SENTENZA N. 292
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Gabriele PESCATORE, Presidente
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, terzo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 22 novembre 1991 dal Pretore di Bergamo - sezione distaccata di Clusone - nel procedimento penale a carico di Bonicelli Pietro, iscritta al n. 45 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 maggio 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.
Ritenuto in fatto
1.- Dovendo celebrare il dibattimento a carico di un imputato nei cui confronti, in occasione della condanna di altro soggetto, aveva ritenuto configurabili dei reati e perciò trasmesso i relativi atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen., il Pretore di Bergamo - sezione distaccata di Clusone - nel presupposto della sussistenza dell'ipotesi di incompatibilità prevista dall'art.34, terzo comma, cod. proc. pen., ha sollevato una questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, assumendone il contrasto con gli artt. 76, 25 e 101 Cost..
Vi sarebbe, innanzitutto, violazione della legge delega n. 81 del 1987 - e, quindi, dell'art. 76 Cost. - in quanto la denuncia da parte del giudice di un'ipotesi di reato ravvisata nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali non solo non equivale, ma "neppure assomiglia vagamente" alle ipotesi di incompatibilità previste nella direttiva n.67 dell'art. 2, e contrasta con la direttiva n.1, dato che, "lungi dal semplificare, appesantisce irragionevolmente le attività processuali".
Sarebbero violati, inoltre, gli artt. 25 e 101 Cost.: il primo, perchè il fatto ricadrebbe nel potere di cognizione del giudice ove fosse emerso prima della denuncia, sicchè la prevista incompatibilità comporterebbe sottrazione del processo al suo giudice naturale; il secondo, perchè sarebbe irragionevole, da un lato assoggettare il giudice all'obbligo di denuncia dei reati (cfr. art. 361 cod. pen.) - obbligo che è autonomo e indipendente da quello del pubblico ministero di iniziare l'azione penale - e dall'altro sottrargli la naturale competenza. Ciò, anche perchè la previsione di incompatibilità eccederebbe lo scopo di assicurare la terzietà, dato che essa non rientra in alcuno dei casi in cui la manifestazione da parte del giudice del proprio parere sull'oggetto del procedimento legittima la sua ricusazione (art. 37, lettera a) - in relazione all'art. 36, lettera c) - e lettera b)).
2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Sarebbe da escludere, innanzitutto, la violazione del principio del giudice naturale, in quanto la norma in questione, in concorso con le altre norme sulla competenza, serve ad individuare, sulla base di criteri generali e predeterminati, il giudice naturale.
Nè potrebbe ravvisarsi un eccesso di delega, dato che la direttiva n.67 fissa soltanto i criteri fondamentali ed i principi ineliminabili che debbono presiedere alla disciplina della materia, ma non esclude che il legislatore delegato possa, in conformità con i principi generali, integrare la disciplina; soprattutto quando, come nel caso in esame, si tratti di riprendere ipotesi di incompatibilità ormai acquisite alla nostra tradizione processuale. Nemmeno, poi, potrebbe ritenersi violata la direttiva n. 1, dal momento che la previsione di ipotesi di incompatibilità, mirando a tutelare l'imparzialità del giudice, e quindi un interesse primario del processo, comporta attività che debbono necessariamente ritenersi essenziali.
Del pari da escludere sarebbe, infine, la violazione dell'art. 101 Cost., dato che la competenza non può dirsi sottratta perchè essa deriva da una lettura combinata delle disposizioni in materia di competenza e di incompatibilità. La devoluzione ad altro giudice, inoltre, è vicenda fisiologica del processo e non può intendersi come una sorta di sanzione nei confronti del giudice incompatibile.
Considerato in diritto
1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Pretore di Bergamo - sezione distaccata di Clusone - dubita che l'art. 34, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede l'incompatibilità al giudizio del giudice che ha proposto denuncia per un reato rilevato nell'esercizio delle proprie funzioni ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen., contrasti:
- con l'art. 76 Cost., in quanto tale ipotesi non sarebbe assimilabile a quella prevista dalla direttiva n. 67 della legge delega e, complicando anzichè semplificare l'attività processuale, contrasterebbe con la direttiva n. 1;
- con l'art. 25 Cost., dato che comporterebbe sottrazione del processo al giudice naturale;
- con l'art. 101 Cost., perchè sarebbe irragionevole sottrarre la competenza per effetto di una denuncia obbligatoria per legge.
2.- La questione non è fondata.
La denuncia dei reati perseguibili d'ufficio cui, ai sensi dell'art.331 cod. proc. pen., sono tenuti i pubblici ufficiali - e quindi anche i giudici - che li rilevino nell'esercizio delle loro funzioni, presuppone l'individuazione degli elementi essenziali di un fatto ritenuto rispondente ad una data fattispecie incriminatrice e l'acquisizione di fonti di prova sufficienti a dare obiettiva concretezza alla correlativa valutazione di sussistenza degli estremi per l'esercizio dell'azione penale (arg. ex art. 332).
L'inclusione di tale ipotesi tra le cause d'incompatibilità, benchè non espressamente prevista, non può dirsi contrastante con la direttiva n. 67 dell'art. 2 della legge delega, dato che, nel dettarla, il legislatore, non ha mostrato di volersi discostare dai criteri ispiratori della previgente disciplina, salve, ovviamente le innovazioni imposte dalla mutata struttura del procedimento: e l'intero terzo comma dell'art. 34 è una sostanziale riproduzione del terzo comma dell'art. 61 del codice del 1930.
La denuncia obbligatoria, inoltre, essendo un'attività di propulsione prodromica all'esercizio dell'azione penale, si colloca nell'orbita della funzione requirente in quanto strumentale al suo esercizio. Il considerarla come fonte di incompatibilità al giudizio è, perciò, coerente con un sistema processuale ispirato alla necessaria distinzione tra funzioni requirenti e giudicanti (cfr. la direttiva n. 67, prima e seconda parte e la sentenza n. 496 del 1990); tanto più che rilevare - come nel caso di specie - dalle risultanze di un procedimento penale in corso gli estremi di altro reato perseguibile d'ufficio è attività sostitutiva di quella rientrante nel potere-dovere d'iniziativa del pubblico ministero.
La configurazione della denuncia obbligatoria come causa d'incompatibilità non può, di conseguenza, considerarsi nè irragionevole - e perciò lesiva dell'art. 101 Cost. - nè contraddittoria con il principio di naturalità del giudice, dato che questo non è violato in caso di predeterminazione legale di spostamenti di competenza ritenuti necessari ad assicurare il rispetto di altri principi costituzionali, quali quello dell'imparzialità del giudice.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.34, terzo comma, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 76, 25 e 101 della Costituzione dal Pretore di Bergamo - sezione distaccata di Clusone - con ordinanza del 22 novembre 1991.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/06/92.
Gabriele PESCATORE, Presidente
Ugo SPAGNOLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 22/06/92.