Sentenza n. 230 del 1991

 

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SENTENZA N. 230

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Ettore GALLO                                                   Presidente

Dott. Aldo CORASANITI                                         Giudice

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                       “

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale, con riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione e in relazione agli artt. 1 e 2, comma primo, primo inciso e numeri 53 e 93 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 25 ottobre 1990 dalla Corte di Appello di Catanzaro nel procedimento penale a carico di De Domenico Mario iscritta al n. 751 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell'anno 1991;

2) ordinanza emessa il 16 novembre 1990 dalla Corte di Appello di Torino nel procedimento penale a carico di De Maria Giuseppe iscritta al n. 61 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 10 aprile 1991 il Giudice relatore Enzo Cheli;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel processo d'appello avverso la sentenza di condanna per detenzione e porto illegale di armi e munizioni emessa a seguito di giudizio abbreviato dal Tribunale di Catanzaro nei confronti di Mario De Domenico, la Corte d'Appello di Catanzaro, con ordinanza del 25 ottobre 1990 (R.O. n. 751 del 1990), ha sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione contenuta nell'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui prescrive che il giudizio di appello si svolga nelle forme previste dall'art. 599 dello stesso codice, anche fuori dei casi elencati nel primo comma di detto articolo, con riferimento all'art. 76 della Costituzione ed in relazione agli artt. 1 e 2, comma primo, primo inciso e numeri 53 e 93, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale).

Premette il giudice remittente che la legge n. 81 del 1987 - anche per il richiamo contenuto nel primo comma dell'art. 2, "alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia relative al processo penale" - risulta informata al principio della pubblicità della trattazione del merito dei procedimenti penali e che tale principio generale subisce deroghe solo nelle ipotesi espressamente previste nella stessa legge di delegazione.

Nell'ordinanza di rinvio si afferma inoltre che la direttiva di cui all'art. 2, n. 53, della legge di delegazione, concernente il giudizio abbreviato, non prevede, per il procedimento d'appello, l'adozione del rito camerale, mentre le ipotesi di deroga al principio della trattazione pubblica nel giudizio d'appello sarebbero solo quelle menzionate nella direttiva di cui all'art. 2, n. 93, dove si prevede il procedimento in camera di consiglio nel contraddittorio tra le parti solo quando l'impugnazione abbia per oggetto la specie o la misura della pena, la concessione delle attenuanti generiche o l'applicabilità di sanzioni sostitutive, o la concessione dei benefici di legge. E poiché tale elencazione sarebbe da considerare tassativa anche alla luce della recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 435 del 1990), il giudice remittente prospetta il dubbio che la disposizione contenuta nell'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale - nella parte in cui prescrive che il giudizio di appello si svolga nelle forme previste dall'art. 599 dello stesso codice anche fuori dei casi elencati nel primo comma dello stesso articolo - violi l'art. 76 della Costituzione, in relazione agli artt. 1 e 2, comma primo, primo inciso e nn. 53 e 93, della legge di delegazione, ponendosi in contrasto con i criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante.

2. - Nel giudizio dinanzi alla Corte ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per sostenere la manifesta infondatezza della questione.

Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato la direttiva dell'art. 2, n. 93, della legge di delegazione si riferirebbe alla impugnazione dei provvedimenti emessi secondo il modello ordinario e non potrebbe essere correttamente applicata alle ipotesi di impugnazione di un provvedimento emesso a seguito di un procedimento speciale già definito in primo grado, in ossequio alla direttiva espressa nell'art. 2, n. 53, con il rito camerale. Aggiunge inoltre l'Avvocatura che sarebbe stata singolare e contraria al principio di "massima semplificazione", che ispira il nuovo processo penale, la previsione di una diversificazione della forma di trattazione dei procedimenti di appello rispetto a quelli di primo grado: e ciò soprattutto ove si consideri che vige nel nostro ordinamento un principio generale di estensione delle norme sul giudizio di primo grado al giudizio di appello (v. art. 519 del codice di procedura penale del 1930 ed ora art. 598 del nuovo codice). Il richiamo a tale principio spiegherebbe anche - secondo l'Avvocatura dello Stato - il silenzio della direttiva n. 53 sulle forme di celebrazione del procedimento d'appello nel giudizio abbreviato, in quanto tale direttiva doveva soltanto fissare il principio "innovativo" del rito camerale per il procedimento di primo grado, mentre l'estensione di tale rito al procedimento di appello sarebbe da ritenersi "conseguenziale" sulla base delle regole generali tradizionalmente recepite.

