Sentenza n.241 del 1994

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SENTENZA N. 241

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 500, quarto comma, del codice di procedura penale, nel testo introdotto dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso con ordinanza emessa il 7 ottobre 1992 dal Pretore di Macerata nel procedimento penale a carico di Paolozzi Benedetto, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 1994 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con ordinanza del 7 ottobre 1992 il Pretore di Macerata ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 500, quarto comma, del codice di procedura penale, come modificato dalla legge 7 agosto 1992, n.356 (di conversione del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306), "nella parte in cui subordina all'esistenza di altri elementi di prova, capaci di confermarne l'attendibilità, l'utilizzabilità come prove delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone nel corso delle indagini preliminari ed utilizzate nel dibattimento per le contestazioni".

 

2. Rileva il giudice a quo che in base all'originario testo dell'art. 500 del codice di procedura penale, le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni avrebbero potuto servire al giudice solo per valutare l'attendibilità della testimonianza dibattimentale, mentre, a seguito dell'intervento di questa Corte con la sentenza n.255 del 1992, la norma è stata dichiarata illegittima proprio nella parte in cui impediva al giudice la possibilità di formare il suo convincimento anche sulla base delle dichiarazioni originariamente rese dal testimone ed utilizzate per le contestazioni dibattimentali.

 

Su tale contesto è poi intervenuta la novella di cui alla legge 7 agosto 1992, n.356, la quale, sostituendo l'art. 500, consente al giudice (quarto comma) di valutare come prova detto tipo di dichiarazioni solo ad una condizione, e cioé che sussistano altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità.

 

Nel caso oggetto del giudizio a quo, in relazione ad una essenziale circostanza riferita da una testimone alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari e negata oggi al dibattimento - espone il remittente - non si rinvengono nel fascicolo, nè all'esito dell'istruttoria dibattimentale, ulteriori elementi di prova a sostegno della veridicità delle originarie dichiarazioni. Il giudice, quindi, dovrebbe in questo caso rinunciare al convincimento maturato circa la fondatezza e la veridicità delle prime dichiarazioni e non potrebbe far prevalere le stesse nella motivazione della decisione sulla base di una semplice valutazione comparativa di attendibilità tra le une e le altre, nè ricorrendo ad altre valutazioni attinenti all'aspetto intrinseco delle deposizioni.

 

3. Ciò premesso, il Pretore di Macerata ritiene che detta disciplina si ponga in conflitto con le motivazioni della citata sentenza n.255 di questa Corte, poichè, in sostanza, reintroduce il medesimo contenuto della norma già giudicata illegittima. Da un lato risulterebbe evidente l'irragionevolezza della presunzione di genuinità attribuita alla deposizione dibattimentale e negata invece a quella resa nell'immediatezza alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero, o addirittura al giudice delle indagini preliminari; dall'altro sussisterebbe la violazione della regola essenziale del libero convincimento del giudice cui viene nuovamente sottratta la possibilità di tener conto di tutti gli elementi di prova ritualmente acquisiti al giudizio e, quindi, anche di scegliere tra due versioni contrastanti rese dal medesimo testimone.

 

Inoltre, in tal modo verrebbero equiparate due diverse situazioni processuali: la deposizione del testimone (regolarmente introdotta nel dibattimento attraverso lo strumento delle contestazioni) e le dichiarazioni del coimputato che pure - ai sensi dell'art. 192, terzo comma, del codice di procedura penale - debbono essere sorrette da ulteriori elementi probatori che ne confermino l'attendibilità.

 

4. É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione.

 

Ad avviso dell'Avvocatura la norma impugnata non esclude che la precedente deposizione di un testimone abbia una rilevanza probatoria completa (in ciò dunque in piena sintonia con le indicazioni della sent. n. 255) ma, senza derogare in alcun modo all'affermazione di principio, ne subordina la utilizzabilità piena alla effettiva esistenza di ulteriori "elementi" che ne confortino l'attendibilità.

 

La ragione della limitazione, che certamente non scalfisce il principio posto in via generale, sarebbe individuabile nelle scelte di fondo operate dal legislatore con l'emanazione del nuovo codice, che, privilegiando la formazione della prova nel dibattimento e nel contraddittorio delle parti, imporrebbero una valutazione di minore favore, per la loro più modesta affidabilità, dei fatti di rilevanza processuale formati in una sede diversa da quella fisiologicamente propria. In questa prospettiva appare evidente, ad avviso dell'Avvocatura, la ragione di una maggiore cautela nella valutazione di tali elementi rispetto a quelli acquisiti direttamente nel dibattimento; cautela che però non contrasterebbe con l'esigenza di consentire al giudice di delibare compiutamente tutti gli atti di cui abbia avuto cognizione nello svolgimento del processo al fine di pervenire ad un corretto accertamento dei fatti.

 

Considerato in diritto

 

1. Il Pretore di Macerata dubita della legittimità costituzionale dell'art. 500, quarto comma, del codice di procedura penale "nella parte in cui subordina all'esistenza di altri elementi di prova, capaci di confermarne l'attendibilità, l'utilizzabilità come prove delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone nel corso delle indagini preliminari ed utilizzate nel dibattimento per le contestazioni".

