Sentenza n. 77 del 1995

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SENTENZA N. 77

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-        Avv. Massimo VARI

-        Dott. Cesare RUPERTO

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro mafia), nel testo modificato dall'art. 22, comma 01, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 1994 dalla Corte di appello di Napoli nel procedimento di prevenzione a carico di D'Alessandro Michele, iscritta al n. 727 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di costituzione di D'Alessandro Michele nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 febbraio 1995 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello;

uditi l'avv. Federico De Vita per D'Alessandro Michele e l'Avvocato dello Stato Nicola Bruni per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di un procedimento di prevenzione in grado di appello, instaurato su ricorso dell'interessato avverso un provvedimento di modifica del luogo di soggiorno obbligato, adottato a norma dell'art. 2, comma 2, della legge 31 maggio 1965, n. 575, come modificato dall'art. 22, comma 01, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 - in relazione a precedente decreto di sottoposizione del medesimo interessato alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, misura questa in corso di esecuzione alla data dell'ordinanza di rinvio - la Corte d'appello di Napoli sollevava, con ordinanza del 15 giugno 1993, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, della citata legge n. 575 del 1965: detta norma stabiliva che "Sulla richiesta di cui al comma 2 [e cioè sulla richiesta di modifica del luogo di soggiorno, da quello della residenza ad altro idoneo, in presenza di eccezionali esigenze di tutela sociale ovvero di tutela dell'incolumità dell'interessato] e su quella di cui al secondo comma dell'art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni, il tribunale provvede entro dieci giorni, fermo restando quanto disposto dall'art. 6 della predetta legge n. 1423".

2.- Nel sollevare la questione, la Corte d'appello di Napoli premetteva che il provvedimento sottoposto al suo controllo era stato adottato dal tribunale con procedura "de plano" in camera di consiglio, e che con l'appello proposto l'interessato lamentava, tra l'altro, l'adozione del citato provvedimento senza contraddittorio e senza garanzie difensive.

3.- Ci premesso, il rimettente si soffermava a lungo sulla ammissibilità dell'impugnazione del provvedimento modificativo del luogo di soggiorno mediante appello - anziché, come eccepito dal pubblico ministero, mediante ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 111 della Costituzione - e dunque sulla propria competenza.

Argomentando sia in base al profilo della necessità di adeguate valutazioni nell'ambito della rideterminazione del luogo di soggiorno alla stregua del criterio normativo della presenza di "eccezionali esigenze" di tutela sociale o, per converso, di tutela individuale, sia in base al rilievo della connotazione maggiormente afflittiva, per il prevenuto, della modifica in parola, il giudice a quo perveniva, in sintesi, all'affermazione della appellabilità del provvedimento, come da regola generale in tema di misure di prevenzione ex art. 4 della legge n. 1423 del 1956, la cui disciplina implica il doppio grado di giurisdizione di merito. Un'appellabilità, peraltro, limitata all'an della statuizione modificativa del luogo di soggiorno obbligato, e non anche alla scelta della concreta località, demandata dalla legge ("...località specificamente indicata dal questore...") alla determinazione dell'autorità di polizia, sulla base del generico e insindacabile criterio delle "...idonee caratteristiche territoriali e di sicurezza...".

4.- Osservava quindi il giudice a quo che l'adozione del provvedimento con la procedura c.d. de plano da parte del tribunale, solo sulla base dell'impulso concorde del questore e del procuratore nazionale antimafia, senza avvisi all'interessato o ai suoi difensori nè intervento del pubblico ministero, risultava conforme al disposto del comma 3 dell'art. 2 della legge n. 575 del 1965; ma l'estrema brevità del termine (dieci giorni) accordato per la decisione, e l'omesso richiamo all'art. 4, quinto comma, della legge n. 1423 del 1956 (ovverosia alla norma che prevede il ricorso alle forme del contraddittorio previste per l'applicazione delle misure di sicurezza nel codice di rito penale) escludevano, ad avviso della Corte rimettente, l'applicabilità delle ordinarie regole del contraddittorio, in considerazione della particolarità e dell'urgenza di questa categoria di provvedimenti e dei relativi procedimenti.

5.- D'altra parte, il rimettente non riteneva di pervenire, in questa prospettiva, ad una interpretazione diversa della norma, tale da implicare la necessità del contraddittorio, perché: a) il silenzio serbato sul punto dal legislatore era indicativo, posto che ad altri fini la legge n. 1423 del 1956 era richiamata nel corpo della stessa norma impugnata; b) il termine di dieci giorni rendeva in concreto inattuabile il contraddittorio, specie con riguardo al prevenuto; c) il termine stesso era comunque incompatibile con la disciplina codicistica in materia di misure di sicurezza (che rappresenta il modulo processuale in materia, in virtù del rinvio ai sensi dell'art. 4 della legge n. 1423 del 1956), dato che l'art. 666, comma 3, del vigente codice di procedura penale stabilisce, tra l'altro, che l'avviso della data fissata per l'udienza in camera di consiglio debba essere notificato alla parte e al difensore almeno dieci giorni prima della stessa.

