Sentenza n. 254 del 1992

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SENTENZA N. 254

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-        Prof. Giuseppe BORZELLINO

-        Dott. Francesco GRECO

-        Prof. Gabriele PESCATORE

-        Avv. Ugo SPAGNOLI

-        Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 513, secondo comma, del codice di procedura penale, e 2, n. 76, della legge 16 febbraio 1987, n.81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 22 giugno 1991 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Mazza Franco, iscritta al n. 532 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 1991;

2) ordinanza emessa il 28 giugno 1991 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di R.P. ed altri, iscritta al n.618 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 aprile 1992 il Giudice relatore Mauro Ferri.

Ritenuto in fatto

1.1. Nel corso del procedimento penale a carico di Mazza Franco, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 22 giugno 1991 (r.o. n. 532 del 1991), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 513, secondo comma, del codice di procedura penale "nella parte in cui non consente la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone indicate dall'art. 210 del codice di procedura penale, che siano comparse ed abbiano rifiutato di sottoporsi all'esame".

Premette il remittente che, a seguito del rifiuto di sottoporsi all'esame (ai sensi dell'art. 210, quarto comma, c.p.p.) espresso da persona imputata di concorso nello stesso reato ascritto a Mazza Franco, nei confronti della quale si procede separatamente essendo minore di età, il pubblico ministero ha chiesto la lettura delle dichiarazioni dalla medesima precedentemente rese al pubblico ministero presso il Tribunale per i minorenni. A tale richiesta osta, ad avviso del giudice a quo, il disposto della norma impugnata, la quale, però, si porrebbe in contrasto innanzitutto con l'art. 3 della Costituzione, a causa della irragionevole disparità di trattamento tra la situazione in esame e quella del coimputato di procedimento non separato, nel qual caso, ai sensi dell'art.513, primo comma, è possibile dare lettura delle precedenti dichiarazioni nell'ipotesi in cui egli rifiuti di sottoporsi all'esame. Pertanto, situazioni analoghe ricevono trattamenti irrazionalmente diversi (con pregiudizio della posizione delle parti per quel che concerne l'acquisizione delle prove) a causa della separazione, del tutto accidentale (nella fattispecie dovuta alla minore età del coimputato), dei procedimenti.

La norma impugnata, prosegue il remittente, viola anche l'art.76 della Costituzione, per contrasto con la direttiva n. 76, ultima parte, della legge-delega n. 81 del 1987 ("previsione di una specifica, diversa disciplina per gli atti assunti dal pubblico ministero di cui è sopravvenuta una assoluta impossibilità di ripetizione"). Mentre, infatti, l'art. 513, primo comma, consente la lettura delle dichiarazioni dell'imputato che abbia rifiutato di sottoporsi all'esame, avendo il legislatore delegato ritenuto che tale rifiuto equivalesse ad una assoluta impossibilità di ripetizione della prova, non si giustifica, in assenza di una specifica distinzione nel citato criterio direttivo, la diversa disciplina di cui al secondo comma del medesimo articolo, considerato anche che l'art. 192, terzo comma, del codice di procedura penale equipara, ai fini della valutazione della prova, le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato e quelle rese dall'imputato in procedimento connesso.

1.2. Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, chiede che la questione sia dichiarata infondata, in quanto basata su una erronea interpretazione del dettato normativo.

Premesso che, ove si accogliesse la tesi del giudice remittente, dovrebbe necessariamente concludersi per l'incostituzionalità della norma in esame per evidente irragionevolezza, l'Avvocatura dello Stato osserva che il secondo comma dell'art. 513 non rappresenta altro che una norma "satellite" rispetto alla disciplina di cui al primo comma, che attiene alla posizione di qualsiasi imputato "connesso", indipendentemente dal luogo processuale in cui rende le sue dichiarazioni; il secondo comma ha carattere accessorio, limitandosi soltanto ad indicare quali adempimenti il giudice deve espletare prima di dare lettura delle dichiarazioni di un imputato "connesso" che non è comparso, al fine di evitare che tale imputato possa sottrarsi a suo piacimento al contraddittorio e possa egualmente determinare, a seguito della lettura delle sue dichiarazioni, effetti favorevoli o sfavorevoli sulla altrui posizione.