3. - Nel processo d'appello avverso la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato dal Tribunale di Torino nei confronti di Giuseppe De Maria, la Corte d'Appello di Torino, con ordinanza del 16 novembre 1990 (R.O. n. 61 del 1991), ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale, con riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione ed in relazione alle direttive di cui all'art. 2, nn. 53 e 93, della legge 16 febbraio 1987, n. 81.

Nell'ordinanza di rinvio, il giudice a quo rileva che, in base all'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale, il giudizio di appello deve svolgersi, qualunque sia la doglianza mossa con il gravame, con le forme previste dall'art. 599 e cioè con il rito della camera di consiglio regolato dall'art. 127 dello stesso codice: tale rito comporta una deroga sia al principio di garanzia della difesa (data la non necessità della presenza dell'imputato e dei suoi difensori), sia al principio della pubblicità del dibattimento (che viene tenuto senza la presenza del pubblico). La deroga a tali principi, in determinate circostanze, può essere consentita alla luce del diverso principio della celerità dei procedimenti richiamato nell'art. 2, n. 1, della legge di delegazione n. 81 del 1987: ma in ogni caso senza pregiudicare diritti costituzionalmente garantiti e senza estendere le deroghe al di là dei limiti fissati dal legislatore delegante. Ora, la direttiva di cui all'art. 2, n. 53, della legge n. 81 del 1987, concernente il giudizio abbreviato, non prevede, per il procedimento di appello, l'adozione del rito camerale, mentre la direttiva di cui all'art. 2, n. 93, della suddetta legge circoscrive il procedimento in camera di consiglio in grado d'appello a ipotesi ben determinate, con una elencazione da ritenere tassativa, alla luce dei lavori preparatori e della giurisprudenza costituzionale sull'argomento (sentenza n. 435 del 1990).

Il giudice remittente - attraverso il raffronto tra le previsioni della legge di delegazione e l'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale - giunge alla conclusione che il legislatore delegato, da un lato, avrebbe ampliato le deroghe ai principi generali operate dalla direttiva n. 53, aggiungendo disposizioni concernenti il procedimento di secondo grado, e, dall'altro, avrebbe esteso le ipotesi di rito camerale in appello al di là dei precisi confini tracciati dalla direttiva n. 93.

Tale estensione del procedimento camerale - ad avviso del giudice a quo - sarebbe ingiustificata sotto vari aspetti.

Innanzitutto, essa non garantirebbe una maggiore celerità del processo nei casi in cui debbano essere trattate in camera di consiglio questioni di rilevante importanza, quali quelle attinenti alla responsabilità ed al titolo del reato. Anzi, il rito camerale si rivelerebbe addirittura controproducente qualora il giudice d'appello stabilisse di non poter decidere senza l'assunzione delle prove non esperite in primo grado per effetto della scelta per il giudizio abbreviato: e ciò perché, in tal caso, l'obbligatorietà di nuove citazioni e notifiche renderebbe il rito camerale più lungo di un dibattimento secondo il rito ordinario.

In secondo luogo, la denunciata estensione del rito camerale comprimerebbe il diritto di difesa, giacché la disciplina dettata dall'art. 127, terzo comma, del codice di procedura penale, sarebbe giustificabile alla luce delle esigenze di speditezza del processo quando l'impugnazione verta su elementi non essenziali della causa, ma non lo sarebbe più allorché sia in contestazione la stessa responsabilità dell'appellante.

Infine - sempre secondo il giudice a quo - non si potrebbe sostenere che la norma impugnata costituisca il naturale corollario della disciplina che regola lo svolgimento, secondo il rito camerale, del giudizio abbreviato, poiché le parti, quando pongono in discussione con i loro atti di impugnazione elementi essenziali della causa, vengono a porsi in contraddizione con le premesse stesse del rito abbreviato.

