Sentenza n. 259 del 1993

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SENTENZA N. 259

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del- l'art. 467 del codice civile, nel testo anteriore alla innovazione introdotta con l'art. 171 dalla legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), promosso con ordinanza emessa il 3 marzo 1992 dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Re Elena ed altre e Re Roberto, iscritta al n. 391 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 1992 il Giudice relatore Luigi Mengoni.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un procedimento civile promosso da Elena Re, Piera Re e Josè Molinari vedova Re, rispettivamente figlie legittime e moglie di Pietro Re deceduto nel 1973, contro Roberto Re, dichiarato figlio naturale di Pietro Re con sentenza in data 21 febbraio 1978, al fine di ottenere la declaratoria di nullità dell'atto di divisione - stipulato dai medesimi nel 1986 - dell'eredità di Mario Re, deceduto nel 1974 (successivamente alla morte del figlio Pietro), il Tribunale di Genova, con ordinanza del 3 marzo 1992, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 30, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 467 cod. civ., nel testo anteriore alla legge n. 151 del 1975 di riforma del diritto di famiglia modificato dalla sentenza costituzionale n. 79 del 1969, nella parte in cui esclude dal diritto di rappresentazione il figlio naturale di chi, discendente o fratello del de cuius, non potendo o non volendo accettare l'eredità, lasci o abbia discendenti legittimi.

Secondo la norma impugnata, vigente all'epoca dell'apertura della successione di Mario Re (1974), il figlio naturale di un figlio premorto del de cuius non ha diritto di venire alla successione dell'avo in rappresentanza del genitore quando quest'ultimo lasci figli legittimi. Di qui la domanda di nullità della divisione intervenuta tra le figlie legittime e il loro fratello naturale, in quanto stipulata con un soggetto estraneo alla comunione ereditaria.

Ad avviso del giudice remittente, sia in linea di interpretazione storica, sia in linea di interpretazione logica, il dispositivo della sentenza n. 79 del 1969, pronunziata in relazione a un caso in cui il figlio premorto del de cuius non aveva lasciato discendenti legittimi, ma solo un figlio naturale, non consente di argomentare a contrario il diniego ai figli naturali del diritto di rappresentazione in presenza di figli legittimi, ma lascia impregiudicata la questione, che ora viene sollevata, relativamente a quest'altro caso.

Ciò premesso, il Tribunale ritiene che la norma impugnata, in quanto esclude i figli naturali dalla chiamata per rappresentazione quando il loro genitore (figlio o fratello premorto o rinunziante del de cuius) abbia lasciato discendenti legittimi, non possa sottrarsi al confronto con gli artt. 541 e 574 (abrogati), che nell'ordinamento previgente attribuivano ai figli naturali il diritto di concorrere nella successione legittima con i figli legittimi in ragione di metà della quota conseguita dai legittimi.

Dal confronto emergerebbe una ingiustificata disparità di trattamento e un eccesso irrazionale di tutela dei membri della famiglia legittima nell'ipotesi di successione per rappresentazione. Pertanto si chiede una sentenza che parifichi la disciplina di questa ipotesi a quella prevista dalle norme da cui è stato tratto il tertium comparationis.

Considerato in diritto

l. Il Tribunale di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 30, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 467 cod. civ., nel testo anteriore alla riforma del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), nella parte in cui esclude dal diritto di rappresentazione i figli naturali di chi, discendente o fratello o sorella del de cuius, non potendo o non volendo accettare l'eredità, lasci o abbia discendenti legittimi.

Nella parte motiva l'ordinanza precisa che la questione non mira ad ammettere, anche nell'ordinamento anteriore alla riforma, il diritto di rappresentazione a pari titolo dei figli naturali insieme con i figli legittimi, ma ad ammetterlo nella misura ridotta del diritto di concorso con i figli legittimi previsto dagli artt. 541 e 574 (abrogati) nella successione (legittima) diretta.

2. La questione è inammissibile.

La limitazione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 467 cod. civ., testo del 1942, dichiarata dalla sentenza n. 79 del 1969, al caso di sopravvivenza al figlio premorto del de cuius di soli figli naturali, non è legata, come pensa il Tribunale remittente, al petitum formulato in quell'occasione dal giudice a quo in riferimento al caso oggetto di quel giudizio. Indipendentemente dalla controversia concreta che ha dato luogo al- l'incidente di costituzionalità, l'esclusione dell'ipotesi di esistenza anche di figli legittimi dall'ambito normativo della sentenza riflette un limite, derivante dal sistema successorio allora vigente, al potere della Corte di incidere sulla disciplina della rappresentazione ereditaria per accordarla con la tutela costituzionale dei figli naturali.

In tale sistema i figli legittimi e i figli naturali (riconosciuti o dichiarati) appartenevano a classi, o categorie, diverse di successibili, gli uni alla classe dei parenti legittimi, gli altri alla classe dei parenti naturali (art. 565 cod. civ., testo del 1942). I figli naturali erano chiamati a concorrere nella successione legittima con i figli legittimi in base a vocazioni distinte, fondate su titoli successori diversi e in ragione di quote determinate dal concorso, ma contando ciascun legittimo per due: mancando una vocazione congiunta in parti uguali, non poteva verificarsi nei loro reciproci rapporti il fenomeno dell'accrescimento (art. 674 cod. civ.).

Ne consegue che - essendo la vocazione (indiretta) per rappresentazione, in quanto determinata per relationem a una chiamata antecedente di cui sarebbe stato destinatario il rappresentato se avesse potuto o voluto venire all'eredità, essenzialmente una chiamata unica collettiva - nell'ordinamento del codice 1942 non era configurabile una vocazione ab intestato di questa specie indirizzata congiuntamente a figli legittimi e a figli naturali, appunto perchè erano successibili di classi diverse.

Nell'ambito dell'istituto di cui agli artt. 467 sgg. cod. civ., in presenza di figli legittimi, il criterio di differenziazione del trattamento dei figli naturali - riconosciuto legittimo, di fronte all'art. 30 Cost., da una giurisprudenza costante di questa Corte fino alla recente sentenza n. 167 del 1992 - non poteva operare se non come criterio di esclusione dei figli naturali.

Sola alternativa possibile è l'attribuzione congiunta della quota del rappresentato ai figli legittimi e ai figli naturali, con conseguente divisione in parti uguali. Ma questa soluzione presuppone l'equiparazione delle due categorie di figli, e quindi la costituzione di una nuova autonoma classe di successibili formata dai discendenti del de cuius e identificata dal rapporto di filiazione indipendentemente dalla fonte della discendenza (matrimonio o procreazione fuori del matrimonio). Una tale innovazione, introdotta, senza efficacia retroattiva, dalla legge di riforma del diritto di famiglia (art. 565, nuovo testo, cod. civ.), appartiene esclusivamente al potere legislativo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.467 cod. civ., nel testo anteriore alla legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 30, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/05/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Luigi MENGONI, Redattore

Depositata in cancelleria il 01/06/93.