SENTENZA N. 196
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Aldo CORASANITI, Presidente
- Prof. Giuseppe BORZELLINO
- Dott. Francesco GRECO
- Prof. Gabriele PESCATORE
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 59, comma sesto, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie), come modificato dall'art.12 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, promosso con ordinanza emessa il 12 aprile 1991 dal Consiglio superiore della magistratura - Sezione disciplinare nel procedimento disciplinare a carico di Scaduto Rosa Alba iscritta al n. 639 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1991.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 febbraio 1992 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.
Ritenuto in fatto
1. - La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza emessa il 12 aprile 1991 nel procedimento disciplinare a carico della dottoressa Rosa Alba Scaduto, ha sollevato di ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 101 e 104 della Costituzione, dell'articolo 59, comma sesto, d.P.R.16 settembre 1958, n. 916, modificato dall'art. 12 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, nella parte in cui la disposizione viene interpretata come diritto vivente nel senso che l'esercizio dell'azione disciplinare è consentito a ciascuno dei titolari dell'azione stessa (Ministro della giustizia o Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione) entro l'anno dalla conoscenza del fatto che ha dato luogo all'addebito, anche quando è già decorso un anno dalla intervenuta conoscenza del medesimo fatto da parte dell'altro titolare, così indeterminatamente dilatando nel tempo l'assoggettabilità del magistrato all'azione disciplinare.
2. - Il giudice a quo ha rilevato che nel momento in cui il Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione aveva promosso l'azione disciplinare era già trascorso oltre un anno da quando il Ministro della giustizia aveva avuto notizia dei medesimi fatti, con la conseguenza che si sarebbero verificate le condizioni che determinano l'estinzione del procedimento se fosse accolta la questione di legittimità costituzionale.
La norma sospettata di incostituzionalità stabilisce il termine di un anno per la decadenza dell'azione disciplinare senza provvedere a contrastare l'ipotesi che la notizia dei fatti di rilevanza disciplinare possa pervenire ai due titolari dell'azione stessa in tempi diversi: così consente l'eventuale esposizione del magistrato all'azione disciplinare senza limiti di tempo.
Dalla esigenza di evitare questo inconveniente e nella impossibilità di assumere la diversa interpretazione, per cui il termine di decadenza, maturato nei confronti anche del solo Ministro della giustizia o anche del solo Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione, ha valore assoluto e pertanto estingue a quel momento il potere di azione anche per l'altro titolare, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ritiene di poter individuare nell'ordinamento un interesse alla "conoscenza contestuale" delle notizie di tutti quei comportamenti che appaiono suscettibili di valutazione in sede disciplinare sia da parte del Ministro della giustizia sia da parte del Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione, interesse confermato e perseguito anche nel disegno di legge in materia sottoposto all'esame del Parlamento.
L'attuale sistema, nel quale non è prevista reciproca informazione tra i titolari dell'azione disciplinare, violerebbe - ad avviso della Sezione rimettente - il principio di indipendenza del giudice garantito dagli articoli 101, comma secondo e 104, comma primo, della Costituzione come condizione estrinseca di corretto esercizio della funzione giurisdizionale; renderebbe inoltre più difficile l'esercizio del diritto di difesa dell'incolpato, tutelato dall'art. 24 della Costituzione, a causa del prolungato decorso del tempo fra l'infrazione ed il giudizio disciplinare che ne segue; comporterebbe altresì una disparità di trattamento dei magistrati, che sarebbero più o meno garantiti a seconda che la notizia del fatto di rilievo disciplinare sia pervenuta ai titolari dell'azione contestualmente o meno.
Pertanto, secondo il giudice a quo, la disposizione in questione sarebbe incostituzionale per violazione degli artt. 3, 24, 101, comma secondo (disposizione questa ultima non enunciata nel dispositivo dell'ordinanza ma contenuta nella motivazione) e 104, comma primo, della Costituzione, "nella parte in cui non prevede a carico di ciascun titolare dell'azione disciplinare, qualora riceva notizia di infrazioni che non risultino contestualmente portate a conoscenza anche dell'altro titolare, l'obbligo di comunicarla a questo immediatamente al fine di consentire un tempestivo inizio del decorso del termine di decadenza di un anno per l'esercizio dell'azione stessa per entrambi i soggetti preposti all'esercizio dell'azione dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati".
L'ordinanza è stata ritualmente pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, del 16 ottobre 1991.
3. - L'Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Sulla base della constatazione dell'esistenza di due distinti organi titolari dell'azione disciplinare, l'Avvocatura ha osservato che l'eventuale decorrenza del termine annuale per uno di essi non potrà avere alcuna influenza sulla facoltà di promovimento dell'azione disciplinare da parte dell'altro titolare dell'azione.