La correttezza di tale interpretazione, conclude l'Avvocatura, è evidenziata dal fatto che la norma impugnata non esamina la situazione fisiologica della citazione dell'imputato connesso, ma affronta quelle "patologiche" di un imputato di difficile rintracciabilità o restio a presentarsi.

2.1. Con altra ordinanza emessa il 28 giugno 1991 (r.o. n. 618 del 1991), il Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111 e 112 della Costituzione, degli artt. 2, n. 76, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 e 513, secondo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui vietano che possa darsi lettura delle dichiarazioni rese al pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o all'udienza preliminare da coimputato dello stesso reato o di reato connesso, giudicato separatamente e citato ai sensi dell'art. 210 del codice di procedura penale, qualora lo stesso, comparso, dichiari di volersi avvalere della facoltà di non rispondere".

Il Collegio remittente premette che, su richiesta del pubblico ministero, era stata citata - ai sensi dell'art. 210 del codice di procedura penale - una persona imputata degli stessi reati oggetto del giudizio a quo, nei confronti della quale si era proceduto separatamente, in quanto all'udienza preliminare aveva chiesto ed ottenuto la definizione del processo col rito abbreviato. Poichè, tuttavia, detta persona, comparsa all'udienza, si era avvalsa della facoltà di non rispondere, il pubblico ministero aveva chiesto la lettura dei verbali di interrogatorio resi dalla stessa al pubblico ministero e al giudice per le indagini preliminari nel corso dell'udienza di convalida del fermo; ma a tale richiesta si erano opposti i difensori degli imputati.

Ciò premesso, il giudice a quo rileva che la possibilità di acquisire e valutare tali interrogatori e dichiarazioni (che sarebbe di primaria importanza ai fini della emissione di una sentenza adeguatamente motivata sul fondamento delle imputazioni contestate) sembra preclusa dall'inequivoco significato letterale della formulazione adottata dal legislatore delegato nell'art. 513, secondo comma, del codice di procedura penale, significato letterale ormai fatto proprio dalla prima pronuncia della Corte di cassazione in argomento.

La lettura dell'intero art. 513 del codice di procedura penale, osserva a questo punto il remittente, alla luce della regola generale sulla valutazione delle dichiarazioni del coimputato nello stesso reato ovvero di reato connesso, dettata dall'art. 192, terzo comma, del codice di procedura penale, è sufficiente per far apprezzare con immediatezza la incongruità immotivata - e quindi la irragionevolezza e la violazione dell'art.3 della Costituzione - della mancata previsione, nell'ultimo periodo del secondo comma dell'art. 513, della possibilità di dar lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art.210, non solo nel caso - espressamente e unicamente previsto dalla norma in esame - di impossibilità di avere la presenza del "dichiarante", ma anche nel caso - come quello di specie (che è anche quello statisticamente più frequente nei processi contro la criminalità organizzata) - in cui il "dichiarante" compaia, ma dichiari di non voler rispondere alle domande.

La norma impugnata detta una disciplina del tutto diversa da quella prevista dal primo comma per le dichiarazioni rese dagli imputati nel proprio procedimento, là dove è espressamente prevista la acquisizione e la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza dal contumace o dall'imputato che rifiuta di sottoporsi all'esame; così come non può non rilevarsi la differenziazione di trattamento, prevista nello stesso secondo comma, tra gli imputati di reati connessi o separatamente giudicati la cui presenza non si possa ottenere, e quelli che invece compaiono, ma fanno scena muta: nel primo caso le dichiarazioni rese in precedenza sono acquisibili; nel secondo caso non lo sono, stante la formulazione attuale della norma che non lascia spazio all'interprete ordinario.

