SENTENZA N. 430
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA,
Giudici
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 47, comma primo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario) come interpretato dall'art. 14 bis della legge 7 agosto 1992, n. 356 promosso con ordinanza emessa il 18 dicembre 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Brescia nel procedimento di sorveglianza per l'affidamento in prova al servizio sociale del detenuto Braga Francesco iscritta al n. 189 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1993;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 3 novembre 1993 il Giudice relatore Renato Granata.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 18 dicembre 1992 il Tribunale di sorveglianza di Brescia, a seguito dell'ordinanza restitutoria n. 422/92 di questa Corte, ha confermato - dopo il chiesto riesame, alla luce dello ius superveniens sub art. 14 bis l. 1992 n. 356 - la rilevanza della questione (sollevata con precedente propria ordinanza del 17 marzo 1992) di legittimità costituzionale dell'art. 47, comma primo, ord. pen. (l. 1975 n. 344/1986 n. 663), ove interpretato nel senso che, ai fini della determinazione del limite dei tre anni rilevante agli effetti della concessione del beneficio dell'affidamento in prova al servizio sociale, consenta di aver riguardo (in ragione della detraibilità dell'espiato, ammessa dalla precedente sent. 386/89 Corte Cost.) alla sola misura della pena residua anche nei casi in cui al richiedente sia stata originariamente irrogata (come nella specie) pena superiore (pur notevolmente) ai tre anni per un unico reato: per asserito contrasto con i principi di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3) e con il canone di buona amministrazione (art. 97 Cost.).
2. Nella citata ordinanza n. 422/92, questa Corte - dopo aver ricordato che, con successiva sentenza 10392/92, le Sezioni unite avevano nel frattempo già interpretato la norma denunciata nel senso restrittivo postulato dal giudice a quo (della non concedibilità cioé del beneficio in parola ai condannati a pena superiore ai tre anni per unico reato) e che in ulteriore prosieguo era però entrato in vigore l'art. 14 bis della l. 356 di conversione del d.l. n. 306 del 1992, dichiaratamente interpretativo dell'art. 47 o.p. (che aveva riferito il limite di pena, rilevante agli effetti dell'affidamento al servizio sociale, alla "pena da espiare in concreto tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive") - aveva appunto su tali premesse restituito gli atti al giudice a quo perché esaminasse la rilevanza della questione sub iudice, dopo la riferita sopravvenienza normativa.
3. Con l'odierna ordinanza, lo stesso Tribunale di sorveglianza risponde sul punto che l'art. 14 bis della legge n. 356 del 1992, per l'equivocità della correlativa formulazione, non avrebbe a suo avviso (per altro in contrasto con coeve pronunzie della Corte regolatrice) effettiva attitudine modificativa della pregressa esegesi dell'art. 47 o.p.: di cui per ciò ripropone la denuncia - con estensione comunque al predetto art. 14 bis - nei sensi, per le ragioni e con riferimento ai parametri già indicati.
4. L'Avvocatura dello Stato, per l'intervenuto Presidente del Consiglio, ha viceversa concluso, in via principale, per l'inammissibilità della questione, per l'intervenuta modifica del quadro normativo e, in subordine, per la sua infondatezza nel merito.
Considerato in diritto
l.-Il Tribunale a quo ripropone, in sostanza il dubbio dei legittimità dell'art. 47 comma primo, dell'ordinamento penitenziario (l. 1975 n. 354 e successive modificazioni) ove interpretato nel senso che-ai fini del computo limite dei tre anni della < pena espiata> rilevante agli effetti della ammissione del condannato all'affidamento in prova al servizio sociale-sia consentito avere riguardo (in ragione della detraibilità dell'espiato ammessa da precedente sentenza n. 386/1989 di questa Corte) alla sola misura della pena residua < anche nei casi in cui al richiedente sia stata originariamente irrogata pena superiore, pur notevolmente (come nella specie), al suddetto limite per unico reato>.