 

2. Il giudice remittente, premesso che in base al testo originario dell'art. 500 le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni non potevano, di regola, costituire prova dei fatti in esse affermati, mentre la norma, a seguito della sentenza n. 255 del 1992 di questa Corte, è stata dichiarata illegittima proprio nella parte in cui impediva al giudice di formare liberamente il suo convincimento anche sulla base delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni dibattimentali, ritiene che la disciplina della novella di cui alla legge 7 agosto 1992, n. 356, che ha portato all'attuale formulazione dell'art. 500, sia palesemente in conflitto con le motivazioni della citata sentenza n. 255 ed abbia sostanzialmente reintrodotto il medesimo contenuto della norma già dichiarata illegittima.

 

Anche la nuova disposizione, pertanto, contrasterebbe: 1) con l'art. 3 Cost.:

 

a) per la irragionevole presunzione di genuinità attribuita alla deposizione dibattimentale e negata invece alla dichiarazione resa alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero, o al giudice per le indagini preliminari;

 

b) per la irragionevole equiparazione, nella medesima disciplina sostanziale, di due situazioni processuali diverse: la deposizione del testimone (introdotta nel dibattimento attraverso il veicolo delle contestazioni) e le dichiarazioni del coimputato che, ai sensi dell'art.192, terzo comma, del codice di procedura penale, devono essere sorrette da ulteriori elementi di prova che ne confermino l'attendibilità;

 

2) con gli artt. 24, 25 e 101 Cost.: sotto il profilo della violazione del principio del libero convincimento del giudice, cui verrebbe sottratta la possibilità di tener conto di tutti gli elementi di prova ritualmente acquisiti al giudizio e, quindi anche la possibilità di scegliere tra due dichiarazioni contrastanti rese dal testimone; il che, nel contempo, inciderebbe anche sul principio di azione e su quello di legalità.

 

3.1. La questione non è fondata.

 

Il dubbio di costituzionalità prospettato dal Pretore di Macerata muove, come si è detto, dalla premessa interpretativa secondo cui la medesima regula iuris dichiarata illegittima con la sentenza n. 255 del 1992 di questa Corte sarebbe stata sostanzialmente reintrodotta dall'attuale testo del quarto comma dell'art. 500.

 

Giova riepilogare brevemente i termini della questione.

 

3.2. Nel dichiarare l'illegittimità costituzionale del quarto comma dell'art.500 nel suo previgente testo ("nella parte in cui non prevede l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dai commi primo e secondo, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero"), questa Corte ha inteso riaffermare che ad un ordinamento costituzionale che sancisce il principio di obbligatorietà dell'azione penale, ma è prima di tutto improntato alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo ed al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione (v. anche sent. n. 111 del 1993).

 

3.3. Più in particolare - come si è chiarito nella citata decisione - ogni regola di esclusione di elementi di prova, che sia suggerita da canoni ispiratori della disciplina processuale non elevati al rango di norme costituzionali e rimessi alle scelte discrezionali del legislatore ordinario, deve essere dotata di ragionevolezza sia in raffronto ad ipotesi analoghe, per le quali valga invece l'opposto principio della utilizzabilità probatoria, sia anche, e soprattutto, in termini assoluti, con riguardo alla funzione stessa della giurisdizione penale.

 

Se quindi vi è spazio per una presunzione di genuinità a favore di talune dichiarazioni rese anteriormente al dibattimento (tali erano nel previgente testo della disposizione le dichiarazioni rese nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto), allora è irragionevole escludere radicalmente ogni altra presunzione similare, come quella che empiricamente scaturisce quando si constata che la dichiarazione, raccolta dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero (soggetti sui quali - è bene ricordarlo - grava un dovere istituzionale di correttezza e di indifferenza al risultato), è fornita di precisione, analicità e concordanza con altri elementi di prova, ovvero quando vi sia la convinzione di una deposizione dibattimentale non genuina.

 

3.4. Ma nella citata decisione la Corte non ha inteso soltanto affermare l'illegittimità di una radicale regola di inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali, suscettibile di provocare un concreto sganciamento dalla realtà, ma ha altresì indicato, riferendosi più volte al principio del libero, ma motivato, convincimento del giudice ("inteso come libertà del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti") il corretto criterio per la valutazione di tali dichiarazioni: esse potranno ritenersi preferibili in termini di attendibilità rispetto alle corrispondenti dichiarazioni dibattimentali, solo in presenza di elementi logici ed argomentazioni specifiche che inducano a ritenerle maggiormente aderenti alla verità dei fatti.

 

4. Queste, in estrema sintesi, le ragioni della sentenza n. 255 del 1992, dalle quali può trarsi un primo dato: dalla citata decisione non è lecito desumere che le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni debbano necessariamente, da sole, valere come prova dei fatti in esse affermati, ma semplicemente che anche esse devono poter essere utilizzate al fine dell'accertamento dei fatti, previa, ovviamente, una congrua motivazione sulla loro, ritenuta, maggiore attendibilità.

