Sentenza n. 112 del 1994

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SENTENZA N. 112

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Avv. Massimo VARI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 28, secondo comma, del codice di procedura penale; dell'art. 429 (in combinato disposto con gli artt. 417, primo comma, lett. b), e 423 del codice di procedura penale), e dell'art. 2, n.52 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega al governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), promosso con ordinanza emessa il 29 luglio 1992 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Siracusa nel procedimento penale a carico di La Rosa Salvatore ed altri, iscritta al n.71 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 3 novembre 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.                      Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Siracusa ha sollevato questione di legittimità costituzionale:

a) dell'art. 28, secondo comma, del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 101, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui, attribuendo prevalenza alla decisione del giudice del dibattimento nel contrasto con il giudice dell'udienza preliminare, comprime la libertà di giudizio di quest'ultimo, vincolandolo a pronunziare un provvedimento di propria competenza secondo la statuizione di un giudice diverso da quello di legittimità;

b) dell'art. 429 (in combinato disposto con gli artt. 417 e 423 del codice di procedura penale), e dell'art. 2 n. 52 della legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione, perchè tali norme, imponendo al giudice dell'udienza preliminare di adottare, nel decreto che dispone il giudizio, la definizione giuridica del fatto formulata dal P.M. e contraria al suo convincimento, comprimerebbero l'esercizio della funzione giurisdizionale oltre il limite della soggezione del giudice unicamente alla legge ed attenterebbero al principio della inviolabilità della difesa.

2. Nel processo penale contro alcuni coimputati di distinti fatti di detenzione, vendita e cessione di "non modiche quantità" di eroina (secondo la richiesta del P.M.) il remittente espone di aver disposto il giudizio dinanzi al Tribunale di Siracusa perchè gli imputati rispondessero della ipotesi di reato attenuata prevista dall'art. 73, quinto comma, del d.P.R. n. 309 del 1990, anzichè di quella prevista dal primo comma della medesima norma, configurata dal pubblico ministero.

Il Tribunale ha dichiarato, con ordinanza, la nullità ex art. 178, primo comma, del codice di procedura penale, del decreto che aveva disposto il giudizio, ravvisando la violazione dell'art. 423 dello stesso codice, per avere il G.U.P. modificato l'imputazione risultante dalla richiesta del P.M. e riconosciuto il fatto di lieve entità nel reato di detenzione e cessione di stupefacenti.

3. Ciò premesso, il giudice a quo rileva che non è vietato al giudice preliminare (e risponderebbe, anzi, a giusti criteri di completezza nella enunciazione del fatto onde consentire all'imputato una difesa consapevole) l'indicazione di tutti gli elementi salienti della fattispecie, compresi quelli che possano comportare attenuazioni della pena o un diverso regime delle limitazioni cautelari (argomento tratto dagli artt. 429 lett. c e 65 del codice di procedura penale, in relazione anche all'art. 275, terzo comma); tanto più quando sugli elementi circostanziali l'imputazione del P.M. contenga indicazioni ritenute dal giudice in contrasto con le effettive risultanze degli atti (nel caso di specie, il P.M. ha definito "non modica", nella imputazione, la quantità di stupefacente detenuta dagli imputati).

Nel convincimento, dunque, che il giudice dibattimentale non possa vincolare alle sue statuizioni il giudice preliminare, in caso di regresso del processo, nel contenuto di un provvedimento che compete a quest'ultimo, e nella convinzione che il decreto di rinvio a giudizio debba poter contenere la indicata modifica della imputazione (che in atto non sarebbe consentita, stando alla interpretazione della disciplina in vigore), il remittente ha sollevato la questione incidentale di legittimità costituzionale prima indicata.

4. Al riguardo rileva: 1) La norma dell'art. 28, secondo comma, del codice di procedura penale regola preventivamente il contrasto tra il giudice dell'udienza preliminare e quello del dibattimento, attribuendo prevalenza alla decisione di quest'ultimo.

Il criterio di prevalenza in questione, e la conseguenziale esclusione dell'ammissibilità del conflitto tra giudice delle indagini (o dell'udienza preliminare) e giudice dibattimentale, si porrebbe in contrasto con il precetto dell'art. 101, secondo comma, della Costituzione, nella misura in cui risulta compressa la intangibile autonomia giurisdizionale del giudice della fase preliminare: giudice soggetto "soltanto" alla legge nella deliberazione e, dunque, indipendente nel suo libero convincimento dalla statuizione di ogni altro giudice diverso da quello di legittimità.