Orbene, prosegue il remittente, non pare che sussista una differenza sostanziale di posizione che giustifichi un trattamento processuale diverso, quanto alle letture, tra imputati (e coimputati del medesimo processo) e imputati del medesimo reato, ma separatamente processati, ovvero imputati di reati connessi: non vi è dubbio, infatti, che si tratta sempre di persone cui viene mosso un addebito di reato e che hanno, quindi, una particolare veste e interesse processuale per rendere dichiarazioni sul fatto che viene loro addebitato insieme ad altri e di soggetti, infine, che hanno reso la loro dichiarazione con tutte le particolari cautele e garanzie previste dal codice di rito. Non basta: non pare che sussista, poi, nessuna differenza sostanziale tra le ipotesi previste nel secondo comma dell'art. 513 del codice di procedura penale: infatti non è dato comprendere perchè, se il dichiarante non è più reperibile ovvero, comunque, non si riesce a portarlo davanti al giudice, le dichiarazioni rese in precedenza possono essere lette e valutate, mentre invece se compare e non vuole più parlare, tutto ciò che è stato legittimamente acquisito in precedenza non possa essere acquisito e debba essere sottratto alla valutazione del giudice.

Dunque, non solo non esistono ragioni sostanziali valide per distinguere tra le posizioni testè indicate, ma tale differenziazione appare ancora più incongrua - e fonte di ingiustificata disparità di trattamento e di irragionevolezza normativa - se si tengono presenti le norme generali dettate dal codice di rito in tema di valutazione delle prove.

Infatti, il nuovo codice mostra chiaramente di respingere il principio della inutilizzabilità ex lege delle dichiarazioni del coimputato dello stesso reato ovvero di reato connesso e giudicato separatamente: anzi, detta la regola generale che dette dichiarazioni possono essere utilizzate purchè riscontrate da elementi di prova che ne confermino l'attendibilità (art.192, terzo comma).

Con la norma impugnata da un lato viene irrazionalmente ed arbitrariamente scriminata la posizione del coimputato ex art. 210 del codice di procedura penale rispetto a quella dell'imputato nel giudizio in corso, dall'altro, con ancora più evidente arbitrarietà, viene diversamente disciplinata la acquisibilità e la lettura delle dichiarazioni rese dallo stesso soggetto, a seconda che costui sia o meno comparso in dibattimento, consentendosi la lettura solo se le ricerche e le citazioni - per qualunque ragione, anche la volontaria irreperibilità - non conseguono effetto, ma vietandosi le letture se invece il soggetto compare e dichiara di non voler più rispondere.

Tale arbitraria ed ingiustificata diversità di trattamento si risolve, inoltre, in una inammissibile compressione dei poteri di cognizione del giudice nell'esercizio della giurisdizione, sebbene questi, nel valutare le dichiarazioni rese dal coimputato dello stesso reato ovvero di reato connesso, e giudicato separatamente, debba compiere una obbligatoria attività di verifica in applicazione della regola di valutazione dettatagli dal citato art. 192, terzo comma, del codice di procedura penale, e quindi, non possa riconoscere valenza probatoria a tali dichiarazioni in sè, ma unitamente agli altri elementi di prova che ne corroborino l'attendibilità.

Pare, dunque, al Tribunale remittente che "il congengo normativo introdotto dall'art. 513, comma secondo, c.p.p. in attuazione della direttiva n. 76 dell'art. 2 della legge-delega n. 81 del 1987, sia viziato da violazione dell'art. 3 della Costituzione, nonchè da violazione del principio di costituzione materiale sotteso dagli artt. 24 e 112 della Costituzione e che può essere sinteticamente indicato come l'esigenza fondamentale dello Stato - cui corrispondono legittime aspettative dei cittadini - di assicurare l'effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale".

Infine, conclude il giudice a quo, l'applicazione della prescrizione normativa dettata dall'art. 513, comma secondo, c.p.p. realizza, in concreto, un condizionamento, razionalmente ingiustificato, dello stesso esercizio della funzione giurisdizionale anche sotto il profilo dell'art.111, comma primo, della Costituzione, poichè il divieto di acquisire le dichiarazioni del coimputato citato ai sensi dell'art. 210 c.p.p. - che, comparendo, si rifiuta di rispondere - contenenti riferimenti a fatti rilevanti ai fini della decisione, comporta l'impossibilità di una corretta ed adeguata motivazione della decisione.

2.2. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale conclude per l'infondatezza della questione, riportandosi integralmente alle argomentazioni in tal senso svolte nell'atto di intervento relativo all'ordinanza del Tribunale di Roma n. 532 del 1991.