Ed in ragione di siffatta esegesi - che attribuisce alla pregressa elaborazione giurisprudenziale, orientata dalla richiamata sentenza costituzionale del 1989, e non univocamente attinta dallo ius superveniens-ipotizza la violazione dell'art. 3 della Costituzione - sotto il duplice profilo della intrinseca irragionevolezza della estensione del beneficio in parola anche a condannati per reati di alto allarme sociale, e della ingiustificata equiparazione, ai fini indicati, del trattamento di tali soggetti rispetto a quello di quanti sono chiamati a rispondere di reati meno gravi. E prospetta poi l'ulteriore contrasto con l'art. 97 della Costituzione, in ragione di un possibile vulnus al buon andamento dell'amministrazione della giustizia.
2.-In realtà-dopo la sentenza n. 17/1992 di questa Corte, che aveva avvertito come la detraibilità della pena espiata, agli effetti considerati, si riferisse, nell'economia della precedente citata pronunzia n. 386/1989, unicamente alle ipotesi di soggetti originariamente condannati a pena superiore ai tre anni in dipendenza di cumulo di pene, di per sè inferiori al detto limite-la giurisprudenza della Cassazione (come avvertito nell'ordinanza restitutoria n. 422/1992), con inversione di indirizzo, aveva già aderito alla interpretazione restrittiva auspicata dal Tribunale rimettente, nel senso cioè della non concedibilità del beneficio in parola ai condannati cui fosse stata inizialmente inflitta una pena superiore ai tre anni per reato unico.
É sopravvenuta però la norma di interpretazione autentica (dell'art. 47 ord. pen.), di cui all'art. 14 bis della l. 7 agosto 1992 n. 356, la quale ha precisato che < pena espiata>, agli effetti del limite ostativo alla concessione del beneficio in parola, deve intendersi quella < da espiare in concreto tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive> E proprio sulla base di tale ius superveniens la Corte di Cassazione, con numerose successive e conformi decisioni a sezioni semplici da ultimo anche avallate dalla sezioni unite (sent. n.18/1993), ha affermato, con ulteriore ribaltamento della propria giurisprudenza, la detraibilità in ogni caso della pena presofferta, anche nei confronti quindi di condannati a pena originariamente superiore al tetto dei tre anni per reato unico.
3.-Il diritto vivente-in virtù di quest'ultima pronunzia giurisprudenziale-si è pertanto effettivamente evoluto e consolidato nel senso presupposto dal Collegio a quo, ancorchè sulla base di dati ricostruttivi non integralmente coincidenti con quelli dal medesimo assunti.
E ciò basta evidentemente per ritenere-contro la eccezione dell'Avvocatura-la ammissibilità delle questioni sollevate, che occorre quindi esaminare nel merito.
4. - In tale prospettiva, deve per altro escludersi che la (ormai così definitivamente acquisita) applicabilità della generalizzata misura alternativa di che si discute (in tutti i casi in cui, quale che sia l'entità della pena inflitta, quella residua da espiare non superi i tre anni) possa contrastare con il precetto della ragionevolezza o della eguaglianza.
Sotto il primo profilo la valorizzazione della pena espiata, anche nei confronti di soggetti condannati a pene elevate, riflette infatti una opzione che - una volta superato, nei sensi e per le ragioni indicati, il problema ermeneutico della correlativa estensione-innegabilmente comunque si riconduce alla sfera della discrezionalità del legislatore, non soggetta al sindacato di costituzionalità.
Nè può dirsi, per l'effetto, violato il canone della parità di trattamento, perchè la diversità delle varie posizioni soggettive, in termini di meritevolezza del beneficio anche in dipendenza della pericolosità manifestata dalla pena originariamente irrogata, ben può essere valutata (nel bilanciamento con la durata ed i risultati appunto dell'espiazione) in sede di concreta ammissione del condannato alla misura premiale.
5. -- E neppure infine è ipotizzabile la pretesa vulnerazione del principio del buon andamento della amministrazione (art. 97 Cost.), poichè la norma in esame non attiene alla organizzazione degli apparati volti alla repressione penale, bensì alla attribuzione di benefici a detenuti in vista della loro rieducazione, governata dal diverso canone dell'art. 27, comma terzo, Cost., che qui non viene in discussione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.47, comma primo, dell'ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975 n. 354 e successive modifiche e integrazioni) come interpretato dall'art. 14 bis della legge 7 agosto 1992 n. 356 (di conversione del d.l. 1992 n. 306), sollevata, in riferimento agli artt. 3, comma primo e secondo e 97 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Brescia, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 01/12/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Renato GRANATA, Redattore
Depositata in cancelleria il 14/12/93.