabiliti per il conseguimento del richiesto trattamento, sia dell'esclusione nel relativo calcolo, rispetto ai soli invalidi civili, del cumulo con i redditi del coniuge. Tuttavia la Corte ha, nel contempo, ripetutamente affermato come siffatta opera vada effettuata dal legislatore, poichè essa implica necessariamente una complessa riconsiderazione dell'intero sistema nei suoi molteplici aspetti, mediante l'elaborazione di criteri di determinazione dei limiti di reddito capaci di riportare i vari trattamenti ad omogeneità (che non si riduca ad una mera parificazione di singole previsioni legislative), nella quale gli apporti di chi abbia specifici doveri solidaristici e quello della collettività (presenti in una relazione di integrazione reciproca), trovino un idoneo bilanciamento, a fronte delle specifiche esigenze del soggetto bisognoso, derivanti, a seconda dei casi, unicamente dall'età ovvero da una inabilità totale o parziale, pregressa o sopravvenuta (v. in particolare, oltre alla sentenza n. 88 del 1992, anche le sentenze nn. 75 del 1991 e 286 del 1990).

Orbene, va rilevato in questa sede che, alle reiterate sollecitazioni della Corte, il legislatore ha risposto con l'emanazione dell'art. 12 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, che ha totalmente assimilato, a decorrere dal 1 gennaio 1992, il limite di reddito individuale valevole per la concessione dell'assegno mensile di invalidità parziale e quello stabilito per la pensione sociale.

Vero è, peraltro, che il cumulo viene ancora mantenuto solo per gli aspiranti alla pensione sociale diretta. Tuttavia, pur esprimendo l'auspicio che anche con riguardo a tale punto il legislatore proceda sulla via della sopra indicata omogeneizzazione dei sistemi, questa Corte non può non escludere che gli inconvenienti lamentati dal giudice a quo si risolvano nel denunciato vizio di legittimità costituzionale.

Infatti, anche nella sostenuta tendenziale indistinguibilità (quale condizione di fatto finale) fra lo stato di invalidità parziale e quello di vecchiaia, non può certo ritenersi priva di rilievo, onde razionalmente valutare gli elementi significativi per la determinazione dello stato di bisogno, l'esistenza o meno nel soggetto, prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età, di un impedimento derivante da pregresse patologie alla completa idoneità a procurarsi, attraverso la propria attività lavorativa, il reddito sufficiente per vivere nonchè la piena garanzia previdenziale per la vecchiaia. Situazione, codesta, evidentemente implicante maggiori costi umani ed economici a carico del soggetto e della sua famiglia, <rispetto a quella di colui la cui storia personale non ha risentito di un simile impedimento> (come si osserva, per un'ipotesi diversa ma parallela, nella sentenza n. 88 del 1992); così da indurre non irragionevolmente il legislatore a non trasferire, in tali casi, dall'àmbito familiare a quello statuale i relativi doveri assistenziali ex art. 38, primo comma, della Costituzione.

Per cui, la lamentata disparità di trattamento-in quanto riferita a situazioni fondate su differenti presupposti fattuali, che per ciò stesso possono giustificare la discrezionale scelta (ancorchè essa non costituisca l'unica opzione costituzionalmente legittima) di ricorrere rispettivamente alla solidarietà del coniuge ovvero a quella della collettività-neppure risulta lesiva del principio di uguaglianza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), come modificato dall'art. 3 del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114 (Conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, concernente norme per il miglioramento di alcuni trattamenti previdenziali ed assistenziali) e dell'art. 14-septies del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, introdotto con la legge 29 febbraio 1980, n. 33 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, concernente provvedimenti per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonchè proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in base alla legge 1 giugno 1977, n. 285, sull'occupazione giovanile), sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 38, primo comma, della Costituzione, dal Pretore di Parma, con ordinanza emessa il 26 ottobre 1994.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/05/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 26/05/95.