Altrimenti si verrebbe a creare una indebita limitazione nell'esercizio di un potere riconosciuto dalla Costituzione, mentre è da ritenere corretta la possibilità che il termine per l'esercizio dell'azione disciplinare possa decorrere e spirare in momenti diversi per il Ministro della giustizia e per il Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione.
Per l'Avvocatura dello Stato, che richiama in proposito le sentenze della Corte costituzionale n. 145 del 1976 e n. 579 del 1990, si deve ritenere che a mettere in pericolo l'indipendenza e l'autonomia del magistrato inquisito non è il tempo di potenziale esposizione alla possibilità di azione disciplinare, ma quello della durata del procedimento una volta iniziate le indagini.
In relazione all'eventuale contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, l'Avvocatura nega che vi sia diversità di trattamento di situazioni uguali e che l'eventuale sfasatura nei tempi di indagine del Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione e del Ministro della giustizia possa ledere in alcun modo il diritto di difesa dell'interessato.
Considerato in diritto
1. - La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura dubita della legittimità costituzionale dell'articolo 59, comma sesto, d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, modificato dall'art.12, legge 3 gennaio 1981 n. 1, nella parte in cui prevede, secondo la interpretazione dominante, che l'esercizio dell'azione disciplinare è consentito a ciascuno dei titolari dell'azione stessa (Ministro della giustizia o Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione) entro l'anno dalla conoscenza del fatto che ha dato luogo all'addebito, anche se è già decorso un anno dalla intervenuta conoscenza del medesimo fatto da parte dell'altro titolare dell'azione disciplinare.
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 104 della Costituzione, menzionati nel dispositivo dell'ordinanza di remissione. La motivazione dell'ordinanza integra e precisa il riferimento alle norme costituzionali, indicando gli artt. 101, comma secondo e 104, comma primo, della Costituzione.
Segnala inoltre che la ritenuta illegittimità costituzionale potrebbe essere superata ove fosse posto l'obbligo, a carico di ciascuno dei due titolari dell'azione disciplinare che riceva notizie di infrazioni che non risultino contestualmente portate a conoscenza anche dall'altro titolare, di comunicarle immediatamente anche a questi, al fine di consentire il contemporaneo inizio del decorso del termine di decadenza.
2. - Preliminarmente è opportuno ricordare che il sistema disciplinare relativo ai magistrati non prevede termini di prescrizione. Le infrazioni sono perseguibili anche dopo un lungo periodo di tempo dalla commissione del fatto considerato disciplinarmente rilevante, secondo un principio di imprescrittibilità dell'azione che, "mentre si giustifica in base all'esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell'ordine giudiziario, che rientra senza dubbio tra i più rilevanti dei beni costituzionalmente protetti, non sacrifica oltre quanto necessario a tal fine il diritto di difesa e l'indipendenza del singolo magistrato" (sentenza n. 145 del 1976).
La imprescrittibilità dell'azione disciplinare è tuttavia bilanciata, a difesa dei diritti del singolo magistrato, da una sequenza di decadenze per l'esercizio dell'azione e per ciascuna fase del relativo procedimento, ad evitare che, avuta notizia del fatto qualificabile come disciplinarmente rilevante o iniziato il relativo procedimento, ciascuno dei soggetti investiti di un potere di azione, di istruttoria o di giudizio possa differire indefinitamente nel tempo l'esercizio del proprio potere, con il rischio di incidere sulla indipendenza del magistrato. In ragione di questa esigenza la legge 3 gennaio 1981, n. 1, ha integrato la disciplina già prevista dall'art. 59 del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, disponendo (con la norma in ordine alla quale è stato prospettato il dubbio di legittimità costituzionale) che l'azione disciplinare non può essere promossa dopo un anno dal giorno in cui il Ministro della giustizia o il Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione hanno avuto notizia del fatto che forma oggetto dell'addebito; che, successivamente, entro un anno dall'inizio del procedimento deve essere comunicato all'incolpato il decreto che fissa la discussione orale davanti alla Sezione disciplinare; che, infine, nei due anni successivi dalla predetta comunicazione deve essere pronunciata la sentenza. Questa sequenza di decadenze risulta completata dalla estensione dei termini fissati per il giudizio di prima ed unica istanza anche al giudizio di rinvio che segua l'eventuale pronuncia della Corte di cassazione (sentenza n. 579 del 1990).
Nel sistema così congegnato, in coerenza con la scelta di fondo discrezionalmente operata dal legislatore, già ritenuta non illegittima costituzionalmente, di escludere la prescrittibilità dell'azione disciplinare (ancorata per la sua decorrenza alla commissione del fatto disciplinarmente apprezzabile), la garanzia per il singolo magistrato viene assicurata in modo idoneo dalla limitazione temporale dell'esercizio del potere (di azione, di istruttoria o di giudizio) da parte di chi abbia conoscenza dei fatti (quanto al promovimento dell'azione) o sia investito di una consequenziale fase processuale (quanto alla istruttoria o al giudizio nelle sue diverse fasi).