Da tutte queste considerazioni la Corte d'Appello di Torino trae la conclusione che l'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale - laddove dispone che, in grado di appello, si debba procedere con il rito in camera di consiglio anche al di fuori dei casi previsti dall'art. 599, primo comma, dello stesso codice - si pone al di fuori delle prescrizioni contenute nelle direttive nn. 53 e 93 della legge di delegazione n. 81 del 1987, violando, di conseguenza, gli artt. 76 e 77 della Costituzione.

4. - Anche in questo giudizio ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, per sostenere che la questione è manifestamente infondata, sulla scorta delle argomentazioni già sviluppate in relazione alla questione sollevata dalla Corte di appello di Catanzaro.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le ordinanze in esame pongono la stessa questione di legittimità costituzionale, diretta a censurare l'art. 443, quarto comma, del nuovo codice di procedura penale per violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, in relazione agli artt. 1 e 2, comma primo, primo inciso e numeri 53 e 93, della delega legislativa al Governo approvata con legge 16 febbraio 1987, n. 81.

I giudizi relativi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia.

2. - Il quarto comma dell'art. 443 c.p.p. dispone che, nel giudizio abbreviato di cui agli artt. 438 e ss. di tale codice, la fase dell'appello "si svolge con le forme previste dall'art. 599". Quest'ultimo articolo, a sua volta, stabilisce, al primo comma, che "quando l'appello ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale, la corte provvede in camera di consiglio con le forme dell'art. 127": forme che comportano la presenza soltanto eventuale delle parti e dei difensori e lo svolgimento dell'udienza senza la presenza del pubblico.

Il rinvio operato dalla norma impugnata alle forme previste dall'art. 599 impone, dunque, l'adozione del rito camerale per tutti i casi di appello contro le sentenze adottate con giudizio abbreviato, anche al di fuori dei limiti di oggetto specificati nel primo comma dello stesso art. 599. Questa estensione del rito camerale anche al di là di tali limiti verrebbe a violare - secondo le ordinanze di rimessione - i principi e criteri direttivi fissati nella legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81, con riferimento particolare a quanto specificato, in tema di appello, dalla direttiva di cui all'art. 2, n. 93 (dove la previsione di un procedimento in camera di consiglio è riferita esclusivamente alle ipotesi particolari indicate nel primo comma dell'art. 599 c.p.p.), e, in tema di giudizio abbreviato, dalla direttiva di cui all'art. 2, n. 53 (dove si indirizza il legislatore delegato verso la previsione di limiti alla appellabilità della sentenza adottata in tale giudizio, senza, peraltro, fare alcun richiamo alle forme del procedimento di appello). Dal che la conseguente violazione dell'art. 76 della Costituzione per eccesso di delega.

3. - La questione non è fondata.

Le due ordinanze di rimessione muovono dal presupposto che la direttiva espressa nell'art. 2, n. 93, della legge di delegazione debba intendersi riferita non soltanto all'appello nel giudizio ordinario, ma anche all'appello nel giudizio abbreviato, con la conseguenza che, in ambedue i giudizi, l'adozione del procedimento in camera di consiglio dovrebbe incontrare i limiti di oggetto fissati in tale direttiva e recepiti puntualmente, per il giudizio ordinario, nel primo comma dell'art. 599 c.p.p.

Ambedue le ordinanze ritengono altresì di poter avallare tale convincimento con il richiamo alla sentenza n. 435 del 1990 di questa Corte, che, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 599, quarto e quinto comma, c.p.p., ha sottolineato il carattere tassativo dell'elencazione formulata nella direttiva n. 93 della legge di delegazione in ordine all'adozione del rito camerale nella fase di appello, dal momento che dai lavori preparatori del nuovo codice di procedura penale è possibile desumere "la precisa volontà del legislatore delegante di delimitare rigorosamente i casi di decisione in camera di consiglio degli appelli".

Tale lettura della direttiva n. 93 - anche alla luce del precedente giurisprudenziale richiamato - non può, peraltro, essere condivisa.

