Sentenza n. 419 del 1991

 

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SENTENZA N. 419

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del testo unico delle disposizioni sull'edilizia popolare ed economica), promosso con ordinanza emessa il 29 giugno 1990 dal Tribunale di Roma sul ricorso proposto da I.A.C.P. contro Chiara Teresa, iscritta al n. 336 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visto l'atto di costituzione dello I.A.C.P., nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nell'udienza pubblica dell'8 ottobre 1991 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;

Uditi gli avvocati Achille Chiappetti e Armando De Maio per lo I.A.C.P. e l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei ministri;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento per l'emissione di decreto ingiuntivo, richiesto dall'Istituto autonomo case popolari (I.A.C.P.) della Provincia di Roma nei confronti di un inquilino moroso, a norma dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165, il Presidente della IV Sezione del Tribunale di Roma (delegato all'esame del ricorso dal Presidente del Tribunale medesimo) ha sollevato, con ordinanza emessa il 29 giugno 1990 (pervenuta alla Corte il 10 maggio 1991), questione di legittimità costituzionale della norma citata, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Ritiene il giudice a quo che possano essere superate dalla nuova disciplina delle locazioni, introdotta dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, le considerazioni che già indussero questa Corte ad escludere l'illegittimità della medesima norma nella sentenza n. 159 del 1969.

Premesso che detta decisione ebbe a sancire l'illegittimità costituzionale del più volte citato art. 32, nella parte in cui prevedeva, per l'adempimento e l'opposizione, i termini - rispettivamente - di 10 e 5 giorni, anziché quello di venti giorni di cui all'art. 641 del codice di procedura civile, osserva il giudice a quo come, originariamente, la norma impugnata in qualche modo anticipasse la configurazione data all'istituto del "termine di grazia" dalla previgente legislazione vincolistica: ex artt. 37 della legge 23 maggio 1950, n. 253, e 4, sesto comma, della legge 26 novembre 1969, n. 833, era appunto possibile che il giudice consentisse una dilazione nel pagamento dei canoni scaduti contestualmente al provvedimento che disponeva il rilascio dell'immobile, con conseguente perdita di efficacia del medesimo nell'ipotesi di adempimento.

Ma tale forma di tutela del conduttore, accentuata dall'anzidetto intervento di questa Corte, non parrebbe più conforme al nuovo assetto delle locazioni, in particolare sul terreno processuale, pur tenendosi conto della specificità del rapporto di edilizia economica e popolare.

Richiama a riguardo il giudice rimettente la disciplina dell'istituto della sanatoria quale risulta dagli artt. 55 e 56 della legge n. 392 del 1978, sintetizzabile:

a) nell'idoneità della stessa ad escludere preventivamente la pronuncia sullo sfratto;

b) nella riferibilità al canone dovuto e non già a quello preteso;

c) nella possibilità - per il conduttore - di mantenere ferma l'opposizione, impregiudicato ogni accertamento, versando la somma richiesta in banco iudicis;

d) nella graduabilità del termine di grazia, ove richiesto, in relazione alle condizioni del conduttore;

e) nella ulteriore differibilità dell'esecuzione (con conseguente protrazione del termine) anche quando non vi sia stato adempimento entro la data fissata dal giudice;

f) nella facoltà, per il conduttore convenuto, di difendersi comparendo personalmente.

A fronte di ciò, il fatto di aver conservato proprio alla categoria di inquilini per definizione più debole economicamente, una procedura che muove da uno sfratto già pronunciato e non consente alcun differimento per la sanatoria obbligando a provvedersi di un difensore (attesa la ristrettezza dei tempi per valersi del gratuito patrocinio), concreterebbe ingiustificata disparità di trattamento tra conduttori in regime di edilizia residenziale pubblica o privata e perfino nell'ambito dei primi (per la rilevata impossibilità di differenziare il termine in dipendenza delle condizioni soggettive).

Ricorrerebbe altresì lesione dell'art. 24 della Costituzione per l'insufficienza della tutela accordata al conduttore, sia sul piano dei margini di sanatoria, che per la ristrettezza dei termini di opposizione, in particolare alla luce della "valenza costituzionale" riconosciuta al diritto all'abitazione.

2. - È intervenuto il Presidente del consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato che ha concluso per la declaratoria di manifesta infondatezza, sulla base della sostanziale identità tra la questione in esame e quella decisa con la sentenza di questa Corte n. 159 del 1969 (di cui vengono riportate alcune affermazioni).

3. - Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituito l'Istituto autonomo per le case popolari della Provincia di Roma, preliminarmente eccependo l'inammissibilità della questione in quanto la norma impugnata rileverebbe soltanto nella fase processuale successiva al procedimento d'ingiunzione e per essere stato quest'ultimo indebitamente unificato allo sfratto (si osserva in proposito che non era stata richiesta la provvisoria esecuzione).

Nel merito la questione appare infondata alla parte privata che, richiamata la già citata sentenza n. 159 del 1969, sottolinea la diversità delle situazioni poste a confronto, insistendo sulla peculiarità del rapporto tra assegnatari ed II.AA.CC.PP., i quali non perseguono finalità di lucro. I primi, poi, già sarebbero stati tutelati, in quanto contraenti deboli, in sede amministrativa attraverso le procedure di assegnazione.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 29 giugno 1990 (R.O. n. 336 del 1991), solleva d'ufficio, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del testo unico delle disposizioni sull'edilizia popolare ed economica).

Il Tribunale rimettente ritiene che la norma impugnata determini disparità di trattamento tra assegnatario di alloggio di edilizia pubblica e conduttore nel rapporto privato di locazione e renda difficoltoso per il primo l'esercizio del diritto di difesa.

2. - La questione è infondata nei sensi di cui appresso.

Il tema da decidere è se la procedura disposta dall'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 - il quale riconosce al decreto di ingiunzione di pagamento, emesso dal giudice su ricorso dell'Istituto autonomo case popolari contro l'inquilino moroso, natura di titolo esecutivo per lo sfratto e per l'esecuzione sui beni mobili del debitore - abbia tuttora una ragionevole giustificazione, nel mutamento di importanti dati contestuali.

Va premesso che l'anzidetto carattere esecutivo che il provvedimento possiede priva di pregio l'eccezione d'inammissibilità della parte privata che assume di non aver richiesto tale clausola, all'evidenza non scorporabile dal contenuto tipico della domanda.

È opportuno tener presente che la rapidità e unicità del procedimento di ingiunzione e di sfratto appare in una norma che può essere stata influenzata dalle concezioni autoritarie allora dominanti specie nelle discipline di rapporti a prevalente impronta pubblicistica. Nel successivo regime democratico, in una più favorevole comprensione dello Stato sociale per le ragioni dei conduttori di locazioni di immobili urbani destinati ad abitazione, si sono introdotte procedure meno pressanti, nonché il cosiddetto termine di grazia, previsto dall'art. 37 della legge 23 maggio 1950, n. 253 (Disposizioni per le locazioni e sublocazioni di immobili urbani), e dall'art. 4, sesto comma, della legge 26 novembre 1969, n. 833 (Norme relative alle locazioni degli immobili urbani), e consistente nella possibilità che sia concesso al conduttore moroso un termine - non inferiore a venti giorni e non superiore a sessanta per il pagamento delle pigioni scadute - che, se adempiuto, fa perdere efficacia al provvedimento di rilascio.

Sopravvenuta la legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), l'intera materia è organicamente ridisciplinata e, in particolare con gli artt. 55 e 56, la posizione del conduttore moroso trova tutela in via di sanatoria dell'inadempienza per canoni scaduti sino a quattro volte nel corso di un quadriennio, con pagamento che ha effetto di escludere la risoluzione del contratto, nonché, quando sia emesso il provvedimento di rilascio, con dilazione della esecuzione nel termine di sei mesi e in casi eccezionali di dodici dalla data del provvedimento. Si aggiunga la progressiva valorizzazione del diritto a permanere nell'abitazione, a compenso della insufficienza del mercato a rispondere alla crescente domanda della popolazione urbana, sino alla formulazione di un diritto sociale fondamentale all'abitazione che connota la nostra forma di Stato (Corte cost., sentenza n. 217 del 1988 e sentenza n. 404 del 1988).

3. - Tutto ciò premesso, occorre ora ricordare che questa Corte ebbe già a sottoporre a verifica di costituzionalità la norma denunciata in riferimento ai medesimi artt. 3 e 24 della Costituzione. La sentenza allora resa (n. 159 del 1969), dichiarò la illegittimità costituzionale dei commi terzo e settimo dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 "nella parte in cui per il pagamento dei canoni scaduti e per l'opposizione al decreto ingiuntivo fissano termini diversi da quelli previsti dall'art. 641 del codice di procedura civile per l'ordinario procedimento ingiuntivo". Sulla forza del dispositivo di quella sentenza, i termini originariamente previsti di 10 giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo per il pagamento delle pigioni, e di cinque per proporre opposizione, furono elevati a 20 giorni e così allineati a quelli della disciplina codicistica.