5. Inoltre, le norme previste dagli artt. 2 n. 52 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81 e 429 del codice di procedura penale (in combinato disposto con gli artt. 417, primo comma, lett. b) e 423) imponendo al giudice dell'udienza preliminare di adottare, nel decreto che dispone il giudizio, la definizione giuridica del fatto formulata dal P.M. e contraria al suo convincimento, contrasterebbero anch'esse con il richiamato art. 101, secondo comma, della Costituzione comprimendo, a loro volta, l'esercizio della funzione giurisdizionale oltre il limite della soggezione del giudice unicamente alla legge.

Oltre a ledere il principio del libero convincimento insito nell'art.101, secondo comma, della Costituzione, detta disciplina contrasterebbe anche con il principio di ragionevolezza enunciato dall'art. 3: la intangibilità della configurazione giuridica del fatto formulata dal P.M., prevista dai richiamati artt. 417, 423 e 429 del codice di procedura penale, imponendo al giudice dell'udienza preliminare financo di contraddire la propria motivata convinzione, nonostante l'art. 192 dello stesso codice ne salvaguardi invece la libertà di valutazione, porrebbe in essere una irragionevole disparità di disciplina .

6. La normativa in esame, infine, attenterebbe anche al principio della inviolabilità della difesa, frustrando il diritto delle parti alla corretta configurazione giuridica del fatto-reato del quale l'imputato è chiamato a rispondere: l'art. 24 secondo comma della Costituzione, garantisce la in violabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento, ma questa norma-cardine verrebbe violata ove il giudice dell'udienza preliminare - giudice naturale nella fase - sia tenuto, per legge, a rimanere insensibile all'esigenza difensiva di adeguare immediatamente la qualificazione giuridica alla effettiva portata del fatto.

7. É intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione.

Premette l'Avvocatura che l'indipendenza del giudice, garantita dal secondo comma dell'art. 101 della Costituzione, è volta ad assicurare l'imparzialità del giudice, vale a dire l'esclusione di ogni pericolo di parzialità, onde a lui sia assicurata una posizione assolutamente super partes.

La situazione in esame non sarebbe invece in alcun modo lesiva del precetto della indipendenza personale e della terzietà del giudice, in quanto sono denunciate norme di legge che disciplinano la attività del processo, le competenze ed i limiti del potere riservato a taluni suoi protagonisti (nel caso P.M., GIP e Tribunale) in uno sviluppo razionale.

É conseguenza dell'attribuzione al P.M. della titolarità dell'esercizio dell'azione penale, - ritiene l'Avvocatura - che egli sia il solo legittimato a modificare l'imputazione, così come è razionale prevedere che il processo si svolga in progressione, con la conseguente prevalenza delle fasi successive; principio che è alla base non solo delle preclusioni, ma anche delle norme come quella di cui all'art.28, secondo comma, del codice di procedura penale, o come quelle che impongono al giudice del rinvio il rispetto del principio di diritto affermato in sede di Cassazione.

 

Considerato in diritto

 

1. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Siracusa dubita della legittimità costituzionale dell'art. 28, secondo comma, del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 101 della Costituzione, nella parte in cui, attribuendo prevalenza alla decisione del giudice del dibattimento nel contrasto con il giudice dell'udienza preliminare, comprime la libertà di giudizio di quest'ultimo, vincolandolo a pronunciare un provvedimento di propria competenza secondo la statuizione di un giudice diverso da quello di legittimità.

2. Con il medesimo provvedimento il remittente solleva anche questione di legittimità costituzionale dell'art. 429 (in combinato disposto con gli artt. 417 e 423) del codice di procedura penale, e dell'art. 2 n. 52 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione, perchè tali norme, imponendo al giudice dell'udienza preliminare di adottare, nel decreto che dispone il giudizio, la definizione giuridica del fatto formulata dal pubblico ministero e contraria al suo convincimento, comprimerebbero l'esercizio della funzione giurisdizionale oltre il limite della soggezione del giudice unicamente alla legge, ed attenterebbero al principio della inviolabilità della difesa.

