Sentenza n. 285 del 1991

 

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SENTENZA N. 285

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Ettore GALLO                                                   Presidente

Dott. Aldo CORASANITI                                         Giudice

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                       “

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma sesto, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), quale modificato dall'art. 2, comma secondo, della legge 21 febbraio 1990, n. 36 (Nuove norme sulla detenzione delle armi, delle munizioni, degli esplosivi e dei congegni assimilati), promosso con ordinanza emessa il 3 ottobre 1990 dal Tribunale di Pinerolo nel procedimento penale a carico di Sgarbossa Alessandro, iscritta al n. 700 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1990;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 10 aprile 1991 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale per il reato di cui agli artt. 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 e 5, sesto comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, quest'ultimo nel testo sostituito con l'art. 2 della legge 21 febbraio 1990, n. 36, contestato per il porto in luogo pubblico di una pistola avente la canna non occlusa da un visibile tappo rosso incorporato, il Tribunale di Pinerolo ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., una questione di legittimità costituzionale del secondo comma del predetto art. 2, a termini del quale "Quando l'uso o il porto d'armi è previsto quale elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato, il reato stesso sussiste o è aggravato anche qualora si tratti", tra l'altro, di arma giocattolo con canna non occlusa nel predetto modo.

Dopo aver rilevato che con quest'ultima norma si è equiparata l'ipotesi del porto di arma giocattolo priva di tale requisito a quella del porto di arma comune da sparo di cui agli artt. 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, il giudice a quo osserva che, mentre l'assimilazione dell'uso di arma giocattolo all'uso di arma vera è giustificata dal verificarsi anche nel primo caso dell'effetto di intimidazione e di avvertita maggior pericolosità della condotta, la "sottoposizione ad uguale trattamento sanzionatorio" e "normativo" del porto di arma comune da sparo e di arma giocattolo sarebbe irragionevole.

A suo avviso, infatti, le due ipotesi sono "profondamente differenti nella loro materialità e nella loro valenza criminale", e solo il porto di arma vera, non anche quello di arma giocattolo, "presenta potenzialità offensive e denota una pericolosità dell'agente".

2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio tramite l'Avvocatura dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. A suo avviso, l'equiparazione tra arma vera ed arma giocattolo con canna non occlusa si giustifica con la considerazione che il porto di questa implica disponibilità a servirsene, ottenendo così l'effetto intimidatorio che le è proprio.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'art. 2 della legge 21 febbraio 1990, n. 36, sostituendo il sesto comma dell'art. 5 della legge 18 aprile 1975, n. 110, stabilisce, al secondo comma, che "Quando l'uso o il porto d'armi è previsto quale elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato, il reato stesso sussiste o è aggravato anche qualora si tratti di arma per uso scenico o di giocattoli riproducenti armi la cui canna non sia occlusa a norma del quarto comma" del predetto art. 5, e cioè "da un visibile tappo rosso incorporato".

Il Tribunale di Pinerolo, chiamato a giudicare di una ipotesi del porto in luogo pubblico di una pistola giocattolo priva di tale tappo, muove dal presupposto che ad essa, per effetto della predetta norma, si applichi la pena stabilita per il porto abusivo di armi comuni da sparo (e cioè - in forza degli artt. 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 - la reclusione da un anno e quattro mesi a sei anni e otto mesi e la multa da L. 267.000 a L. 2.667.000); e sostiene che la sottoposizione del porto dei due tipi di armi ad identico trattamento "normativo" e "sanzionatorio" sarebbe irragionevole, e perciò contrastante con l'art. 3 Cost., trattandosi di fattispecie materialmente differenti e dovendosi escludere che il porto di arma giocattolo priva del predetto tappo presenti potenzialità offensiva e denoti pericolosità dell'agente.

Per la verità, dalla discussione parlamentare (cfr. atti Camera, X legislatura, Prima Commissione, seduta del 7 febbraio 1990) sembrerebbe doversi arguire che la suddetta parificazione non fosse nelle intenzioni del legislatore. Ma il tenore letterale della norma non consente di darne una interpretazione diversa da quella presupposta dal giudice rimettente.

2. - Secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, fatta propria anche da questa Corte (sentenza n. 171 del 1986), il testo originario dell'art. 5, sesto comma, della legge n. 110 del 1975 comportava l'applicazione della pena ivi prevista (reclusione da uno a tre anni e multa da lire centomila a lire un milione) non solo a chi fabbrica ma anche a chi detiene o porta fuori della propria abitazione un'arma giocattolo priva del prescritto tappo rosso. Salvo quanto si dirà in appresso, le innovazioni introdotte con le disposizioni impugnate consistono, quindi, da un lato, nell'esclusione dall'area della punibilità della mera detenzione, dall'altro nell'elevazione della pena edittale per il porto: ed inoltre, nella statuizione per cui l'aggravante dell'arma (ad es., per il delitto di rapina) sussiste anche se si tratti di arma giocattolo priva del suddetto dispositivo.