Considerato in diritto

1. Con ordinanza del 22 giugno 1991 (r.o. n. 532/91), il Tribunale di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 513, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente di dare lettura dei verbali delle dichiarazioni rese, al pubblico ministero o al giudice, nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, dalle "persone indicate nell'art. 210" - cioè dalle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'art. 12, nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente, ovvero imputate di un reato collegato a quello per cui si procede -, qualora queste compaiano in dibattimento ma si avvalgano della facoltà di non rispondere.

Ad avviso del remittente, la norma viola, innanzitutto, l'art. 3 della Costituzione per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina di cui al primo comma dello stesso art. 513, il quale consente la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato in procedimento non separato che rifiuti di sottoporsi all'esame; in secondo luogo, l'art. 76 della Costituzione, per contrasto con la direttiva n. 76 della legge di delega n. 81 del 1987, la quale, prescrivendo genericamente (nell'ultima parte) "una specifica, diversa disciplina per gli atti assunti dal pubblico ministero di cui è sopravvenuta una assoluta impossibilità di ripetizione", non consentiva al legislatore delegato di introdurre, in ordine all'acquisizione delle dichiarazioni precedentemente rese, la diversità di disciplina sancita nel primo e nel secondo comma del richiamato art. 513 del codice.

Con altra ordinanza del 28 giugno 1991 (r.o. n. 618/91), lo stesso Tribunale di Roma ha nuovamente sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 513, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte sopra indicata: a differenza della precedente ordinanza, tuttavia, il remittente ha, da un lato, accomunato nell'impugnativa la norma delegata e quella delegante, cioè la citata direttiva n. 76 della legge di delega, e, dall'altro, ha fatto riferimento, per entrambe le norme impugnate, oltre che all'art. 3 della Costituzione per i motivi sopra esposti, allo stesso art.3, per irrazionale disparità di disciplina, all'interno del medesimo secondo comma dell'art.513, tra il caso di imputato di procedimento connesso di cui non si possa ottenere la presenza e quello di analogo imputato che compaia ma rifiuti di rispondere (essendo solo nella prima ipotesi possibile la lettura); al "principio di Costituzione materiale sotteso dagli artt. 24 e 112 della Costituzione", secondo cui costituisce esigenza fondamentale dello Stato assicurare l'effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale; nonchè, infine, all'art. 111, primo comma, della Costituzione, in quanto il divieto in esame, sottraendo alla cognizione del giudice dichiarazioni contenenti riferimenti a fatti rilevanti ai fini della decisione, comporterebbe l'impossibilità di una corretta ed adeguata motivazione della decisione medesima.

I giudizi, avendo ad oggetto una questione in larga parte coincidente, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.

2.1. Comune ad entrambe le ordinanze di rimessione è - come si è detto - la questione relativa all'art. 513, secondo comma, del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento, ritenuta priva di ragionevolezza, che la norma impugnata introduce - in ordine alla lettura di dichiarazioni rese prima del dibattimento - rispetto alla disciplina dettata dal primo comma dello stesso articolo 513. Detta questione va, pertanto, esaminata per prima.

La norma censurata concerne il potere del giudice di disporre la lettura (cui consegue l'allegazione al fascicolo del dibattimento ex art.515 del codice di procedura penale) delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento dalle persone indicate nell'art. 210, vale a dire dagli imputati in un procedimento connesso nei confronti dei quali si procede o si è proceduto separatamente (ovvero anche dagli imputati "di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'art.371, comma 2, lett. b", cioé in ipotesi di collegamento probatorio: cfr. art.210, ultimo comma). La norma prevede innanzitutto che il giudice, a richiesta di parte, "dispone, secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante ovvero l'esame a domicilio o la rogatoria internazionale", stabilendo poi - per quanto maggiormente qui interessa - che "se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante, il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali contenenti le suddettedichiarazioni".

Nulla espressamente la norma prescrive per il caso in cui, pur ottenuta la presenza del dichiarante, questi si avvalga della facoltà di non rispondere, ad esso indubbiamente riconosciuta dal menzionato art.210, quarto comma.