Né potevano incidere sulla soluzione del problema le statuizioni della Corte costituzionale in ordine alla piena giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, con la correlativa applicazione dei principi del contraddittorio, poiché le sentenze della Corte - di cui il giudice a quo ricordava la n. 53 del 1968 e la n. 76 del 1970 - non si rivolgono al futuro, assumendo portata caducatoria solo delle norme anteriori dichiarate illegittime.

6.- Tutto ci premesso, la Corte d'appello di Napoli sottoponeva a scrutinio di costituzionalità il citato art. 2, comma 3, della legge n. 575 del 1965, come sopra interpretato, deducendone il contrasto: a) con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, per lesione del diritto di difesa, avendo il legislatore modellato questo specifico procedimento senza partecipazione dell'interessato, nè intervento del difensore, così sottraendo un intero grado di giudizio all'interessato stesso; b) con l'art. 3 della Costituzione, giacché il censurato procedimento senza contraddittorio risultava applicabile solo nell'ipotesi in cui la richiesta di modifica del luogo di soggiorno venisse avanzata successivamente alla applicazione della misura di prevenzione personale, laddove, quando le "eccezionali esigenze" cui aveva riguardo la norma fossero emerse contestualmente alla originaria proposta che d l'avvio all'ordinario procedimento per l'applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, risultava, per ci stesso, applicabile il comune rito di cui alla legge n. 1423 del 1956, con tutte le conseguenti garanzie di contraddittorio e difesa.

7.- Nel giudizio così instaurato (R.O. n. 610 del 1993), spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che rilevava la sopravvenienza di nuova normativa (art. 1, comma 2, della legge n. 256 del 1993, abrogativa dei commi 2 e 3 dell'art. 2 impugnato), e concludeva per il riesame della rilevanza da parte del giudice rimettente.

8.- Con ordinanza n. 130 del 1994, questa Corte disponeva la restituzione degli atti al giudice a quo per un nuovo esame della rilevanza della questione alla luce del mutato quadro normativo costituito dalla legge 24 luglio 1993, n. 256; una nuova disciplina, questa, avente l'obiettivo di ricondurre in via generale l'applicazione del soggiorno obbligato al luogo di residenza o dimora abituale del prevenuto, con l'espressa abrogazione della norma impugnata nonché del comma 2 dell'art. 2 della legge n. 575 del 1965 (e cioè delle norme regolatrici sia del provvedimento che del procedimento in discorso), e che stabiliva altresì, per le situazioni di applicazione della misura dell'obbligo di soggiorno in luogo diverso da quello di residenza o dimora abituale, in atto all'entrata in vigore della legge stessa, la modificazione ex lege di detta individuazione.

9.- Con ordinanza del 12 luglio 1994 (R.O. n. 727 del 1994), la Corte d'appello di Napoli ha rimesso nuovamente a questa Corte il giudizio sulla legittimità costituzionale della norma gi impugnata, secondo gli stessi profili e in relazione ai medesimi parametri dedotti nella prima ordinanza di rimessione, cui la successiva fa sostanzialmente rinvio.

10.- Nel riproporre la questione, la Corte d'appello osserva che il mutamento del quadro normativo ad essa riferito non ne comporta l'irrilevanza. La Corte rimettente sottolinea in particolare che l'interessato, nel proporre il gravame avverso il provvedimento in tema di luogo di soggiorno, non si era limitato a censurare il contenuto dispositivo del provvedimento e cioè la concreta fissazione del luogo di soggiorno in ambito diverso da quello di residenza, ma aveva altresì e preliminarmente dedotto il vizio del procedimento, per omessa instaurazione del contraddittorio; dall'eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale sarebbe dunque derivata - e deriverebbe - la dichiarazione di nullità assoluta ed insanabile del provvedimento (artt. 178 e 179 c.p.p.) e del procedimento ad esso finalizzato.

Non può dunque ritenersi - nonostante la modifica legislativa - che sussista un interesse esclusivamente "morale" dell'appellante, tanto pi in quanto nel frattempo (e precisamente dopo l'ordinanza di restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale) l'interessato ha riportato condanna, per il reato di inottemperanza al provvedimento preventivo appellato, alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione.

La pendenza del giudizio penale determina - prosegue il giudice a quo - la concretezza dell'interesse del prevenuto ad ottenere una declaratoria di invalidità del provvedimento di modifica del soggiorno obbligato, e dunque rafforza la rilevanza della questione sollevata, "non esclusa dall'analoga rilevanza in sede penale", sede in cui, ad avviso del rimettente, il giudice penale avrebbe dovuto sospendere il processo in attesa della definizione di quello di prevenzione, ritenuto pregiudiziale rispetto a quello penale.

