Sentenza n. 364 del 1993

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SENTENZA N. 364

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 1° marzo 1991, n. 60 (Interpretazione autentica degli articoli 297 e 304 del codice di procedura penale e modifiche di norme in tema di durata della custodia cautelare), convertito nella legge 22 aprile 1991, n. 133 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° marzo 1991, n. 60, recante interpretazione autentica degli articoli 297 e 304 del codice di procedura penale e modifiche di norme in tema di durata della custodia cautelare), che ha modificato l'art. 544, secondo comma, del codice di procedura penale, in rapporto al disposto dell'art. 585, secondo comma, lett. c), dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 7 dicembre 1992 dalla Corte di appello di Firenze nel procedimento penale a carico di Anna Maria Damigella, iscritta al n. 83 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1993.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 23 giugno 1993 il Giudice relatore Enzo Cheli.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel procedimento d'appello contro la sentenza del Tribunale di Prato di condanna di Anna Maria Damigella per il delitto di cui all'art. 315 del codice penale, la Corte d'appello di Firenze, con ordinanza del 7 dicembre 1992 (R.O. n. 83 del 1993), ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 72 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 1° marzo 1991, n.60, convertito nella legge 22 aprile 1991, n. 133 - che ha modificato l'art.544, secondo comma, del codice di procedura penale, riducendo da trenta a quindici giorni il termine per la redazione della sentenza non contestualmente motivata - in rapporto all'art.585, secondo comma, lett. c), dello stesso codice - che fa decorrere il termine per proporre l'impugnazione "dalla data di scadenza del termine stabilito dalla legge ..... per il deposito della sentenza".

 

Il giudice remittente premette che la sentenza di condanna è stata pronunciata il 19 settembre 1991 e depositata il 3 ottobre dello stesso anno mentre l'atto di appello è stato depositato il 14 novembre del 1991 e quindi oltre il termine di trenta giorni per proporre l'impugnazione fissato dall'art. 585 del codice di procedura penale. Nell'ordinanza si espone inoltre che il difensore dell'imputata ha sostenuto la tempestività dell'appello ed ha, in subordine, eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 6 del decreto-legge 1° marzo 1991, n. 60, convertito con modificazioni nella legge 22 aprile 1991, n. 133, mettendo in rilievo come sia stata la riduzione a quindici giorni del termine per il deposito della sentenza non contestualmente motivata a determinare l'intempestività del suo atto di appello.

 

2. - Ad avviso del giudice a quo la questione di costituzionalità prospettata è rilevante poichè è per effetto della norma impugnata, modificativa del secondo comma dell'art 544 del codice di procedura penale, che l'impugnazione proposta dalla difesa della Damigella risulta inammissibile.

 

Nel merito poi la questione è ritenuta non manifestamente infondata.

 

Il punto di partenza dell'argomentazione svolta dal giudice a quo è che lo stretto collegamento istituito dall'art. 585, secondo comma, lett. c), del codice di procedura penale con il disposto dell'art. 544, secondo comma, dello stesso codice "determina la decorrenza del termine per l'impugnazione di sentenza dibattimentale non contumaciale e non contestualmente motivata dallo spirare del termine stabilito dalla legge per il deposito della sentenza medesima, ove osservato, e dunque oggi, per effetto dell'art 6 del decreto-legge n. 60 del 1991, dal sedicesimo giorno successivo alla pronuncia della sentenza".

 

Aggiunge il giudice remittente che - in base al disposto dell'art. 548, secondo comma, del codice di procedura penale - solo l'inosservanza, da parte del giudice, del più ampio termine di trenta giorni dalla pronuncia impone la notifica dell'avviso di deposito della sentenza all'imputato presente ed al suo difensore; con la conseguenza che il termine per l'impugnazione inizierà a decorrere dalla scadenza del quindicesimo giorno anche in tutti i casi di sentenza depositata oltre il quindicesimo ma entro il trentesimo giorno dalla pronuncia.

 

Per effetto di tali norme il contumace si troverebbe in una situazione più vantaggiosa dell'imputato presente e diligente poichè, "oltre a fruire dei giorni in più per la notifica dell'estratto, si gioverà del disposto dell'art.548, commi secondo e terzo, del codice di procedura penale, la cui lettura coordinata - in mancanza di qualsivoglia modificazione seguita a quella dell'art. 544, secondo comma, del codice - determina nel trentesimo giorno dalla pronuncia il momento della notifica dell'estratto (anche quando il deposito della motivazione avvenga entro il termine di quindici giorni oggi prescritto)".

 

Di qui - secondo il giudice remittente - la violazione dell'art. 3 della Costituzione che vuole siano informate a ragionevolezza le differenziazioni di trattamento soprattutto quando esse attengano all'esplicazione di un diritto fondamentale come il diritto di difesa.

 

Inoltre la norma denunciata sarebbe in contrasto anche con l'art. 24 della Costituzione. E ciò sia perchè la normativa impugnata determinerebbe una consistente contrazione "del termine complessivo per impugnare" sia perchè essa costituirebbe "momento di disorientamento per l'interprete e per il fruitore (qui imputato e suo difensore) del sistema processuale delle impugnazioni".