Risulta coerente con il sistema delle successive e concatenate decadenze che il termine per il promovimento dell'azione disciplinare decorra dalla conoscenza dei fatti da parte di chi è investito del potere di promovimento dell'azione e non dalla conoscenza che altri, sia pure titolari di autonomo ed analogo potere, abbiano dei medesimi fatti.
Del resto proprio a questo ordine di considerazioni finisce per portare argomenti la stessa ordinanza di rimessione, laddove segnala che non sembra neppure possibile che il termine di decadenza maturato nei confronti di uno dei due titolari dell'azione disciplinare abbia valore assoluto e pertanto estingua a quel momento il potere di azione anche per l'altro titolare, che pur non abbia avuto conoscenza del fatto e non abbia quindi dato causa direttamente al verificarsi della decadenza.
La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura sottolinea anzi che sarebbe "assai discutibile, sul piano della stessa legittimità costituzionale, prevedere un meccanismo di estinzione per causa altrui di un potere istituzionale riconosciuto dalla legge", sì che questa ipotesi "non appare comunque ragionevolmente applicabile all'azione disciplinare di competenza del Ministro della giustizia al quale è riconosciuta addirittura dalla Costituzione ex art.107, comma secondo, messa a repentaglio - in ipotesi - nella stessa sua sperimentabilità per disposto di legge (solamente) ordinaria".
Aggiunge ancora l'ordinanza di rimessione che dalla estinzione del potere di azione anche per il titolare che non abbia conoscenza dei fatti "ne verrebbe su un piano generale una seria menomazione alla tutela del prestigio della funzione giudiziaria, tutela che trova in Costituzione un sicuro riconoscimento". Considerazioni tutte sulle quali si può convenire, ma che portano ad escludere la fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, con riferimento ai diversi profili segnalati ed attinenti alla indipendenza del giudice (art. 101, comma secondo e 104 della Costituzione). Nè si vede, quanto agli altri parametri dedotti per la valutazione della legittimità costituzionale della norma denunciata (artt. 3 e 24 della Costituzione), come il prolungato decorso del tempo fra l'infrazione e il giudizio disciplinare che ne segue possa essere riferito non già al principio di imprescrittibilità dell'azione, ma al differenziato termine di decadenza per i due titolari dell'azione stessa, egualmente e separatamente decorrente per ciascuno di essi dalla conoscenza dei fatti. Inoltre essendo identico il termine (annuale) di decadenza e, segnatamente per ciascuno dei titolari dell'azione, identica la circostanza che da luogo alla decorrenza del termine (conoscenza del fatto), non se ne può dedurre una disparità di trattamento nei confronti dei magistrati e di garanzie tra magistrati.
3. - L'ordinanza di rimessione prefigura conclusivamente la reciproca comunicazione dei fatti da parte dei titolari dell'azione disciplinare come idonea a superare i dubbi di legittimità costituzionale affacciati o comunque idonea a contemperare in modo equilibrato i diversi interessi in gioco. In effetti il legislatore già tende a limitare e prevenire le sfasature temporali che possano derivare dalla configurazione del sistema, disponendo che "i rapporti relativi a fatti suscettibili di valutazione in sede disciplinare sono trasmessi al Ministro ed al Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione" (art. 59 della legge n. 916 del 1958); questa disposizione prevede inoltre atti che rendono sempre reciprocamente noto ai titolari dell'azione disciplinare il promovimento della stessa. Tuttavia le sfasature temporali nella decorrenza del termine in questione non possono essere escluse in assoluto in un sistema nel quale il promovimento della azione è discrezionale e presuppone una preliminare valutazione della rilevanza disciplinare dei fatti.
Nell'attuale assetto l'obbligo di reciproca comunicazione dei fatti tra i due titolari dell'azione non varrebbe in realtà a prevenire ed a dissolvere definitivamente le sempre possibili sfasature temporali nella decorrenza dei termini di decadenza, giacchè la mancata specificazione delle fattispecie di illecito disciplinare consente che siano legittimamente differenti, da parte dei due diversi titolari dell'azione la valutazione della stessa apprezzabilità disciplinare e della rilevanza dei comportamenti, che possono attingere o meno alla soglia dell'illecito disciplinare e dare ingresso al conseguenziale procedimento secondo distinte e separate valutazioni del Ministro della giustizia e del Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione; valutazioni svolte senza reciproci condizionamenti o preclusioni e destinate ad attuare, con la doppia titolarità dell'azione, una duplice possibilità di accedere alla verifica della deontologia professionale dei magistrati.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 59, comma sesto, d.P.R.16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie) come modificato dall'art. 12, legge 3 gennaio 1981 n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195 e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 101, comma secondo e 104, comma primo, della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con ordinanza del 12 aprile 1991.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15/04/92.
Aldo CORASANITI, Presidente
Cesare MIRABELLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 28/04/92.