Nessun elemento, né letterale né sistematico, induce, infatti, a ritenere che il legislatore delegante, nel formulare la direttiva in questione, abbia inteso riferirsi a tutti i possibili tipi di appello (ivi compreso l'appello proprio del rito abbreviato, di cui all'art. 443 c.p.p.) e non al solo appello proponibile nell'ambito del rito ordinario. Al contrario, la stessa collocazione della direttiva n. 93 nel quadro delle direttive in tema di impugnazione connesse al rito ordinario (v. nn. 83 e ss.) convince del fatto che i principi ed i criteri espressi in tale direttiva non siano estensibili anche agli appelli proposti nell'ambito dei procedimenti speciali, la cui disciplina è stata fatta salva, come differenziata, dall'art. 593, primo comma, c.p.p.: e questo tanto più ove si consideri che, per quanto concerne il giudizio abbreviato, la materia ha formato oggetto della direttiva specificamente enunciata nell'art. 2, n. 53, della legge di delegazione, dove risulta formulata una indicazione particolare anche per quanto concerne la fase dell'appello, sia pure con riferimento ad un aspetto diverso dalla forma del procedimento.

Né la limitazione della direttiva n. 93 al solo procedimento ordinario è tale da confliggere con quanto enunciato da questa Corte nella richiamata sentenza n. 435 del 1990, dove l'interpretazione tassativa e restrittiva delle ipotesi di ricorso al rito camerale elencate in tale direttiva risulta chiaramente riferita al giudizio ordinario, senza investire in alcun modo il problema della applicabilità della stessa direttiva anche ai giudizi speciali.

4. - Esclusa, dunque, l'applicabilità - per la diversità degli oggetti - della direttiva n. 93 alla norma espressa nel quarto comma dell'art. 443 c.p.p., occorre verificare se tale norma possa essere censurata per eccesso di delega sotto il profilo della violazione della direttiva n. 53, formulata dal legislatore delegante con riferimento specifico al giudizio abbreviato.

In proposito, va ricordato che la direttiva in questione prevede, per il rito abbreviato, "limiti all'appellabilità delle sentenze", ma non enuncia alcun criterio in ordine al rito da adottare per la fase di appello di tale giudizio.

Nel silenzio del legislatore delegante su questo aspetto occorre, dunque, verificare - sempre ai fini dell'accertamento del vizio denunciato di eccesso di delega - se la soluzione adottata dal legislatore delegato con il richiamo generalizzato al rito camerale risulti o meno in contrasto con altri criteri, espliciti o impliciti, desumibili dagli indirizzi formulati nella legge di delegazione in tema di giudizio abbreviato.

Tale verifica, mentre, da un lato, non consente di individuare motivi di contrasto tra la norma impugnata ed i contenuti espressi dalla legge di delegazione con la direttiva n. 53, dall'altro conduce a rilevare come la soluzione adottata dal legislatore delegato in tema di forma dell'appello nel giudizio abbreviato si presenti rispondente alla natura stessa di questo giudizio, che trova la sua base in quella esigenza di "massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale" richiamata dal legislatore delegante, nell'art. 2, n. 1, della legge n. 81 del 1987, come il primo dei criteri ispiratori della riforma.

Su questo piano, l'adozione del rito camerale nella fase di appello del giudizio abbreviato - oltre che ad un criterio di economicità - finisce per rispondere anche ad una esigenza razionale, quale quella che si collega all'unità del processo penale nelle sue varie fasi e che ispira un principio consolidato nel diritto positivo, secondo cui al giudizio di appello si estendono normalmente, in quanto applicabili, le norme relative al giudizio di primo grado (v. l'art. 598 c.p.p. vigente e, in precedenza, art. 519 c.p.p. del 1930).

In altri termini, l'esigenza di accelerazione del procedimento che, nel giudizio abbreviato, viene a giustificare il ricorso in primo grado al rito camerale (con le conseguenti limitazioni in tema di difesa e di pubblicità) risulterebbe frustrata ove non dovesse produrre il suo effetto - nel caso di permanenza dei presupposti che hanno dato luogo alla scelta del rito abbreviato in primo grado - anche in relazione alla fase dell'appello. Rispetto a questa fase risulta, d'altro canto, chiaro che il legislatore delegante, con la direttiva n. 53, pur senza toccare l'aspetto del rito, ha limitato la proponibilità dell'appello proprio in relazione agli specifici presupposti del rito abbreviato.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, con le ordinanze di cui in epigrafe, nei confronti dell'art. 443, quarto comma, del codice di procedura penale con riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione e in relazione agli artt. 1 e 2, comma primo, primo inciso e numeri 53 e 93, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 1991.

 

Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 24 maggio 1991.