I giudici remittenti univocamente interpretano tale silenzio normativo nel senso che esso preclude al giudice di disporre, in detta ipotesi, la lettura delle precedenti dichiarazioni e, sulla base di tale premessa ermeneutica, rilevano la diversità di disciplina - dubitandone della ragionevolezza e, quindi, della legittimità costituzionale - tra la norma impugnata e il primo comma dello stesso art. 513, ai sensi del quale il giudice dispone, a richiesta di parte, la lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni dell'imputato non solo se questi è contumace o assente, ma anche se "si rifiuta di sottoporsi all'esame".

2.2. L'Avvocatura dello Stato, premesso che, ove si accogliesse la tesi interpretativa dei remittenti, "dovrebbe necessariamente concludersi per la incostituzionalità della disposizione", in quanto un diverso trattamento delle due situazioni di cui al primo e al secondo comma dell'art.513 "sarebbe... viziato da evidente irragionevolezza", sostiene che la norma impugnata non è altro che una norma "satellite" rispetto al primo comma, nei confronti del quale ha carattere accessorio, per cui, per tutto quanto da essa non previsto, continuerebbe ad esplicare piena efficacia la disciplina generale dettata appunto dal primo comma.

La tesi proposta dall'Avvocatura non può essere accolta, per il decisivo rilievo che l'interpretazione "restrittiva" fornita dai giudici a quibus risulta confermata non solo da vari altri giudici di merito, ma, anche, soprattutto, da recenti pronunzie della Corte di cassazione.

3.1. La questione è fondata.

Va, innanzitutto, rilevato che il legislatore delegato, nel dettare l'art.513, primo comma, del codice di procedura penale, il quale consente la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dall'imputato qualora questi è contumace, assente, ovvero "si rifiuta di sottoporsi all'esame", ha inteso comprendere nei casi di sopravvenuta impossibilità di ripetizione dell'atto (di cui alla citata direttiva n. 76 della legge- delega) anche l'"indisponibilità dello stesso imputato all'esame" (cfr. relazione al prog. prel.): e ciò in linea con il criterio, rinvenibile in varie disposizioni del codice, tendente a contemperare il rispetto del principio-guida dell'oralità con l'esigenza di evitare - nei limiti e alle condizioni di volta in volta indicate - la "perdita", ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede.

Ciò posto, la diversità di disciplina introdotta dal secondo comma dell'art. 513 rispetto a quella, ora citata, del primo comma del medesimo articolo appare del tutto sfornita di ragionevole giustificazione.

Premesso che l'esame delle persone indicate nell'art. 210 (vale a dire, ripetesi, di quelle "imputate in un procedimento connesso a norma dell'art.12, nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente", ovvero imputate di un reato probatoriamente collegato) è inserito, sotto il capo dedicato all'"esame delle parti", nel titolo relativo ai "mezzi di prova", e che quindi è fuori dubbio l'intenzione del legislatore di attribuire alle dichiarazioni di dette persone il rango di "prove", sia pure soggette a particolari criteri di valutazione (art. 192, terzo e quarto comma, del codice di procedura penale), va, in primo luogo, osservato che i menzionati soggetti, in relazione alla loro particolare, e, per così dire, ibrida posizione, hanno sì l'obbligo - a differenza dell'imputato - di presentarsi al giudice (il quale provvede alla loro citazione osservando le norme sulla citazione dei testimoni), ma sono assistiti da un difensore e, soprattutto, conservano la facoltà di non rispondere tipica dell'imputato (e di ciò debbono essere avvertiti). In definitiva, anch'essi, come l'imputato, hanno la possibilità di sottrarsi, in tutto, o in parte, all'esame, così determinando, nel caso in cui avessero reso precedenti dichiarazioni, quel tipo di situazione che lo stesso legislatore delegato ha inteso qualificare come un'ipotesi di impossibilità sopravvenuta di ripetizione dell'atto.

