SENTENZA N. 207
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 429, terzo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 21 aprile 1993 dal Pretore di Milano, nel procedimento civile vertente tra Mosca Ersilia e S.p.a.
Industria Componenti Plastici, iscritta al n. 387 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1993;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 1994 il Giudice relatore Luigi Mengoni.
Ritenuto in fatto
1. Nel corso di un procedimento ingiuntivo promosso da Ersilia Mosca nei confronti della s.p.a. Industria Componenti Plastici per il pagamento del trattamento di fine rapporto con rivalutazione della somma capitale e interessi legali dal giorno della maturazione del credito, il Pretore di Milano, con ordinanza del 21 aprile 1993, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 429, terzo comma, cod.proc. civ. per contrasto con l'art. 3 Cost. sia sotto il profilo del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo del principio di eguaglianza.
Sotto il primo profilo, l'illegittimità costituzionale è sopravvenuta, ad avviso del giudice remittente, in seguito alla legge 26 novembre 1990, n. 353, che ha elevato il saggio degli interessi legali, previsto dall'art.1284 cod. civ., dal cinque al dieci per cento. Nell'ipotesi dall'art 429 cod.proc. civ., il quale, secondo l'interpretazione consolidata nella giurisprudenza, prevede il cumulo della rivalutazione con gli interessi legali (calcolati sulla somma rivalutata), l'applicazione del nuovo saggio di interessi comporta un irrazionale eccesso di tutela dei crediti di lavoro rispetto al prezzo di mercato del denaro.
Sotto il secondo profilo, il contrasto con l'art. 3 Cost. sarebbe sopravvenuto in seguito alla sentenza di questa Corte n. 156 del 1991.
Una volta estesa ai crediti previdenziali, la tutela privilegiata dell'art. 429 non può più essere giustificata adducendo "la necessità di porre una remora alla resistenza e agli ingiustificati ritardi dei datori di lavoro nell'adempimento delle loro obbligazioni".
Perciò, la responsabilità per ritardo dell'adempimento dei crediti di lavoro dovrebbe essere ricondotta nei limiti della disciplina generale dell'art. 1224 cod. civ. come interpretato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 5299 del 1989.
2. Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
L'interveniente osserva che questa Corte ha avuto occasione di affermare a più riprese le ragioni che sono a fondamento del trattamento particolare riservato ai crediti di lavoro, individuandole, tra l'altro, nel riequilibrio dell'arricchimento conseguito dal datore di lavoro e nella remora all'inadempimento. Tali ragioni permangono tuttora, nè risultano scalfite dalla nuova disciplina del tasso di interesse. Se, infatti, la rivalutazione è parte del credito, come ritiene la giurisprudenza prevalente, anche su questa parte gli interessi non possono che essere calcolati al tasso legale, quale che esso sia. La fattispecie va valutata anche dal lato di chi ritarda il pagamento. E sotto tale aspetto il cumulo di rivalutazione e interessi non sarebbe irragionevole.
Non si possono trarre argomenti contrari dalla diversa disciplina introdotta per i criteri previdenziali, diversa essendone la ratio rispetto alla disciplina particolare dei crediti di lavoro.
Considerato in diritto
1. Il Pretore di Milano impugna l'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., "in quanto riserva un trattamento deteriore ai datori di lavoro e agli enti previdenziali rispetto ai debitori comuni", i quali sono invece soggetti alla normativa contenuta nell'art. 1224 cod. civ.
L'impugnativa è proposta in riferimento all'art. 3 Cost., sia sotto il profilo del principio di ragionevolezza sia sotto il profilo del principio di eguaglianza, e corrispondentemente è articolata, nella motivazione, in due questioni distinte:
a) incostituzionalità della norma denunciata perchè il cumulo della rivalutazione con gli interessi legali, elevati al dieci per cento dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, accorda ai crediti di lavoro un eccesso irragionevole di tutela;
b) incostituzionalità del privilegio previsto dalla norma denunciata perchè, in seguito alla sentenza di questa Corte n. 156 del 1991, è venuta meno la ragione che poteva giustificare il diverso trattamento dei crediti di lavoro rispetto alle altre obbligazioni pecuniarie regolate dalla norma generale dell'art. 1224 cod. civ.
2. In relazione ai crediti previdenziali l'impugnativa è inammissibile per la duplice ragione che oggetto del giudizio a quo è un credito di lavoro e soltanto a questa categoria di crediti ha riguardo la norma impugnata.
3. La questione sub a) è inammissibile perchè impegna la sfera riservata alle valutazioni discrezionali del legislatore.
Il giudice remittente fa proprio, in sostanza, l'argomento con cui all'indomani della legge n. 353 del 1990 una parte della dottrina civilistica ha avanzato sospetti di sopravvenuta incostituzionalità dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ. La ratio dell'art. 1 della legge, che ha modificato l'art. 1284, primo comma, cod. civ., sarebbe quella di inglobare nel saggio degli interessi legali, oltre al corrispettivo per l'uso del denaro, anche un compenso forfettario per il diminuito potere di acquisto della somma capitale a causa dei processi inflattivi. Perciò, dopo il 1° gennaio 1991, il cumulo dell'importo della svalutazione con gli interessi legali (mentre per gli altri crediti vale la regola del non cumulo), comporterebbe per i crediti di lavoro una irrazionale duplicazione di copertura del deprezzamento della moneta. In virtù del cumulo l'interesse nominale del dieci per cento stabilito dal nuovo testo dell'art. 1284 cod. civ. si converte, nell'ipotesi dell'art. 429 cod. proc.civ., in interesse reale: il che è ritenuto eccessivo.
