SENTENZA N.579
ANNO 1990
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Giovanni CONSO, Presidente
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12, quarto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1989 dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sui ricorsi riuniti proposti da Palermo Carlo contro il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ed altri e dal Ministero di grazia e giustizia contro Palermo Carlo ed altro, iscritta al n. 455 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1990.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 28 novembre 1990 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola.
Ritenuto in fatto
1.- La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con sentenza del 26 giugno 1985 - infliggeva alcune sanzioni al dott. Carlo Palermo, il quale proponeva ricorso per cassazione. Le Sezioni unite, con sentenza del 24 luglio 1986, n. 4754, cassavano la sentenza e rinviavano la causa alla sezione disciplinare. Quest'ultima fissata una nuova udienza con decreto notificato all'incolpato in data 27 luglio 1987 - infliggeva al magistrato, con successiva sentenza, altra sanzione disciplinare.
Le Sezioni unite, nuovamente adite dal dott. Palermo avverso tale ultima decisione, con ordinanza emessa il 22 giugno 1989, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, quarto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195 e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), - più esattamente, art. 59, nono comma, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie), nel testo sostituito dall'art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 - nella parte in cui non prevede alcun termine per. l'inizio del procedimento disciplinare in sede di rinvio dalla Corte di cassazione.
Osserva il giudice a quo che, nella specie., il decreto di fissazione dell'udienza disciplinare é stato comunicato dopo oltre un anno dal deposito della sentenza che ha attivato il giudizio di rinvio. Pertanto, anche ove nel caso in esame fossero applicabili i termini previsti dalla norma impugnata, il procedimento sarebbe estinto. Per le ipotesi "normali" di avvio della procedura, infatti, l'art. 12 impone che entro un anno dalla richiesta del Ministro al Procuratore generale, ovvero dalla richiesta o comunicazione del Procuratore generale al C.S.M., l'incolpato debba ricevere comunicazione dei decreto che fissa la discussione, altrimenti e sempre che questi vi consenta - il procedimento si estingue (ed altrettanto accade allorchè non venga pronunciata sentenza nei due anni successivi).
Esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva, in considerazione del peculiare carattere del giudizio di rinvio - volto all'applicazione dei principio di diritto - che non consente di assimilarlo al primo giudizio, la Corte di cassazione rileva che, allo stato della normativa, il procedimento disciplinare può protrarsi, in sede di rinvio, a tempo indeterminato, in aperto contrasto con la ratio della legge impugnata. L'intervento del legislatore del 1981 (di molto successivo alla sentenza n. 145 del 1976 in cui questa Corte aveva ritenuto infondata la questione concernente l'omessa fissazione di termini nella precedente normativa) aveva infatti lo scopo di realizzare una giusta tutela del magistrato nel procedimento a suo carico.
Sarebbe irrazionale, nell'ambito di un sistema che prevede tali garanzie, escludere dal meccanismo dei termini proprio il giudizio di ~o, dove la fissazione dell'udienza può certamente essere più sollecita rispetto al primo grado, reso meno spedito dalla presenza di una fase istruttoria. L'incongruenza della normativa sarebbe quindi produttiva di disparità di trattamento nei confronti dei magistrati, più o meno garantiti a seconda delle fasi del procedimento.
Tali conclusioni risulterebbero confermate dal confronto tra la normativa in esame e quella prevista per il giudizio di rinvio sia dal rito civile sia da quello penale. Nel primo caso, infatti, il giudizio in argomento trova impulso in un atto di riassunzione, là dove, in ambito disciplinare, vige il principio dell'officiosità, il quale assimila la procedura a quella penale (a sua volta caratterizzata dalla prescrizione dei reato).
Inoltre la legge impugnata rappresenta, secondo la Corte di cassazione, un riconoscimento dell'interesse del magistrato ad una rapida definizione del procedimento, sì che la mancata prefissione di termini é idonea ad incidere negativamente sul diritto di difesa dell'incolpato, sul sereno esercizio delle funzioni, sulla autonomia e sull'indipendenza.
2.- É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità - in riferimento alla discrezionalità legislativa in materia - ovvero per l'infondatezza della questione, richiamandosi anzitutto alla sentenza n. 145 dei 1976 per escludere, nella logica di quella decisione, che un'esposizione senza limiti di tempo all'azione disciplinare possa intaccare l'indipendenza del magistrato. Le motivazioni ivi addotte si attaglierebbero, mutatis mutandis, anche alla nuova disciplina introdotta dalla legge impugnata.
Per quanto riguarda l'asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione, l'Avvocatura rileva che la necessità di apporre un termine é stata utilmente avvertita soltanto nella prima fase del procedimento onde assicurare difese adeguate, accertamenti tempestivi ed indagini sollecite, esigenze queste non presenti nel giudizio di rinvio, con conseguente non omogeneità delle situazioni a confronto.
