SENTENZA N. 476
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
- Dott. Francesco GRECO
- Prof. Gabriele PESCATORE
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 513, primo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 20 novembre 1991 dal Tribunale di Vicenza nel procedimento penale a carico di Bernasconi Mario ed altro, iscritta al n. 128 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 19 novembre 1992 il Giudice relatore Mauro Ferri.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 20 novembre 1991, il Tribunale di Vicenza ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 513 del codice di procedura penale "nella parte in cui non prevede la lettura anche delle dichiarazioni rese dall'imputato alla polizia giudiziaria con l'assistenza del difensore ai sensi dell'art. 350 c.p.p.".
Premesso che l'imputato, contumace, aveva reso alla Guardia di finanza di Vicenza, con l'assistenza del difensore e nell'immediatezza del fatto, dichiarazioni confessorie, non più reiterate nè avanti al pubblico ministero nè avanti al giudice per le indagini preliminari (essendosi avvalso in quelle sedi della facoltà di non rispondere), il giudice remittente osserva che la mancata previsione, nell'art. 513 del codice di procedura penale, della possibilità di acquisizione - in caso di imputato contumace, assente, o che si rifiuta di sottoporsi all'esame - dell'interrogatorio dal medesimo reso alla polizia giudiziaria in presenza del difensore non trova giustificazione razionale e pone il pubblico ministero nell'impossibilità di far valere prove talvolta decisive.
Ciò determina, a suo avviso, una disparità di trattamento (art. 3 Cost.) tra accusa e difesa in ordine all'acquisizione e utilizzazione delle prove, in quanto, mentre l'imputato dopo aver reso dichiarazioni confessorie può evitare l'utilizzazione di esse rifiutando i successivi interrogatori e quindi rendendosi contumace, il pubblico ministero non ha alcun mezzo per recuperare la prova legittimamente acquisita.
2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
Osserva l'Avvocatura dello Stato che la natura e le modalità di assunzione delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria non consentono di assimilare le stesse, sul piano dell'utilizzabilità probatoria, alle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio condotto dall'autorità giudiziaria o all'udienza preliminare. Infatti, mentre ai sensi dell'art.350 la polizia giudiziaria procede all'assunzione di "sommarie informazioni utili per le investigazioni" dalla persona sottoposta alle indagini con le modalità previste dall'art. 64, l'autorità giudiziaria ha l'obbligo, a norma dell'art. 65, di contestare alla persona stessa il fatto che le è attribuito, di renderle noti gli elementi di prova esistenti a suo carico, di indicare le fonti di prova esistenti e di invitarla ad esporre quanto ritiene utile a sua difesa.
Considerato in diritto
1. La questione sollevata dal Tribunale di Vicenza investe l'art.513, primo comma, del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la possibilità di dar lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato alla polizia giudiziaria con l'assistenza del difensore, ai sensi dell'art. 350 del codice di procedura penale.
Ritiene il giudice remittente che la mancata previsione di tale possibilità "non trovi giustificazione razionale" e ponga il pubblico ministero nell'impossibilità di far valere prove talvolta decisive, prospettandosi in tal modo "una disparità di trattamento (art. 3 della Costituzione) tra accusa e difesa in ordine all'acquisizione e utilizzazione di prove".
2. La questione non è fondata.
L'art. 513 del codice di procedura penale disciplina la possibilità di dare lettura nel dibattimento dei verbali delle dichiarazioni precedentemente rese dall'imputato, nel caso in cui questi sia contumace, assente, o rifiuti di sottoporsi all'esame.
Il legislatore, in questa come in altre disposizioni, si è ispirato al criterio diretto a contemperare il principio-guida dell'oralità con l'esigenza di evitare la "perdita", ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede (cfr. sentt. nn. 254 e 255 del 1992). Ha perciò previsto che nelle ipotesi sopra elencate il giudice disponga, a richiesta di parte, la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare.
Il legislatore delegato, nell'operare tale scelta, si è mosso sulla linea della direttiva n. 76 della legge-delega ("previsione di una specifica diversa disciplina per gli atti assunti dal pubblico ministero di cui è sopravvenuta una assoluta impossibilità di ripetizione"), fino a comprendere anche il rifiuto dell'imputato di sottoporsi all'esame nell'ambito dei casi di sopravvenuta assoluta impossibilità di ripetizione dell'atto. Ma, oltre ai vincoli imposti dalla norma delegante, il legislatore doveva anche darsi carico di rispettare comunque i diritti garantiti all'imputato, fra i quali è fondamentale la facoltà di non rispondere.
Pertanto - a prescindere, come si è detto, dai vincoli derivanti dalla citata ultima parte della direttiva n. 76 della legge di delega, che non menziona gli atti assunti dalla polizia giudiziaria - certamente non appare irragionevole la scelta di limitare la possibilità di lettura (e quindi di utilizzazione ai fini della decisione) alle sole dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o al giudice, escludendo le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria ai sensi dell'art.350 del codice di procedura penale. Vi è invero, una sostanziale differenza (sempre sotto l'angolo visuale delle garanzie dell'imputato) fra queste ultime e l'interrogatorio effettuato dall'autorità giudiziaria: soltanto questo atto, infatti, (il quale costituisce essenzialmente uno strumento di difesa dell'indagato, mentre le sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria hanno finalità prettamente investigative) deve essere svolto con le modalità stabilite dall'art. 65 del codice di procedura penale, ai sensi del quale l'autorità giudiziaria ha l'obbligo di contestare alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto attribuitole, di comunicare gli elementi di prova a carico, ed anche, salvo eventuale pregiudizio per le indagini, le fonti dei medesimi, nonchè quello di invitare la persona stessa ad esporre gli elementi ritenuti utili per la sua difesa.
Ma neppure sotto il profilo della disparità di trattamento fra accusa e difesa si rinviene nella norma impugnata alcuna violazione dell'art. 3 della Costituzione. Innanzitutto può rilevarsi che il principio di parità tra accusa e difesa costituisce uno dei criteri ispiratori della legge delega (direttiva n. 3) ed opera quindi nei termini e nei limiti delle direttive in essa contenute. Va, poi, in ogni caso osservato che nella fattispecie il suddetto principio non appare invocato a proposito, in quanto la disciplina dettata dall'art. 513 del codice di procedura penale concerne il regime di utilizzabilità ai fini della decisione di precedenti dichiarazioni provenienti dallo stesso imputato ed attiene, quindi, essenzialmente, come si è detto sopra, al tema delle garanzie difensive di quest'ultimo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.513, primo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Vicenza con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/12/92.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Mauro FERRI, Redattore
Depositata in cancelleria il 22/12/92.