L'irrazionalità emerge dal punto di vista dell'analisi economica, la quale non distingue, a differenza dell'analisi giuridica, tra godimento legittimo di una somma di denaro in base a un rapporto di credito e godimento illegittimo per mancato tempestivo pagamento del debito. Non si potrebbe obiettare che l'aumento del saggio degli interessi legali è stato disposto con riguardo agli interessi corrispettivi, e dunque gli interessi nella misura del dieci per cento sono dovuti indipendentemente dall'inflazione: una norma giuridica non può essere compresa separandola dal problema al quale ha inteso rispondere, e non c'é dubbio, secondo la dottrina sopra riferita, che l'art. 1 della legge n. 353 ha voluto rispondere all'esigenza di un livello del saggio di interesse che scontasse forfettariamente anche la svalutazione della moneta. Ma questa razionalizzazione del nuovo art. 1284 cod. civ. non è trasferibile tout court nell'analisi giuridica delle fattispecie di mora debendi, dove non si tratta di regolare un rapporto che dà titolo (oneroso) al godimento temporaneo di una somma di denaro spettante ad altri, bensì di valutare la diminuzione patrimoniale sofferta dal creditore per la mancata disponibilità immediata di liquidità a causa dell'inadempimento del debitore.
Tanto meno la riduzione della valutazione giuridica alla pura analisi economica è possibile in relazione alla norma speciale dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., che prevede una tutela privilegiata fondata sulla rilevanza costituzionale dei crediti di lavoro. Ad essa è sotteso un bilanciamento, tra la razionalità economica e i valori personali evocati dall'art. 36 Cost., che coinvolge la scelta tra una pluralità di soluzioni (eventualmente incidenti sulla stessa natura dell'obbligazione del datore di lavoro) e perciò appartiene alla sfera riservata alla discrezionalità legislativa. Nè si può dire che la scelta sia pregiudicata dalla soluzione adottata dall'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, in ordine alla ricaduta dell'art.1 della legge n. 353 del 1990 sui crediti previdenziali di cui all'art.442 cod. proc. civ., assoggettati a una regola analoga a quella dell'art. 429 per effetto della sentenza di questa Corte n. 156 del 1991.
A questa categoria di crediti l'art. 36 Cost. non è applicabile se non "per il tramite e nella misura" dell'art. 38, secondo comma, Cost. (cfr. sentenze nn. 156 e 119 del 1991), cioé con un limite che introduce nel bilanciamento soggiacente al citato art. 16, comma 6, una ratio autonoma.
D'altra parte, in una prospettazione più ampia della razionalità economica, il problema posto dal giudice remittente potrebbe essere risolto, anzichè con un intervento diretto sull'art. 429 cod. proc.civ., con una revisione dell'art. 1284 cod. civ. come modificato dalla legge n. 353 del 1990, la cui rigidità, in contrasto con l'odierna tendenza al ribasso dei tassi di interesse, appare inopportuna in una economia fluida come quella attuale, caratterizzata da continui mutamenti dei parametri economici e finanziari.
4. La questione sopra distinta sub b) non è fondata.
La tutela privilegiata dei crediti di lavoro rispetto alla disciplina generale dell'art. 1224 cod. civ. non viola il principio di eguaglianza, essendo giustificata, come già si è accennato, dalla peculiare valenza costituzionale attribuita dall'art. 36 Cost. al diritto del lavoratore alla retribuzione, indipendentemente dall'eventuale funzione di remora a pratiche ritardatrici del pagamento da parte dei datori di lavoro, tra i quali figurano anche lo Stato e le altre pubbliche amministrazioni.
Del resto, la stessa ordinanza di remissione, pur propugnando la riduzione "nei limiti della regola generale consacrata nell'art. 1224 cod. civ. della portata della norma contenuta nell'art. 429 cod. proc. civ.", in realtà si riferisce soltanto alla regola di non-cumulo degli interessi e della rivalutazione, statuita dalla sent. n. 5299 del 1989 della Corte di cassazione a sezioni unite, mentre non mette in discussione le altre peculiarità che differenziano la disciplina dell'art. 429 dal diritto comune (liquidazione d'ufficio del "maggior danno" senza bisogno di domanda, nè di alcuna prova da parte del lavoratore;irrilevanza dell'imputabilità del ritardo dell'adempimento a colpa del debitore; decorrenza in ogni caso dal giorno della maturazione del credito, indipendentemente dai presupposti della mora ex re di cui all'art. 1219, secondo comma, cod. civ.).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile, sotto il profilo sopra specificato sub a), la questione di legittimità costituzionale dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., sollevata dal Pretore di Milano con l'ordinanza in epigrafe;
dichiara non fondata la questione sotto il profilo sopra specificato sub b);
dichiara inammissibile, sotto entrambi i profili, la medesima questione in relazione alle prestazioni erogate dagli enti previdenziali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 1994.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Luigi MENGONI, Redattore
Depositata in cancelleria il 02/06/1994.