Ordinanza n. 200 del 1993

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ORDINANZA N. 200

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 13 del decreto-legge 5 maggio 1957, n. 271 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione delle frodi nel settore degli oli minerali), convertito dalla legge 2 luglio 1957, n. 474, e dell'art. 27 del codice penale, promossi con n. 3 ordinanze emesse il 18 giugno 1992 dal Pretore di Lucca nei procedimenti penali a carico di Barsi Carlo Antonio, Bocci Fabrizio e Giulianelli Giuliano ed altro, rispettivamente iscritte ai nn. 701, 702 e 703 del registro ordinanze 1992 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1993 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

 

Ritenuto che con le tre ordinanze di identico contenuto indicate in epigrafe il Pretore di Lucca solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 13 del decreto- legge 5 maggio 1957, n.271, convertito dalla legge 2 luglio 1957, n. 474, e dell'art. 27 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione nonchè al principio di legalità della pena "sancito dall'art. 27 (recte: 25)", secondo comma, della Costituzione;

 

che il giudice remittente osserva che la disposizione incriminatrice (applicabile nei giudizi) del denunziato art.13 del decreto-legge n. 271 del 1957, che punisce l'esercizio di un deposito di oli minerali non denunciato ai sensi dell'art. 1 del medesimo decreto-legge, prevede una sanzione proporzionale - la multa dal doppio al decuplo dell'imposta relativa ai prodotti trovati nel deposito - "la cui legittimità è sancita, sia pure in qualità di eccezione, dall'art. 27 c.p.", norma quest'ultima che a sua volta dispone che le pene pecuniarie proporzionali non hanno limite massimo;

 

che, ad avviso del giudice a quo, la mancanza di un limite superiore delle pene pecuniarie proporzionali si pone in contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto può determinare una irragionevole sproporzione tra la gravità del fatto-reato e la pena irrogata, snaturando la finalità rieducativa di questa, che viceversa deve essere - ed essere "sentita" dal reo - congrua non solo nella fase dell'esecuzione ma, ancor prima, in sede di determinazione edittale;

 

che la violazione dei parametri costituzionali invocati, secondo il giudice remittente, consegue da una "lettura coordinata" del principio di eguaglianza con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione: ne emergerebbe la "costituzionalizzazione" degli artt. 132 e 133 del codice penale, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 50 del 1980, e, quindi, la illegittimità di una pena proporzionale senza un limite massimo, in quanto riferita al solo danno - o pericolo - oggettivo e perciò tale da far escludere la considerazione giudiziale di altri criteri e indici, in particolare quelli concernenti il disvalore soggettivo e la personalità del reo;

 

che tale questione si colloca, ad avviso del remittente, in ambito diverso da quello affrontato dalla Corte costituzionale con l'ordinanza n. 285 del 1992; nè varrebbe a risolverla in modo soddisfacente la sentenza n. 167 del 1971, riferita all'art. 27 della Costituzione;

 

che, inoltre, il Pretore reputa che l'accennata mancanza di un limite superiore della pena proporzionale confligga con il principio di legalità della pena (art. 25, secondo comma, della Costituzione), in quanto la predeterminazione indiretta, perchè mediata dal meccanismo di rapporto tra sanzione ed entità del danno o pericolo - della pena viene a rapportarsi esclusivamente all'unità di misura "oggettiva" del fatto, precludendo in via astratta il giudizio sull'interezza dell'illecito;

 

così, il rispetto della legalità risulterebbe solo apparente, giacchè siffatto meccanismo consente di seguire i diversi gradi di "entità" del fatto sino all'infinito, laddove al principio di legalità sarebbe coessenziale la fissazione di "limiti che ne garantiscano la sostanziale attuazione";

 

che si è costituito in tutti e tre i giudizi il Presidente del Consiglio dei Ministri, tramite l'Avvocatura Generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione, già più volte affrontata e risolta dalla Corte costituzionale, richiamando a tal fine le decisioni correlative (ord. n. 285 del 1992; sent. n. 167 del 1971); in ogni caso - osserva l'Avvocatura - il "meccanismo" censurato non si configura nel modo sostenuto dal giudice remittente, poichè anche per i reati puniti con pena pecuniaria proporzionale sono applicabili gli aumenti o le diminuzioni di pena per il concorso di circostanze nonchè i criteri di commisurazione della pena di cui agli artt. 132 e 133 del codi ce penale.

