ORDINANZA N. 48
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 407 del codice di procedura penale, come richiamato dall'art. 553 dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 4 febbraio 1992 dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Genova, nel procedimento penale a carico del legale rappresentante della Fincantieri S.p.A., iscritta al n. 170 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 novembre 1992 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Genova, chiamato a delibare una richiesta di proroga delle indagini preliminari, dopo aver premesso che il termine massimo per l'espletamento di esse era "scaduto improrogabilmente" il 5 novembre 1991, nonostante la tempestività degli interventi del pubblico ministero, e che gli ulteriori accertamenti per il cui compimento era stata richiesta la proroga apparivano indispensabili ai fini della verifica delle responsabilità dell'indagato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 407 del codice di procedura penale, "come richiamato" dall'art. 553 dello stesso codice, nella parte in cui "sancisce la radicale inutilizzabilità di tutti gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine" massimo per lo svolgimento delle indagini preliminari, deducendo la violazione:
a) dell'art. 112 della Costituzione, per l'effetto paralizzante dell'esercizio dell'azione penale che consegue all'interruzione della attività di indagine, effetto, questo, non superabile con il ricorso agli istituti dell'avocazione (per la brevità dei termini a disposizione del procuratore generale) o della riapertura delle indagini (avente una finalità incompatibile con il divieto di prosecuzione delle indagini oltre il tetto massimo, che verrebbe, in tal modo, eluso);
b) dell'art. 24 della Costituzione, nei confronti sia della persona offesa dal reato sia dell'imputato: della prima, perchè interessata all'esercizio dell'azione penale; del secondo, perchè irrimediabilmente sottratto alla possibilità di espletamento di indagini anche a suo favore;
c) dell'art. 3 della Costituzione, sotto un duplice profilo: per la disparità di trattamento fra indagati, la cui sorte resta condizionata alla complessità delle indagini da compiere; per l'irragionevolezza derivante dal pari trattamento riservato ai procedimenti, a prescindere dal tipo di reato contestato e dai concreti accertamenti necessari per l'esercizio dell'azione penale;
e che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;
considerato che la previsione di specifici limiti cronologici per lo svolgimento delle indagini preliminari e della correlativa sanzione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza dei termini stabiliti per quella fase costituisce il frutto di una precisa scelta operata dal legislatore delegante al fine di soddisfare, da un lato, la "necessità di imprimere tempestività alle investigazioni" e, dall'altro, "di contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di chi a tali indagini è assoggettato" (v. sentenza n. 174 del 1992 e ordinanza n. 222 del 1992);
che una siffatta opzione si raccorda intimamente alle finalità stesse della attività di indagine, la quale, lungi dal riprodurre quella funzione "preparatoria" del processo che caratterizzava la fase istruttoria nel codice di rito previgente, è destinata unicamente a consentire al pubblico ministero di assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (art. 326 c.p.p.), con l'ovvio corollario che la tendenziale completezza delle indagini (v. sentenza n.88 del 1991), evocata dall'art. 358 del codice di procedura penale, viene funzionalmente a correlarsi non al compimento di tutti gli atti "necessari per l'accertamento della verità", secondo l'ampia enunciazione che compariva nell'art.299 del codice abrogato, ma al ben più circoscritto ambito che ruota attorno alla scelta se esercitare o meno l'azione penale;
che in tale prospettiva, dunque, non v'è alcuna contraddizione logica tra la previsione di un termine entro il quale deve essere portata a compimento l'attività di indagine e il precetto sancito dall'art. 112 della Costituzione, non essendo quel termine, in sè e per sè considerato, un fattore che sempre e comunque è astrattamente idoneo a turbare le determinazioni che il pubblico ministero è chiamato ad assumere al suo spirare, cosicchè l'eventuale necessità di svolgere ulteriori atti di investigazione viene a profilarsi unicamente come ipotesi di mero fatto che, per un verso, non impedisce allo stesso pubblico ministero di stabilire, allo stato delle indagini svolte, se esercitare o meno l'azione penale, mentre, sotto altro profilo, può rinvenire adeguato soddisfacimento, a seconda delle scelte operate, o nella riapertura delle indagini prevista dall'art. 414 del codice di procedura penale o nella attività integrativa di indagine che l'art. 430 consente di compiere anche dopo l'emissione del decreto che dispone il giudizio;
che, d'altra parte, va riservata alle discrezionali scelte del legislatore l'individuazione degli opportuni strumenti processuali in base ai quali consentire la prosecuzione delle indagini, nelle eccezionali ipotesi in cui sia risultato impossibile portarle a compimento entro il termine massimo previsto dalla legge;
che la pretesa violazione dell'art. 24 della Costituzione si rivela del tutto infondata non essendo il diritto di difesa in alcun modo pregiudicato dalle norme oggetto di impugnativa che, essendo volte ad assicurare alla attività di indagine caratteri di snellezza e tempestività, non interferiscono sotto nessun profilo con la ricerca delle fonti di prova che la persona offesa e quella sottoposta alle indagini possono autonomamente svolgere e indurre nel procedimento;
che ugualmente infondata è la dedotta disparità di trattamento fra indagati che verrebbe a scaturire dalla maggiore o minore complessità delle indagini, così come la censura di irragionevolezza che deriverebbe dalla identità del regime a prescindere dalla diversa tipologia dei reati e degli accertamenti che si rendono necessari, giacchè anche a questo proposito il giudice a quo mostra di fare appello a evenienze di mero fatto prospettate in termini ipotetici che, in sè considerate, non presentano riflessi tali da incidere sull'invocato parametro di costituzionalità;
e che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 407 del codice di procedura penale, richiamato dall'art. 553 dello stesso codice, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Genova con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28/01/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 10/02/93.