11.- E' intervenuto nel giudizio così riproposto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che nell'atto di intervento ha fatto richiamo all'atto depositato nel precedente giudizio, deducendo pertanto l'incidenza dello ius superveniens gi sopra richiamato.

Si è altresì costituita la parte privata del giudizio a quo, il cui patrocinio ha presentato deduzioni a sostegno dell'accoglimento della questione, in base ai principi di piena giurisdizionalizzazione del processo di prevenzione e di diritto al pieno esercizio della difesa e al contraddittorio nell'ambito di detto processo, quali affermati dalla giurisprudenza costituzionale nella materia; principi che risultano violati dalla norma impugnata, che consente un aggravamento della posizione dell'interessato senza che gli sia data notizia dell'iniziativa e senza metterlo in condizione di difendersi, personalmente ovvero con l'assistenza tecnica del difensore.

12.- Alla pubblica udienza, l'Avvocatura erariale ha ulteriormente insistito per una declaratoria di inammissibilità per irrilevanza della questione; mentre la parte privata ne ha sollecitato l'accoglimento.

Considerato in diritto

1.- E' stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nel testo modificato dall'art. 22, comma 01, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. Ad avviso del giudice a quo la norma impugnata, in quanto si limita a stabilire che sulla richiesta di modifica del luogo di soggiorno obbligato formulata ai sensi del comma 2 dello stesso art. 2, da una delle autorità e in presenza dei presupposti ivi indicati (e cioè dal procuratore nazionale antimafia, o dal procuratore della Repubblica, o dal questore, quando ricorrono "eccezionali esigenze di tutela sociale o di tutela dell'incolumità della persona interessata"), il tribunale adito debba provvedere "entro dieci giorni", senza disporre alcunché in merito al procedimento e in particolare alle garanzie difensive da osservare, si porrebbe in contrasto: a) con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, perché, consentendo l'adozione di un provvedimento avente connotati di maggiore afflittività con procedura c.d. de plano, senza partecipazione dell'interessato o di un suo difensore, risulta lesiva del diritto inviolabile alla difesa, e sottrae all'interessato un grado del giudizio; b) con l'art. 3 della Costituzione, perché l'accennata procedura risulta applicabile solo nel caso in cui la richiesta di variazione del luogo di soggiorno obbligato sia formulata in corso di esecuzione della misura di prevenzione cui accede, determinandosi un'ingiustificata disparità di trattamento di tale situazione nel raffronto con l'ipotesi in cui la richiesta di "eccezionale" individuazione del luogo di soggiorno - in deroga al criterio ordinario della residenza o dimora abituale del proposto - sia contestuale all'avvio dell'ordinario procedimento per l'applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, poiché in quest'ultimo caso risultano applicabili le ordinarie regole del contraddittorio, secondo la disciplina della legge n. 1423 del 1956.

2.- Deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza della questione, sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato sia sotto il profilo della incidenza dello ius superveniens, costituito dalla legge 24 luglio 1993, n. 256, che ha abrogato la norma impugnata ed eliminato ogni deroga al criterio della residenza o dimora abituale nella determinazione del luogo di soggiorno obbligato, sia sotto il profilo - sviluppato nella discussione in pubblica udienza - della proponibilità della questione medesima solo da parte del giudice penale; assunto, questo, formulato in relazione al reato di allontanamento abusivo dal luogo di soggiorno obbligato per il quale l'interessato del giudizio a quo ha riportato condanna, come riferito nell'ordinanza di rinvio.

La Corte d'appello rimettente ha riproposto la questione, dopo la restituzione degli atti disposta da questa Corte (ord. n. 130 del 1994) con riguardo a precedente identica questione sollevata dallo stesso giudice, ritenendo di dover fare tuttora applicazione della norma processuale impugnata, nonostante la sua abrogazione, onde poter deliberare sull'appello proposto, ed ha altresì specificamente argomentato in ordine alla persistenza di un interesse non solamente "morale" del prevenuto alla pronuncia medesima, sul piano della declaratoria giudiziale di radicale invalidità del provvedimento adottato dal tribunale.

Tali argomentazioni sono sorrette da motivazioni non implausibili e risultano perciò sufficienti a dare ingresso alla questione di legittimità costituzionale, non offrendo ragioni di evidente censura dell'iter logico sviluppato dal giudice a quo, secondo l'indirizzo ripetutamente espresso da questa Corte in tema di controllo sull'ammissibilità dell'incidente di costituzionalità (da ultimo, ex plurimis, sentt. nn. 173 e 149 del 1994; 416 e 345 del 1993).

