Ordinanza n. 435 del 1993

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ORDINANZA N. 435

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA,

 

Giudici

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 286-bis del codice di procedura penale, come introdotto dal decreto-legge 12 novembre 1992, n.431, e dal decreto-legge 12 gennaio 1993, n. 3, promosso con ordinanza emessa il 24 febbraio 1993 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Forti Gianclaudio, iscritta al n.240 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 3 novembre 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

 

Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 27, terzo comma, 32, primo comma, 101, secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 286-bis del codice di procedura penale, come introdotto dal decreto-legge 12 novembre 1992, n.431, e dal decreto-legge 12 gennaio 1993, n. 3;

 

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

 

considerato che il decreto-legge 12 novembre 1992, n. 431, non è stato convertito in legge entro il termine prescritto, come risulta dal comunicato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 8 del 12 gennaio 1993 e che altrettanto è accaduto per il decreto- legge 12 gennaio 1993, n. 3, come risulta dal comunicato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 13 marzo 1993, sicchè, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (vedi, da ultimo, le ordinanze nn. 292, 229, 116 e 51 del 1993), la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile;

 

che, d'altra parte, nel caso di specie il giudice a quo ha espressamente riconosciuto di aver già fatto applicazione della norma impugnata allorchè ha disposto in sede di udienza di convalida la misura degli arresti domiciliari, deducendo, a tal proposito, la rilevanza della questione sotto il duplice profilo che < il giudice era tenuto a pronunciarsi sulla richiesta del P.M. entro cinque giorni dalla stessa (art. 299 c. 3 c.p.p.) e non poteva, pertanto, che definire la questione dello status libertatis dell'indagato sulla base dell'attuale normativa, salvo poi eccepirne l'incostituzionalità>, e che, comunque, il giudice stesso < è tenuto a riesaminare l'attualità della propria decisione in punto di libertà personale con riferimento alle nuove e diverse esigenze di ordine cautelare che potranno di volta in volta presentarsi>;

 

che entrambi i rilievi svolti dal giudice a quo in punto di rilevanza sono destituiti di fondamento, giacchè, quanto al primo, anche a voler prescindere dal fatto che, essendo stato il rimettente chiamato a pronunciarsi de libertate in sede di convalida, il referente normativo non è quello offerto dall'art.299 comma 3 c.p.p. (riguardante la revoca e la sostituzione di misure già disposte) ma quello dall'art. 391 comma 5 c.p.p., è agevole replicare che non è certo la brevità del termine a disposizione del giudice una circostanza che lo legittimi ad una sorta di < applicazione provvisoria> di una norma ritenuta incostituzionale e a sollevare incidente solo in un secondo momento; paradosso, d'altra parte, svelato dallo stesso dispositivo dell'ordinanza che, nel disporre < la sospensione del giudizio sulla libertà personale> dell'imputato, in realtà non produce effetti sospensivi di sorta, essendosi quel giudizio esaurito con l'adozione del provvedimento che ha disposto la misura;

 

che anche il secondo degli accennati rilievi è inconferente ai fini che qui interessano, in quanto al giudice è consentito provvedere di ufficio alla revoca o alla sostituzione delle misure nelle sole ipotesi che l'art. 299 comma 3 c.p.p. tassativamente enumera; sicchè, non ricorrendo nella specie nessuna di tali ipotesi, è evidente, allora, che il giudice a quo ha perso qualsiasi potere di controllo sullo status libertatis, che potrà riespandersi solo a seguito di una domanda delle parti la quale darebbe vita, peraltro, ad un nuovo procedimento incidentale;

 

e che, pertanto, la questione deve essere dichiarata inammissibile anche perchè priva del requisito della rilevanza.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 286-bis del codice di procedura penale, come introdotto dal decreto-legge 12 novembre 1992, n. 431 e dal decreto-legge 12 gennaio 1993, n. 3, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 27, terzo comma, 32, primo comma, 101, secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino con l'ordinanza in epigrafe.

 

Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 01/12/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Giuliano VASSALLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 14/12/93.