Considerato in diritto
1. -La Corte di cassazione-Sezioni unite civili-con ordinanza del 22 giugno 1989 (pervenuta alla Corte costituzionale il 5 luglio 1990; R.O. n. 455/1990), solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, quarto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) - più esattamente, art. 59, nono comma, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie), nel testo sostituito dall'art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 -nella parte in cui <pur statuendo che entro un anno dall'inizio del procedimento disciplinare nei confronti del magistrato deve essere comunicato all'incolpato, a pena di estinzione del procedimento stesso, il decreto che fissa la discussione orale davanti alla Sezione disciplinare, non prevede termine alcuno per l'inizio del procedimento in sede di rinvio dalla cassazione>.
2. - La questione è fondata.
La norma impugnata recita: <Entro un anno dall'inizio del procedi mento deve essere comunicato all'incolpato il decreto che fissa la discussione orale davanti alla sezione disciplinare. Nei due anni successivi dalla predetta comunicazione deve essere pronunciata la sentenza. Quando i termini non sono osservati, il procedimento disciplinare si estingue, sempre che l'incolpato vi consenta>.
La normativa precedente ignorava, invece, termini perentori o almeno sollecitatori per l'inizio e la definizione del procedimento disciplinare.
Peraltro questa Corte, con sentenza n. 145 del 1976, pur non rilevando allora violazione degli artt. 24 e 101, primo comma, della Costituzione, ribadiva il principio di civiltà giuridica secondo il quale l'azione disciplinare <dev'essere promossa senza ritardi ingiustificati, o peggio arbitrari, rispetto al momento della conoscenza dei fatti cui si riferisce>.
Nella proposta del Consiglio superiore della magistratura, divenuta base del progetto di legge n. 1040 della VIII Legislatura, sfociato poi nella legge 3 gennaio 1981, n. 1, si poneva <in evidenza la gravità delle conseguenze che derivano per l'indipendenza e la libertà dei singoli magistrati dal ritardo con cui vengono definiti i procedimenti disciplinari> [Atti parlamentari, Camera dei deputati, pag. 4, nonchè ibidem: IV Commissione, sedute del 10 e 31 luglio 1980].
La norma vigente fa progredire con la fissazione di termini di decadenza per l'inizio e la definizione del procedimento disciplinare la giurisdizionalizzazione dell'attività della Sezione disciplinare del C.S.M., con la evidente lacuna, tuttavia, che la Corte di cassazione ora denuncia con la sollevata questione.
Nel giudizio di rinvio infatti è senza ragionevole giustificazione l'assenza di un termine che ad esso dia inizio e di una corrispondente previsione d'estinzione, partecipando questa fase alla stessa logica finalistica del giudizio di prima e unica istanza per la realizzazione del principio di una sollecita definizione della posizione dell'incolpato.
3.-Non ha pregio l'argomento dell'Avvocatura dello Stato secondo cui la diversa disciplina delle due fasi si giustificherebbe perchè nella prima la fissazione di termini giova ad assicurare accertamenti tempestivi ed indagini sollecite nell'esigenza di garantire all'incolpato una difesa adeguata, mentre nella seconda ad una tale attività istruttoria non si dà luogo trattandosi di applicare il principio di diritto espresso nella sentenza di annullamento con rinvio.
In realtà, in questo momento procedimentale resta preminente non tanto il diritto di attività di difesa dell'incolpato, garantito dai termini del giudizio di prima istanza, quanto il diritto alla decisione, dovendosi leggere anche questo secondo profilo nel precetto di cui all'art. 24 della Costituzione.
Il procedimento di rinvio-originato dall'azione disciplinare per sua natura imprescrittibile, a differenza dell'azione penale prescrittibile-che non sia sollecitato da un termine di decadenza e che può in ipotesi non avere mai inizio, vanificandosi così l'effetto estintivo, riconosciuto invece dalla norma impugnata all'inutile decorso dei termini stabiliti per il procedimento di prima e unica istanza, non soltanto viola l'art. 24 della Costituzione nel contenuto innanzi delineato, ma menoma la posizione di affidabilità sociale del magistrato che continui ad esercitare la giurisdizione nello status sine die di incolpato, con evidente lesione altresì dei valori di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 12 , quarto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) - più esattamente, art. 59, nono comma, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transito rie), nel testo sostituito dall'art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1-nella parte in cui non estende i termini ivi fissati al procedimento di rinvio.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12/12/90.
Giovanni CONSO, PRESIDENTE
Francesco Paolo CASAVOLA, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 19/12/90.