3.2. Ma la palese irragionevolezza della norma impugnata si manifesta con particolare evidenza ove si consideri la diversità di disciplina cui sono assoggettate - in ordine alla possibilità di lettura in dibattimento - le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dalle persone imputate in un procedimento connesso o collegato, a seconda che nei loro confronti si proceda in un unico processo cumulativo ovvero separatamente.

Va premesso che il nuovo codice contiene una disciplina, sia in tema di connessione di procedimenti (art. 12) - più rigorosa e restrittiva rispetto a quella prevista nel codice abrogato -, sia in materia di riunione e separazione dei processi (artt. 17 e 18), dalla quale emerge nel complesso un evidente favor per la separatezza dei processi, ritenuta utile soprattutto al fine di una maggior speditezza degli stessi. Ma tale scelta del legislatore, la quale può o deve, in varie ipotesi, comportare la celebrazione separata di procedimenti pur tra loro connessi o collegati - scelta, come detto, ispirata essenzialmente da esigenze estrinseche di celerità ed economia processuale -, non può, senza violare il principio di ragionevolezza, avere influenza alcuna sul regime probatorio degli atti processuali, con conseguenze a volte determinanti ai fini della decisione.

Ciò tanto più ove si consideri che la separazione dei procedimenti discende, nella gran parte dei casi, da scelte o valutazioni contingenti di natura strettamente processuale (ad es., adozione di un procedimento speciale nei confronti di un coimputato; separazione disposta dal giudice in quanto ritenuta "utile ai fini della speditezza del processo": art. 18, secondo comma, del codice di procedura penale), se non da eventi del tutto casuali (ad es., legittimo impedimento di un coimputato o di un suo difensore, "maturità" delle indagini nei confronti soltanto di alcuni coimputati e non di altri, ecc.: cfr. art. 18, primo comma, del codice di procedura penale).

In conclusione, in tutti i casi in cui si è in presenza di procedimenti che - per le relazioni esistenti tra i reati contestati - la legge qualifica connessi o collegati, e quindi potenzialmente soggetti a trattazione cumulativa, la circostanza che al simultaneus processus non si addivenga per qualsiasi causa non può ragionevolmente mutare il regime di leggibilità in dibattimento (e quindi di utilizzabilità ai fini della decisione) delle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dagli imputati di detti procedimenti. E ciò vale anche nelle ipotesi in cui (come nel caso del coimputato minorenne, di cui all'ordinanza n.532/91 del Tribunale di Roma) la trattazione separata dei processi è imposta dalla legge, ma per finalità che nulla hanno a che vedere col regime delle prove.

Vale la pena di sottolineare, infine, come già accennato in precedenza, che le dichiarazioni in esame sono soggette ad un canone valutativo particolare (debbono essere infatti "valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità": art.192, terzo e quarto comma, del codice di procedura penale), il quale, nel momento in cui circonda di cautele tali mezzi di prova, evidenzia allo stesso tempo ancor più l'irragionevolezza di ipotesi, quale quella in esame, di assoluta inacquisibilità dei medesimi ai fini della decisione.

Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art.513, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di non rispondere.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità prospettati dai remittenti in riferimento agli artt. 3, 76, 24, 111, primo comma, e 112 della Costituzione.

4. Come detto al punto 1, il Tribunale di Roma, con l'ordinanza del 28 giugno 1991 (r.o. n. 618/91), ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli stessi parametri costituzionali e per i medesimi motivi indicati relativamente all'art. 513, secondo comma, del codice di procedura penale - anche dell'art. 2, n. 76, della legge di delega n. 81 del 1987.

La questione non è fondata.

La menzionata direttiva prescrive, nella parte che qui interessa, come già detto, "una specifica, diversa disciplina per gli atti assunti dal pubblico ministero di cui è sopravvenuta una assoluta impossibilità di ripetizione". Appare evidente come detta prescrizione lasci un'ampia sfera di discrezionalità al legislatore delegato nel dettare tale particolare disciplina e come, d'altra parte, la disparità di trattamento - riconosciuta irragionevole - introdotta nel secondo comma dell'art.513 non possa in alcun modo essere ricondotta alla norma delegante.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.513, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di non rispondere;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, n. 76, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza del 28 giugno 1991 di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18/05/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Mauro FERRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 03/06/92.