 

Dopo aver ricordato che la riduzione da trenta a quindici giorni del termine di cui all'art. 548, secondo comma, del codice di procedura penale è stata prima introdotta dall'art. 5, quinto comma, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, e successivamente soppressa nella legge di conversione 12 luglio 1991, n. 203, il giudice a quo sostiene che la mancata approvazione della modifica in sede di conversione del decreto-legge n. 152 del 1991 ha testimoniato della volontà del legislatore di tener fermo l'originario termine di trenta giorni.

 

Da questa vicenda legislativa scaturirebbe perciò, sempre secondo la Corte remittente, la conferma del sospetto che la norma impugnata abbia prodotto una ingiustificata compressione del diritto di difesa, violando l'art. 24 della Costituzione.

 

3. - L'ultimo profilo di illegittimità costituzionale della norma impugnata evidenziato dal giudice remittente riguarda il "processo formativo" e le "modalità di emanazione" del decreto-legge n. 60 del 1991 che sarebbero in contrasto con gli artt. 72 e 77 della Costituzione in relazione agli artt.7 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, e 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400.

 

Ad avviso della Corte d'appello di Firenze, infatti, non sarebbe consentita l'emanazione di un decreto-legge contenente modifiche del codice di procedura penale in presenza della delega al Governo ad emanare, entro un triennio dall'entrata in vigore del codice di procedura penale, disposizioni integrative e correttive su conforme parere di una Commissione bicamerale (art. 7 e 8 della legge n. 81 del 1987).

 

4. - Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

 

Considerato in diritto

 

1. - La Corte d'appello di Firenze solleva questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 6 del decreto-legge 1° marzo 1991, n.60, convertito nella legge 22 aprile 1991, n. 133, che ha modificato l'art.544, secondo comma, del codice di procedura penale, riducendo da trenta a quindici giorni il termine per la redazione dei motivi della sentenza non motivata contestualmente alla redazione del dispositivo.

 

Secondo il giudice remittente la riduzione del termine per la redazione dei motivi della sentenza - considerata nel suo collegamento con le disposizioni dettate dall'art. 548 e dall'art. 585, secondo comma, lett. c), del codice di procedura penale - darebbe vita ad una disciplina del termine per impugnare contrastante con l'art. 3 della Costituzione perchè irrazionalmente più vantaggiosa per l'imputato contumace rispetto all'imputato "presente e diligente". E ciò perchè - sulla base dell'attuale formulazione dell'art. 548 del codice - l'avviso di deposito con l'estratto della sentenza dovrebbe essere notificato al contumace dopo trenta giorni dalla pronuncia anche in caso di deposito della motivazione entro il termine di quindici giorni oggi prescritto dalla norma impugnata.

 

Inoltre, la norma denunciata determinerebbe, sempre per l'imputato presente, una notevole contrazione del termine complessivo per impugnare in violazione del diritto di difesa sanzionato nell'art. 24 della Costituzione e si porrebbe altresì in contrasto con gli artt. 72 e 77 della stessa Costituzione, non essendo consentito, nel primo triennio di vigenza del codice di procedura penale, modificare tale codice senza osservare la speciale procedura per l'emanazione di disposizioni integrative e correttive regolata dagli artt. 7 e 8 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 8l.

 

2. - La questione non è fondata.

 

della sua originaria formulazione l'art. 544, secondo comma, del codice di procedura penale stabiliva che - in caso di impossibilità di provvedere alla redazione immediata in camera di consiglio dei motivi della sentenza - il giudice dovesse provvedervi "non oltre il trentesimo giorno da quello della pronuncia".

 

In coerenza con tale statuizione, l'art. 548, secondo comma, dello stesso codice prevedeva poi la comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza al pubblico ministero e la notificazione dell'avviso stesso alle parti private nell'ipotesi di mancato deposito della sentenza "entro il trentesimo giorno" dalla data della pronuncia.

 

Infine, l'art. 585, secondo comma, lett. c), del codice di procedura fa decorrere il termine per proporre impugnazione "dalla scadenza del termine stabilito dalla legge .... per il deposito della sentenza ovvero, nel caso previsto dall'art. 548, secondo comma, dal giorno in cui è stata eseguita la notificazione o la comunicazione dell'avviso di deposito".

 

In questa ordinata sequenza di norme (dirette a disciplinare i tempi di redazione e di deposito della sentenza non contestualmente motivata, le modalità di informazione alle parti del deposito avvenuto oltre il termine di legge e la decorrenza dei termini per l'impugnazione) si è inserita la norma denunciata che ha ridotto da trenta a quindici giorni il termine per la redazione della sentenza, senza darsi carico del coordinamento formale di tale innovazione con la disciplina dettata dall'art. 548, secondo comma, del codice in ordine alla comunicazione e notificazione dell'avviso di deposito delle decisioni depositate oltre il termine ordinario.