Ma la citata sentenza non ravvisava contrasto tra gli artt. 3 e 24 della Costituzione e l'unificazione delle procedure di ingiunzione di pagamento e di sfratto e la conseguente mancanza di un'ordinanza di convalida: "Tali particolarità, infatti, tendendo ad assicurare all'Istituto (autonomo case popolari) una procedura più rapida per il recupero dei canoni scaduti e per il rilascio dell'alloggio da parte dell'inquilino inadempiente, si giustificano con la necessità di garantire il perseguimento degli scopi di pubblico interesse dell'Istituto e non comportano alcuna menomazione dei diritti di difesa e di tutela giurisdizionale del soggetto privato".

Non sussiste giuridicamente identità di situazione tra inquilino di una privata abitazione e concessionario di un alloggio popolare: nel primo caso il rapporto di locazione ha un fine di remunerazione del capitale investito dal proprietario-locatore; nel secondo di soddisfacimento dell'obbligo dell'Istituto di fornire l'abitazione popolare a categorie meno abbienti di cittadini con canoni inferiori a quelli correnti sul mercato.

4. - È pur vero che non si può trovare giustificazione di quella procedura nel dare soltanto rilievo alle finalità di pubblico interesse perseguite dall'Istituto, senza bilanciamento con le condizioni di regola economicamente assai deboli dei concessionari di alloggi popolari.

Ed è pertanto doveroso per il legislatore intervenire a sostituire la disciplina del 1938 con altra più rispettosa della odierna rilevanza costituzionale del diritto all'abitazione, che ha portata generale e supera le separazioni tra edilizia pubblica e privata.

Diritto che, sia pure inteso nella più limitata accezione di una aspettativa a fronte del dovere collettivo di impedire che singole persone restino prive di abitazione, risulta tanto più cogente quando si rapporta ad un Ente che persegue il pubblico interesse di assicurare alloggio popolare a soggetti economicamente deboli (cfr. sentenza n. 559 del 1989).

5. - Nondimeno, sino al momento in cui potrà sopravvenire tale auspicata riforma, anche nella vigenza della normativa censurata, il giudice ben può adeguarsi ad una interpretazione atta a consentire l'operatività del procedimento in sintonia con l'indicata preminenza delle situazioni soggettive riconducibili all'abitazione.

Lo strumento processuale di cui si giovano gli Istituti per le case popolari trova infatti il contemperamento del suo carattere sommario nella fase di opposizione. Attraverso il contraddittorio, che pur sempre garantisce una cognizione piena, potrà essere fatto in primo luogo valere l'adempimento, ove questo sia medio tempore intervenuto, con la conseguenza della revoca del decreto.

In secondo luogo deve porsi mente al testo dell'ottavo comma della norma impugnata che, dopo aver sancito l'inidoneità dell'opposizione a sospendere l'esecuzione, consente tuttavia al giudice adito "sulla presentazione dell'atto di opposizione" di sospendere "in casi gravi" l'esecuzione "con nuovo decreto".

Tale previsione si connota rispetto al dettato dell'art. 649 del codice di procedura civile in termini non solo speciali ma certamente anche più consoni ad un'esecuzione che scaturisce ope legis e più aderenti alla specificità del rapporto tra assegnatario ed Istituto: l'esecuzione è sospesa non su istanza ma su semplice presentazione dell'atto introduttivo, per decreto e non con ordinanza, e soprattutto quando la gravità concerne non i motivi ma "il caso" inteso nella sua globalità (e quindi anche aspetti sociali ed umani della concreta situazione dedotta in giudizio). Ne deriva, per l'interprete, non soltanto l'opportunità, ma addirittura la necessità di capovolgere il paradigma logico della disposizione, al fine di estendere quanto più possibile la concessione della sospensione dell'esecuzione, ammessa originariamente in via di eccezione, ma da considerarsi ormai ordinaria regola del giudicare alla luce dell'evoluzione del contesto normativo e del rango assunto dall'appagamento delle esigenze abitative.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del testo unico delle disposizioni sull'edilizia popolare ed economica), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, con l'ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 6 novembre 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI  - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 19 novembre 1991.