 

Considerato che le ordinanze sollevano la medesima questione e che, quindi, i relativi giudizi vanno riuniti;

 

che questa Corte, con numerose ordinanze (nn. 497 del 1991; 285 del 1992; 327 del 1992 e, da ultimo, 67 del 1993), ha dichiarato la manifesta in fondatezza di analoghe questioni, sollevate sia sotto il profilo della sproporzione della sanzione - prevista dall'art. 13 del decreto-legge n.271 del 1957 denunciato - rispetto alla gravità del fatto, sia sotto il profilo della inadeguatezza della sanzione rispetto alla finalità rieducativa della pena;

 

che rispetto alle considerazioni svolte nelle richiamate ordinanze, idonee a contrastare i dubbi di legittimità costituzionale ora sottoposti all'esame della Corte, il giudice remittente non prospetta argomenti nuovi che possano orientare per un diverso avviso, limitandosi ad enunciare una diversità di "ambito" che viceversa, con riguardo al parametro dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, non è ravvisabile;

 

che, in particolare, il riferimento alla necessità di una "lettura coordinata" dei parametri ex artt. 3 e 27 della Costituzione non muta i termini della questione: il trattamento sanzionatorio è razionalmente commisurato alla quantità di prodotto transitata nel deposito, anche in ragione della natura permanente del reato, laddove proprio aderendo alla prospettazione del giudice a quo si verificherebbe una scissione tra il detto elemento e la sanzione, irragionevolmente determinandosi un livellamento del trattamento punitivo - rinvenibile, in ipotesi di caducazione della pena oggi in esame, nella generale previsione dell'art.24 c.p. - a fronte di situazioni marcatamente differenziate, con specifico riguardo all'interesse erariale sotteso alla disposizione e concretamente violato;

 

che quindi va ribadita in via generale la legittimità di pene pecuniarie proporzionali senza limite massimo anche in riferimento all'art. 27 del codice penale (sent. n. 167 del 1971); mentre la diversa esigenza di individualizzazione ed articolazione del trattamento punitivo, quale sottolineata dalla Corte nella sentenza n. 313 del 1990 (richiamata dal remittente), trova adeguato soddisfa cimento attraverso l'incidenza, sulla pena proporzionale, degli istituti che in vario modo concorrono alla determinazione concreta della sanzione: valutazione giudiziale dei criteri di commisurazione della pena ex artt. 132 e 133 c.p. all'interno dell'escursione consentita dalla legge;

 

applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena per le ipotesi circostanziali (in specie, di carattere "soggettivo");

 

facoltà di ulteriore aumento o riduzione della pena pecuniaria in ragione delle condizioni economiche del reo (art. 133 - bis c.p.);rateizzazione della pena pecuniaria, per le medesime condizioni (art.133 - ter c.p.);

 

che per quanto concerne il parametro di legalità della pena (invocato nella parte motiva dell'ordinanza di rimessione, sia pure con richiamo dell'art. 27 anzichè 25 della Costituzione), detto principio risulta rispettato attraverso la predeterminazione normativa del rapporto tra entità della violazione (e quindi del danno arrecato) e pena pecuniaria;

 

siffatto rapporto è pienamente compatibile con il principio invocato (sentt. nn. 15 del 1962, 167 del 1971), cui non è connaturale una determinazione rigida di quale sia la pena massima applicabile in concreto, così per le pene proporzionali propriamente dette (quale quella prevista dalle norme denunciate: fattispecie a struttura unitaria con sanzione commisurata al danno prodotto o al valore dell'oggetto materiale del reato) come per le pene impropriamente proporzionali o progressive (fattispecie a struttura pluralistica, in cui il precetto riguarda più violazioni della medesima norma: tante sanzioni quante sono le violazioni);

 

che, pertanto, in ordine a tutti i profili dedotti le questioni sono manifestamente infondate.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 13 del decreto- legge 5 maggio 1957, n. 271 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione delle frodi nel settore degli oli minerali), convertito dalla legge 2 luglio 1957, n. 474, e dell'art. 27 del codice penale, sollevate in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma e 27, terzo comma, della Costituzione dal Pretore di Lucca con le ordinanze indicate in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19/04/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 27/04/93.