ORDINANZA N. 40
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA,Presidente
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 7, del decreto legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), promosso con ordinanza emessa il 21 gennaio 1994 dal Consiglio di Stato, sezione VI, su ricorso proposto dall'Ufficio Italiano Cambi, contro Scotto Lavina Elvira ed altri iscritta al n. 311 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 231, prima serie speciale dell'anno 1994;
Visto l'atto di costituzione dell'Ufficio Italiano Cambi nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 1995 il Giudice relatore Enzo Cheli.
RITENUTO che nel corso del giudizio instaurato con ricorso in appello proposto dall'Ufficio Italiano Cambi contro Scotto Lavina Elvira e altri, tutti dipendenti dell'Ufficio Italiano Cambi, per l'annullamento della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio del 31 agosto 1993, n. 1430, il Consiglio di Stato, sezione VI, con ordinanza del 21 gennaio 1994, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, 102, primo comma, 113 e 125 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 7, del decreto legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito con modificazioni dalla legge 14 novembre 1992, n. 438 (R.O. n. 311 del 1994);
che nell'ordinanza si espone che i suddetti dipendenti dell'Ufficio Italiano Cambi hanno promosso giudizio di ottemperanza al giudicato formatosi a seguito della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio - Sezione II n. 481 del 24 marzo 1991, confermata dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con decisione del 23 giugno 1992, n. 486, notificata all'Ufficio Italiano Cambi il 10 luglio 1992 e che in base a tali pronunce, in applicazione del principio desunto dall'art. 4, terzo comma, del decreto legge 27 settembre 1982, n. 681,
convertito dalla legge 20 novembre 1982, n. 869, era stato riconosciuto ai ricorrenti il diritto all'allineamento stipendiale della loro retribuzione al migliore trattamento economico spettante ad altri dipendenti dell'Ufficio Italiano Cambi pervenuti alla loro stessa qualifica di funzionari di secondo livello con decorrenza posteriore a quella in cui essi la avevano conseguita in precedenti turni di promozione;
che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sentenza del 31 agosto 1993, n. 1430, ha accolto il ricorso per il giudizio di ottemperanza al giudicato formatosi a seguito delle pronunce suddette e che contro tale richiesta ha proposto ricorso in appello l'Ufficio Italiano Cambi, deducendo la sopravvenuta abrogazione, prima del passaggio in giudicato della decisione di appello del Consiglio di Stato, dell'art. 4 del decreto legge n. 681 del 1982, convertito dalla legge n. 869 del 1982 e rilevando che tale abrogazione si sarebbe verificata con l'entrata in vigore dell'art. 2, comma 4, del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito dalla legge 8 agosto 1992 n. 359, dal momento che questa norma è stata interpretata dalla disposizione impugnata nel presente giudizio nel senso che dalla suddetta data di entrata in vigore "non possono più essere adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorchè aventi effetti anteriori all'11 agosto 1992";
che nell'ordinanza di remissione il Consiglio di Stato, delibando sull'eccezione formulata dall'Ufficio Italiano Cambi, fondata sull'impossibilità di dar corso all'ottemperanza nei confronti di un giudicato che riconosca una posizione giuridica non più compatibile con il quadro normativo sopravvenuto, dubita della legittimità costituzionale della norma impugnata, ritenuta in contrasto con l'art. 24 Cost., dal momento che nessuna norma ordinaria può limitare il diritto di agire in giudizio, garantito dalla Costituzione in ogni fase del processo, e quindi anche attraverso il giudizio di ottemperanza;
che, inoltre, il giudice remittente sostiene nell'ordinanza che la possibilità per le norme innovative di incidere sui giudicati comporta la "contaminazione fra attività rispettive del potere legislativo e del potere giurisdizionale, contraria al disegno costituzionale fondato sul principio della separazione dei poteri", e richiama, in particolare, la sentenza n. 6 del 1994 che, in riferimento alla medesima disposizione impugnata nel presente giudizio ha escluso il suo "carattere lesivo di giudicati già formatisi o di preclusione di qualsiasi strumento di tutela giurisdizionale";
che, infine, il giudice a quo osserva che neppure la cura di qualsiasi altro interesse pubblico, quale quello di salvaguardia della finanza pubblica, potrebbe essere invocato per affermare la legittimità costituzionale della norma impugnata, dal momento che a tale salvaguardia devono concorrere tutti i cittadini, in ragione della loro capacità contributiva;
che nel giudizio davanti alla Corte hanno spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione sollevata sia dichiarata infondata, e l'Ufficio Italiano Cambi, per chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile e, in subordine, infondata.
CONSIDERATO che la Corte con la sentenza n. 6 del 1994 e con le ordinanze nn. 105 e 394 del 1994 ha già dichiarato, nella prima pronuncia, infondata e, nelle successive, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionalità dell'art. 7, comma 7, del decreto legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438;
che nelle pronunce richiamate la Corte ha ribadito sia la "intrinseca irrazionalità" dell'istituto dell'allineamento stipendiale, tale da giustificare la sua eliminazione dall'ordinamento con efficacia retroattiva, sia l'affermazione secondo la quale la disposizione impugnata nel presente giudizio "non ha sottratto ai ricorrenti alcun strumento di tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, nè ha menomato l'autonomia riconosciuta al potere giurisdizionale nell'applicazione del diritto oggettivo ai fini della definizione delle singole controversie";
che il giudice remittente ha riproposto la questione di costituzionalità dell'art. 7, comma 7 del decreto legge n. 384 del 1992, in riferimento agli artt. 24, 102, 113 e 125 della Costituzione, sostenendo che la norma impugnata risulta lesiva di giudicati già formatisi e comporta la illegittima "contaminazione" fra le rispettive attività del potere legislativo e del potere giudiziario;
che la norma impugnata, come si evince dalla sua stessa formulazione letterale riferita ai "provvedimenti" di allineamento stipendiale, non risulta suscettibile di ledere eventuali giudicati già formatisi - la cui concreta esistenza resta rimessa alla valutazione del giudice di merito - e che la Corte, nella richiamata sentenza n. 6 del 1994 ha adottato questa interpretazione, quando ha riconosciuto che in base a circostanze di fatto possono verificarsi disparità di trattamento tra coloro che hanno potuto acquisire l'allineamento a causa della formazione di giudicati che riconoscano tale diritto e gli altri soggetti aventi diritto, che, pur trovandosi in posizione identica ai primi, non possono più giovarsi di tale vantaggio retributivo, affermando, peraltro, che neppure tali disparità giustificano "la sopravvivenza, sia pure limitata, di un istituto che si è voluto espungere radicalmente dall'ordinamento proprio in relazione alla sua intrinseca irrazionalità ed agli effetti sperequativi che andava determinando";
che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale all'esame di questa Corte va dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 7, del decreto legge 19 settembre 1992, n. 384, (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 102, 113 e 125 della Costituzione dal Consiglio di Stato con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 6 febbraio 1995.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Enzo CHELI, Redattore
Depositata in cancelleria il 13 febbraio 1995.