 

La conseguenza del mancato coordinamento è stata che, mentre il nuovo testo dell'art. 544 del codice di rito prescrive al giudice di redigere i motivi della sentenza non contestualmente motivata entro il quindicesimo giorno dalla data della pronuncia, nell'art. 548, secondo comma, è sopravvissuta l'originaria dizione secondo cui l'avviso di deposito è comunicato e notificato alle parti "quando la sentenza non è depositata entro il trentesimo giorno".

 

Nel diritto vivente, peraltro, questa incongruenza formale e le incertezze che potevano derivarne (soprattutto in ordine alla necessità dell'avviso di deposito alle parti per le sentenze depositate oltre il quindicesimo, ma non oltre il trentesimo giorno dalla pronuncia) sono state superate dall'univoco indirizzo interpretativo adottato in merito dalla Corte di cassazione.

 

Analizzando la vicenda legislativa da cui sono derivati la nuova formulazione dell'art. 544, secondo comma, del codice di procedura ed il mancato coordinamento di tale disposizione con l'art. 548, ed operando una ricostruzione sistematica della normativa in questione, la Corte di Cassazione è giunta, infatti, alla conclusione che < < per effetto dell'art.6 del decreto- legge 1° marzo 1991, n. 60, convertito, con modificazioni, nella legge 22 marzo 1991, n.133, anche l'art. 548, secondo comma, deve ritenersi modificato in conformità, nel senso che l'avviso di deposito deve essere effettuato quando la sentenza non è depositata entro il "quindicesimo giorno", invece dell'originario "trentesimo giorno">>. (Cass., Sez. V, 8 febbraio 1993; nello stesso senso, Cass., Sez. I, 4 dicembre 1992, nella quale si afferma che l'obbligo posto dall'art. 548, secondo comma, del codice di procedura penale di provvedere alla comunicazione ed alla notificazione dell'avviso di deposito della sentenza non depositata nel termine previsto dalla legge non è escluso se la sentenza sia stata depositata prima della scadenza del termine del trentesimo giorno ma dopo i quindici giorni fissati per il deposito dall'art. 6 del decreto-legge 1° marzo 1991, n. 60).

 

3. - Sulla base di questa interpretazione la normativa denunciata non ha l'effetto di ridurre il termine di trenta giorni per impugnare assegnato alle parti dall'art. 585, primo comma, lett. b), del codice di procedura poichè - nel caso di sentenza non contestualmente motivata e depositata oltre il quindicesimo giorno dalla pronuncia - va comunque notificato alle parti stesse (e comunicato al pubblico ministero) l'avviso di deposito, mentre il termine per l'impugnazione decorre dal giorno in cui è stata eseguita la notificazione (o la comunicazione) dell'avviso stesso.

 

Non si verifica, pertanto, la contrazione del termine per impugnare ipotizzata dal giudice a quo e, conseguentemente, non risulta leso il diritto di difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione.

 

Non vi è poi arbitraria disparità di trattamento, sotto il profilo dei termini per impugnare, tra il contumace e l'imputato presente, ma solo una disciplina differenziata di situazioni obiettivamente diverse. Infatti, mentre per il contumace - che di regola non è informato dello svolgimento del processo - è prevista "in ogni caso" la notificazione dell'avviso di deposito della sentenza (art. 548, terzo comma, del codice di procedura penale), per l'imputato presente la notificazione dell'avviso di deposito della sentenza è prevista limitatamente alle ipotesi di redazione della motivazione oltre la scadenza del termine di legge di quindici giorni e cioè solo quando egli non è più concretamente in condizione di conoscere e di prevedere i tempi del deposito. Ma, tanto per il contumace quanto per l'imputato ignaro della data del deposito il termine per impugnare comincia a decorrere dallo stesso momento ossia dal giorno in cui è stata eseguita la notificazione dell'avviso di deposito.

 

Infondata si presenta, infine, anche l'ultima censura prospettata dal giudice a quo con riferimento agli artt.72 e 77 della Costituzione.

 

Questa Corte ha già affermato che "la legge delega per l'emanazione del codice di procedura penale non occupa, nella gerarchia delle fonti, una posizione diversa da quella di ogni altra legge" con la conseguenza che essa, ricorrendo i presupposti di cui all'art. 77 della Costituzione, "può essere modificata anche con decreto- legge, salva, ovviamente, la successiva conversione" (ord. n. 225 del 1992). La speciale procedura prevista dagli artt. 7 e 8 della legge delega n. 81 del 1987 per l'emanazione di disposizioni integrative e correttive del codice di procedura penale nel primo triennio di vigenza dello stesso codice non esclude, pertanto, la possibilità che innovazioni o modificazioni alla disciplina espressa in detto codice possano essere introdotte anche attraverso i diversi canali di produzione normativa primaria previsti in Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.544, secondo comma, del codice di procedura penale (come modificato dall'art. 6 del decreto-legge 1° marzo 1991, n. 60, convertito nella legge 22 aprile 1991, n. 133), in riferimento agli artt.3, 24, 72 e 77 della Costituzione, sollevata dalla Corte d'appello di Firenze con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/07/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Enzo CHELI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 30/07/93.