Tanto premesso, non può negarsi che la disposizione in esame susciti perplessità, del resto largamente presenti nella discussione parlamentare. E ciò, per quanto qui interessa, in quanto la norma accomuna nel medesimo trattamento fatti la cui essenziale diversità è innegabile. Mentre l'incriminazione del porto di armi da sparo risponde all'esigenza di prevenire il pericolo del compimento di atti di offesa all'integrità fisica delle persone, quella delle armi giocattolo confondibili con le prime perché prive del prescritto dispositivo di identificazione mira a prevenire il pericolo di atti diretti ad intimidire, ma per definizione inidonei a ledere: sicché il loro grado di offensività e disvalore è nettamente diverso.

Non è stata qui posta in discussione la scelta di munire di sanzione penale il divieto del porto in luogo pubblico di siffatti strumenti, "mirata a prevenire energicamente, usi distorti, fraudolentemente criminosi" di essi (sentenza n. 171 del 1986). Infatti, oggetto della censura di incostituzionalità è la scelta di parificare il trattamento sanzionatorio di fatti notevolmente differenziati quanto a livello di offensività.

Questa Corte, occupandosi - nella più volte citata sentenza n. 171 del 1986 - dei raffronti sia tra le varie sottofattispecie ricomprese nell'art. 5, sesto comma, della legge n. 110 del 1975, sia tra queste ed altre disposizioni in materia di armi, ha ritenuto che ove vi sia - come in quel caso - un notevole divario tra il limite minimo e quello massimo della pena edittale, è consentito al legislatore di includere in uno stesso modello di genere una pluralità di sottofattispecie diverse per struttura e disvalore. In questi casi, infatti, poiché "la discrezionalità di cui agli artt. 132 e 133 c.p., prima di riguardare la colpevolezza o le qualità del singolo soggetto attivo del reato (e cioè caratteristiche relative al singolo, individuale, irripetibile fatto) attengono all'oggettiva qualità e quantità antigiuridica del fatto stesso", sarà il giudice a fare emergere la differenza tra le varie sottospecie risultante dal loro diverso disvalore oggettivo ed a graduare su questa base, nell'ambito dei minimi edittali, la pena da irrogare in concreto.

Questo rilievo va qui ribadito, ma deve essere correttamente inteso. Non se ne può arguire, innanzitutto, che il giudice non possa applicare i minimi edittali alla (o alle) sottofattispecie più gravi, quando a tale conclusione conduca la complessiva considerazione delle particolarità oggettive e soggettive del caso singolo. Inoltre, esso non può essere dilatato fino al punto da tradursi in sovvertimento del rapporto tra il principio della riserva alla legge del trattamento sanzionatorio e quello dell'individualizzazione della pena. In linea di principio, infatti, l'individuazione del disvalore oggettivo dei fatti - reato tipici, e quindi del loro diverso grado di offensività, spetta al legislatore; mentre al giudice compete di valutare le particolarità del caso singolo onde individualizzare la pena, stabilendo in base ad esse, nella cornice posta dai limiti edittali, quella adeguata in concreto. Poiché gli ambiti delle due sfere non vanno confusi, è compito del legislatore di rispettare quel rapporto attraverso un'adeguata articolazione dei trattamenti sanzionatori.

Nel caso in esame, però, l'anzidetto sovvertimento non può dirsi realizzato, né è da ritenere che la censurata equiparazione - pur se frutto di un discutibile apprezzamento delle esigenze preventive e repressive in materia di possesso ed uso di armi giocattolo irregolari - travalichi i limiti della ragionevolezza.

È decisiva, al riguardo, la considerazione che, per effetto dell'estensione della disciplina concernente il porto di armi comuni da sparo al porto di armi giocattolo, risulta applicabile anche in questa seconda ipotesi l'attenuante del fatto di lieve entità prevista dall'art. 5 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, la quale consente la diminuzione della pena in misura non eccedente i due terzi, col limite minimo di sei mesi di reclusione (salvo - secondo la prevalente giurisprudenza - il concorso di altre attenuanti). Ne risulta, quindi, non solo un trattamento sanzionatorio del porto di armi giocattolo in realtà inferiore a quello stabilito dalla norma previgente, cui la predetta attenuante speciale non era applicabile (cfr. sentenza n. 171 del 1986); ma soprattutto, per quanto qui interessa, un significativo elemento di differenziazione rispetto al porto di armi comuni da sparo. Infatti, dato che l'attenuante - applicabile anche al porto di armi da guerra - è riferita alla "qualità" (oltre che alla "quantità") delle armi ed ha, perciò, carattere oggettivo, è logico presumere che essa ben difficilmente potrà essere negata per le armi giocattolo, mentre per le armi comuni da sparo il suo riconoscimento è solo eventuale. Il porto di questi due tipi di armi è quindi differenziato in modo significativo, sul piano sanzionatorio, sulla base di un elemento collegato alla loro oggettiva diversità ed il cui valore discriminante non è tanto affidato alla discrezionalità del giudice quanto, piuttosto, emergente dallo stesso sistema normativo. Di conseguenza, la questione deve essere dichiarata non fondata.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, secondo comma, della legge 21 febbraio 1990, n. 36 (Nuove norme sulla detenzione delle armi, delle munizioni, degli esplosivi e dei congegni assimilati), in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Pinerolo con ordinanza del 3 ottobre 1990.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 23 maggio 1991.

 

Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 18 giugno 1991.