ORDINANZA N. 409
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Dott. Aldo CORASANITI Presidente
Prof. Giuseppe BORZELLINO Giudice
Dott. Francesco GRECO “
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Avv. Mauro FERRI “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
Prof. Giuliano VASSALLI “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 7 agosto 1982, n. 516 (Norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) promosso con ordinanza emessa il 16 novembre 1990 dalla Commissione tributaria di primo grado di Treviso sui ricorsi riuniti proposti da Monico Giovanni contro Ufficio I.V.A. di Treviso iscritta al n. 320 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1991;
Visto l'atto di intervento del presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 1991 il Giudice relatore Renato Granata;
Ritenuto che con ordinanza del 16 novembre 1990 la Commissione tributaria di primo grado di Treviso ha sollevato questione di legittimità costituzionale in via incidentale dell'art. 10 d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982 n. 516, (Norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) nella parte in cui esclude - limitatamente ai reati previsti dalla legge medesima - l'applicazione del principio di specialità tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, posto in generale dall'art. 9, 1 comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale), per sospetta violazione del principio di eguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) in relazione sia ad illeciti tributari diversi da quelli sanzionati dalla medesima legge n. 516 cit., sia in generale ad altre ipotesi di illeciti amministrativi concorrenti con illeciti penali;
che è intervenuta l'Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri ed ha sostenuto pregiudizialmente l'inammissibilità in rito della questione di costituzionalità per difetto di rilevanza, atteso che il contribuente non si sarebbe doluto della applicazione dell'art. 10 censurato, né risulta che alcuno degli illeciti a lui addebitati abbia un rilievo penale;
che nel merito l'Avvocatura sostiene che comunque l'esclusione del principio di specialità costituisce espressione di discrezionalità del legislatore;
Considerato che vanno disattese le eccezioni pregiudiziali dell'Avvocatura per essere rilevante la questione di costituzionalità giacché risulta dall'ordinanza di rimessione - la cui prospettazione in punto di fatto non è censurabile da questa Corte - che, rispettivamente, il contribuente ha sollevato l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 10 cit. e che lo stesso è stato denunziato per i reati di cui agli articoli 1, 1 comma, 3, 2 comma e 4, n. 7, della legge n. 512 cit. e cioè - almeno in parte - per gli stessi fatti per i quali sono state irrogate le pene pecuniarie, oggetto della controversia tributaria de qua;
che altresì la questione è rilevante ancorché nell'ordinanza di rimessione non sia indicato quale tipo di sanzione sarebbe applicabile ove fosse operante il principio di specialità di cui all'art. 9 cit.; infatti la norma impugnata (art. 10 cit.) rappresenta uno sbarramento, non superabile se non con la invocata dichiarazione di incostituzionalità, per il giudice a quo che di tale principio di specialità intende far applicazione, mentre è ininfluente il possibile esito di tale giudizio giacché comunque diverse sarebbero le ragioni del decidere rispetto alla pronuncia che - nella permanente vigenza dell'art. 10 - delibasse la legittimità delle pene pecuniarie irrogate al contribuente (cfr. sent. n. 97 del 1987);
che nel merito la questione si appalesa manifestamente infondata sotto entrambi i profili prospettati dal giudice a quo;
che, infatti, il principio del cumulo delle pene pecuniarie e delle sanzioni penali - quale posto dalla norma censurata - rappresenta, sì, una disciplina differenziata rispetto all'opposto principio della specialità operante in generale per le sanzioni amministrative irrogabili per fatti che integrerebbero anche gli estremi di un reato, ma è nient'affatto irragionevole, né lesivo del principio di eguaglianza, attesa l'assoluta diversità degli illeciti ai quali le due disposizioni si riferiscono e la peculiarità delle violazioni finanziarie, per le quali legittimamente il legislatore - nell'esercizio della sua discrezionalità - può modulare la reazione dell'ordinamento giuridico al comportamento illecito del contribuente con una duplice sanzione, pecuniaria e penale;
che a non diversa valutazione conduce il rilievo del giudice a quo sulla residuale applicabilità (dal medesimo de plano ritenuta) del principio di specialità alle violazioni finanziarie diverse da quelle contemplate dalla legge n. 516 del 1982, atteso che - ove anche ciò fosse (ma è tutt'altro che certo in presenza di giurisprudenza, anche della Corte di cassazione, nonché di dottrina per nulla univoche sia su tale specifica questione, sia in termini più ampi sull'applicabilità, o meno, alle violazioni finanziarie dei principi generali posti dalla legge n. 689 del 1981 cit.) - la non irragionevolezza dell'opzione normativa risiederebbe comunque nella considerazione che la legge n. 516 cit. attiene a tributi evidentemente e non ingiustificatamente dal legislatore considerati fondamentali nel quadro della globale politica finanziaria da lui complessivamente disegnata con discrezionale modulazione della potestà impositiva, sicché per tali tributi sarebbe giustificata una scelta di maggior rigore;
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953 n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982 n.516, (Norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) sollevata, in relazione all'art. 3 Cost., dalla Commissione tributaria di primo grado di Treviso con l'ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 novembre 1991.
Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.
Depositata in cancelleria il 12 novembre 1991.