3. La prima delle questioni sollevate dal G.I.P. presso il Tribunale di Siracusa deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Questa Corte ha già più volte esaminato la questione di legittimità dell'art. 28, secondo comma, del codice di procedura penale in raffronto al principio costituzionale di soggezione del giudice alla legge (cfr. ordd. n. 241 del 1991, 13, 69, 70 e 71 del 1992) rilevando, in primo luogo, che la prevalenza della decisione del giudice del dibattimento, in caso di contrasto con il giudice per le indagini preliminari, è prevista proprio da una disposizione avente forza di legge, inserita nel codice di procedura penale; nelle citate pronunce (cfr. in particolare ord. n. 241 del 1991) si è altresì affermato che il principio dell'indipendenza dei giudici, come ritenuto dalla Corte in riferimento ai vincoli derivanti dalla pluralità dei gradi di giurisdizione, comporta, nel sistema processuale, la previsione di disposizioni preordinate al coordinamento dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, mediante l'individuazione della competenza e la determinazione degli effetti degli atti processuali, anche in relazione all'attività di altra autorità giudiziaria, allo scopo di perseguire finalità di giustizia, e, come nel caso della norma in esame, la sollecita definizione del pro cesso.

Non essendo stati addotti argomenti nuovi o diversi da quelli già esaminati, va pertanto confermata la medesima conclusione di manifesta infondatezza già espressa nelle precedenti pronunce.

4. La seconda questione, relativa alla legittimità dell'art. 429 del codice di procedura penale (in combinato disposto con gli artt. 417 e 423 c.p.p.) e dell'art. 2 n. 52 della legge 16 febbraio 1987 n. 81, è, invece, inammissibile.

Il dubbio di legittimità costituzionale prospettato dal giudice remittente poggia su di una erronea individuazione degli elementi che, ai sensi della medesima norma impugnata, devono essere contenuti nel decreto che dispone il giudizio.

A quanto risulta dalla esposizione della vicenda contenuta nel provvedimento di rimessione, l'art. 429 viene censurato nella parte in cui imporrebbe al G.I.P. di adottare, nel decreto che dispone il giudizio, la definizione giuridica del fatto formulata dal pubblico ministero pur se contraria al suo convincimento; più in particolare gli vieterebbe, nel caso in esame, di formulare "l'ipotesi di reato attenuata prevista dall'art. 73, quinto comma, del d.P.R. 9 ottobre 1990 n.309 [Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza] in luogo di quella prevista dall'art. 73, primo comma, configurata dall'Accusa".

Ma tale diversità di apprezzamento, in realtà, non riguarda una diversa qualificazione giuridica del fatto (nel senso proprio cui fa riferimento l'art. 521, primo comma) enunciato dal pubblico ministero nella richiesta di rinvio a giudizio, ma attiene soltanto alla possibilità di aggiungere o meno all'imputazione una circostanza attenuante.

É del tutto pacifico, infatti, come chiaramente risulta dall'art. 380, secondo comma, lett. h) dello stesso codice di procedura penale, che la "lieve entità" del fatto, prevista al quinto comma del citato art. 73 non configura un autonomo titolo di reato, ma soltanto una circostanza attenuante relativa alle ipotesi di reato previste dai precedenti commi della disposizione; siffatto elemento, in quanto tale, non è certamente compreso tra quelli che, ai sensi dell'art. 429, lett. c), devono essere indicati nel decreto che dispone il giudizio, richiedendosi soltanto (analogamente a quanto disponeva, sul punto, l'art. 374 del previgente codice di rito) l'enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di una misura di sicurezza.

In questi termini nessun dubbio di "qualificazione giuridica" è dato ravvisare nel giudizio a quo, e pertanto la relativa questione appare priva di rilevanza.

É appena il caso di aggiungere, infine, sotto il profilo della necessaria aderenza del fatto contestato alla imputazione formulata che, se da un lato l'art. 429, secondo comma, prevede la nullità del decreto che dispone il giudizio soltanto (per quanto qui interessa) se manca o è insufficiente l'enunciazione del fatto o delle circostanze aggravanti, d'altro canto nulla vieta al G.I.P. di descrivere con la completezza che egli ritiene necessaria il fatto storico oggetto dell'accusa.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 28, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento all'art.101, secondo comma, della Costituzione, dal G.I.P. presso il Tribunale di Siracusa con l'ordinanza in epigrafe.

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 429 (in combinato disposto con gli artt. 417 e 423) del codice di procedura penale e 2 n. 52 della legge 16 febbraio 1987 n. 81 ("Delega al governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale") sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101, secondo comma, della Costituzione, dal G.I.P. presso il Tribunale di Siracusa con la medesima ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 31/03/94.