 

É principio generale che discende direttamente dal primo comma dell'art. 111 della Costituzione che ogni qualvolta si sia in presenza di due versioni difformi di un fatto rese dal medesimo testimone non è consentito al giudice di privilegiarne una a propria discrezione, ma sussiste invece l'obbligo di un più attento esame, sia intrinseco che globale, delle dichiarazioni contrastanti, al fine di rendere ragione della maggiore credibilità delle une, ovvero della non genuinità delle altre, della concordanza di alcuna di esse con altri elementi di prova, o, infine, dell'inattendibilità di entrambe.

 

5.1. Eliminato quindi il limite della inutilizzabilità a priori delle dichiarazioni predibattimentali, la novella portata dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, modificando il quarto comma originario ed introducendone un quinto, ha sostanzialmente esplicitato, codificandole, alcune ipotesi tratte da regole d'esperienza che possono ritenersi corrispondenti a talune delle situazioni che, anche in assenza della modifica legislativa, avrebbero consentito, secondo il vaglio critico del giudice, di ritenere veritiera la dichiarazione contestata.

 

5.2. Il quinto comma della disposizione (da considerarsi in ordine di antecedenza logica in quanto, non solo il novero delle situazioni dalle quali può trarsi un convincimento di non genuinità della deposizione è amplissimo, ma se la stessa risulta in qualche modo artefatta non può ricevere alcuna valutazione nel merito) prevede il caso in cui appaia, dalle modalità della deposizione o da altre circostanze comunque emerse nel corso del giudizio, che l'esame dibattimentale è stato inquinato affinchè non riproduca quanto il teste ebbe a dichiarare in sede d'indagine.

 

La norma ha l'evidente fine di consentire il recupero proprio di ciò che si voleva disperdere ed autorizza il giudice, ove ritenga realizzata l'ipotesi, ad apprezzare la dichiarazione resa precedentemente utilizzandola come prova dei fatti affermati, e salvo sempre l'obbligo di motivarne l'attendibilità anche mediante il ricorso ad elementi intrinseci della dichiarazione stessa. Se infatti ravvisare delle violenze o delle minacce al teste costituisce certo una valida ragione per disattendere la deposizione resa in giudizio, non per ciò solo è possibile senz'altro ritenere vera, acriticamente, la dichiarazione antecedente.

 

5.3. Nella nuova formulazione del quarto comma è invece prevista l'ipotesi che non siano ravvisabili fatti che abbiano turbato la genuinità della deposizione: anche in questo caso è possibile riconoscere alla dichiarazione predibattimentale efficacia probatoria se sussistono altri e diversi elementi di prova che ne confermano l'attendibilità.

 

In altri termini, a fronte di una deposizione dibattimentale non "sospetta" il legislatore codifica, discrezionalmente ma non irragionevolmente, un criterio logico- argomentativo in base al quale non è sufficiente un giudizio di attendibilità intrinseca o di superiore dignità logica della dichiarazione utilizzata per la contestazione, per assegnare prevalenza a questa, occorrendo a tal fine che essa sia anche coerente con qualche altro e diverso elemento di prova, onde - come è stato efficacemente osservato - iscriversi nella storia del reato con la legittimità che viene dalla connessione fra i vari segni che la compongono.

 

Sarà naturalmente compito della giurisprudenza definire questa nozione. Posto che la dichiarazione predibattimentale, in quanto allegata al fascicolo, costituisce certamente prova (contribuendo così a formare il materiale probatorio utilizzabile dal giudice), potrà ritenersi idoneo elemento di riscontro altro simile atto, o un semplice indizio, ovvero (come parte della dottrina ritiene) un qualsiasi elemento estrinseco che non necessariamente corrobori il fatto specifico ma solo il quadro generale del racconto.

 

6. Alla stregua delle suesposte ragioni, il regime delineato dal nuovo testo dell'art.500 può ritenersi, nel suo complesso, sufficientemente equilibrato e non in contrasto con i principi espressi dalla sent. n. 255 di questa Corte, nè con i parametri costituzionali prospettati dal giudice remittente.

 

Non può ravvisarsi, infatti, violazione del principio del libero convincimento del giudice (nè degli artt. 24 e 25 della Costituzione) ove correttamente s'intenda quest'ultimo non come libertà senza limiti, bensì come possibilità di scelta motivata entro una ragionevole logica; nè, in presenza di due dichiarazioni contrastanti, risulta attribuita alcuna presunzione di genuinità alla deposizione dibattimentale, dovendo anche quest'ultima essere ordinariamente apprezzata dal giudice, superato il vaglio critico delle contestazioni, in raffronto a tutte le circostanze emerse in dibattimento; nè, infine, la disciplina in esame, pur se simile negli effetti, risulta motivata da una sostanziale equiparazione alla norma di cui all'art.192, terzo comma, del codice di procedura penale (dichiarazioni rese dal coimputato), bensì, si ripete, da intenti di non irragionevole cautela nella valutazione di elementi di prova tra loro contrastanti.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 500, quarto comma, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione, dal Pretore di Macerata con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 1994.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Mauro FERRI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 16/06/1994.