3.- I dubbi di costituzionalità sono formulati dal giudice rimettente sul presupposto che la disposizione denunciata escluda il ricorso al contraddittorio, e preveda dunque l'adozione del provvedimento del tribunale con procedura camerale (de plano), sulla base della sola richiesta di una delle autorità a ci legittimate, senza avviso all'interessato nè al difensore di questi. L'enunciata interpretazione fa leva in primo luogo sulla esiguità del termine di dieci giorni previsto per la decisione, non compatibile con la disciplina in tema di applicazione di misure di sicurezza, che in materia costituisce il paradigma processuale (art. 4, ultimo comma, della legge n. 1423 del 1956); essa si basa, altresì, sul dato del mancato richiamo della disciplina-base nel contesto della norma che pure, ad altri fini, menziona la citata legge n. 1423 del 1956; infine, l'interpretazione della Corte rimettente valorizza le ragioni della disciplina, introdotta dal legislatore in vista di obiettivi di salvaguardia di "eccezionali esigenze" di prevenzione sociale o di tutela individuale e pertanto indifferente, in questa prospettiva, alle esigenze di garanzia del diritto di difesa del sottoposto alla misura.

4.- La questione non è fondata, nei sensi di seguito esposti.

Come si è rilevato, il giudice rimettente nel porre la questione muove da un'interpretazione della disposizione denunciata che conduce all'affermazione della sua illegittimità costituzionale, senza avvertire che la disposizione stessa offre la possibilità di una interpretazione adeguatrice, idonea a renderla aderente ai parametri costituzionali altrimenti vulnerati.

Nella specie, quest'ultima interpretazione è stata di recente fatta propria dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. sez. V, 25 ottobre 1993, n. 3311), successiva alla prima ordinanza di rinvio e della quale il giudice a quo non tiene conto ancorché anteriore alla seconda ordinanza di rinvio che ha dato luogo al presente giudizio.

Muovendo dalla oramai acquisita configurazione giurisdizionale del procedimento di prevenzione, che impone in via di principio l'osservanza delle regole coessenziali al giudizio in senso proprio, anche in difetto di un esplicito richiamo normativo all'interno di ogni singolo intervento legislativo nel settore (come è reso palese, ad esempio, dalla sicura osservanza delle regole del contraddittorio in sede di procedimento di revoca o modifica della misura ex art. 7 della legge n. 1423 del 1956, pur nel silenzio di quest'ultima norma), detto indirizzo giurisprudenziale rende priva di consistenza l'argomentazione del rimettente, che si incentra sul dato del mancato richiamo della disciplina comune nel corpo della disposizione impugnata; la quale ultima, anzi, accomuna, significativamente, i provvedimenti di modifica adottati sulla richiesta di cui al comma 2 dello stesso art. 2 e su "quella di cui al secondo comma dell'art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423", per entrambe le ipotesi statuendo lo stesso termine finale di decisione: se le regole del contraddittorio valgono nel secondo caso, a maggior ragione - attesa l'incidenza della misura sulla libertà individuale del destinatario - debbono valere nel primo.

La soluzione così ipotizzata dalla richiamata giurisprudenza della Cassazione mira proprio ad escludere l'irragionevole diversificazione di disciplina tra la situazione di una richiesta contestuale alla proposta di impulso dell'intero procedimento e quella - verificatasi nel giudizio a quo - di una richiesta successiva, formulata in corso di applicazione di misura gi irrogata; una conseguenza, come si vede, non inevitabile e semmai da risolversi ermeneuticamente in un ulteriore argomento a sostegno dell'interpretazione adeguatrice.

Non è infine di ostacolo al collocamento della norma nel sistema ordinario del processo di prevenzione, il fatto che il breve termine di dieci giorni per la decisione sia incompatibile con la disciplina cui occorre fare riferimento, e segnatamente con il rispetto del termine dilatorio di "almeno dieci giorni" stabilito dall'art. 666, comma 3, del codice di procedura penale, per la notifica all'interessato e per la comunicazione al suo difensore dell'invito a comparire dinanzi al collegio in camera di consiglio.

Anche qui tale indubbia disarmonia può risolversi, secondo quanto afferma la pi volte richiamata giurisprudenza, nel senso della cedevolezza del rispetto del termine stabilito ai fini della decisione, termine del resto insuscettibile di essere rispettato anche nell'ipotesi, assunta a tertium comparationis, della richiesta coeva all'avvio del procedimento e comunque avente carattere di termine ordinatorio, al pari degli altri previsti nell'art.4 della legge n. 1423 del 1956.

5.- L'interpretazione sopra delineata risulta, nel suo complesso, idonea ad evitare il lamentato contrasto con i principi costituzionali invocati, per cui è muovendo da essa che, nei sensi esposti, la questione sollevata deve essere dichiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), nel testo modificato dall'art. 22, comma 01, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata dalla Corte d'appello di Napoli, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 1995.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

Depositata in cancelleria il 6 marzo 1995.