Sentenza n. 435 del 1990

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SENTENZA N.435

 

ANNO 1990

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

Dott. Francesco SAJA, Presidente

 

Prof. Giovanni CONSO

 

Prof. Ettore GALLO

 

Dott. Aldo CORASANITI

 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Renato DELL'ANDRO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 599, quarto e quinto comma, e dell'art. 602, secondo comma, del codice di procedura penale, approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, e art. 245 delle norme transitorie del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 20 febbraio 1990 dalla Corte d'appello di Napoli nel procedimento penale a carico di Aloia Filippo ed altra, iscritta al n. 247 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 1990.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio dell'11 luglio 1990 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Dovendo decidere sulla richiesta di riduzione della pena comminata (il 4 luglio 1989) in primo grado, concordata dagli imputati col Procuratore Generale previa rinuncia a tutti gli altri motivi, la Corte d'appello di Napoli, con ordinanza dibattimentale del 20 febbraio 1990, ha sollevato d'ufficio una questione di legittimità costituzionale degli artt. 599, quarto e quinto comma e 602, secondo comma, del cod. proc. pen. del 1988 nonchè dell'art. 245, secondo comma, delle norme transitorie approvate col decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (nella parte - lettera q) - in cui dichiara immediatamente applicabile il citato art. 599), in riferimento, rispettivamente, alla direttiva n. 93 ed all'art. 6 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 e quindi per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost.

 

La Corte rimettente osserva, innanzitutto, che l'istituto disciplinato dal quarto comma dell'art. 599 é del tutto diverso da quello previsto nel primo comma dello stesso articolo. Qui, invero, é previsto che le parti possano concordare sull'accoglimento di tutti o di parte dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi, sicchè la res iudicanda, quale risulta dall'accordo, può attenere anche a problemi di responsabilità e nell'istituto prevale l'elemento pattizio, che é invece del tutto assente nell'ipotesi di cui al primo comma.

 

Si tratta quindi, ad avviso dei giudice a quo, di una deroga alla pubblicità del dibattimento - frutto di una visione contrattualistica del processo e di un'esasperazione del potere dispositivo delle parti nei gradi d'impugnazione - che esorbita dai limiti della delega: sia perchè l'unico procedimento speciale d'appello con rito abbreviato delineato da questa, nella direttiva n. 93, é quello disciplinato nel primo comma dell'art. 599, sia perchè nella direttiva n. 45 si é voluta delineare un'unica forma di "patteggiamento" - quella di cui all'art. 444 - strutturandola come procedimento speciale di primo grado. L'istituto in esame sarebbe quindi un'escogitazione del tutto nuova e priva di addentellati nei principi e criteri della legge di delega, dato che questa non conterrebbe alcun accenno che autorizzi una duplicazione dell'unico rito camerale previsto, per di più fondata su presupposti diversi.

 

La sua introduzione dell'istituto in deroga alla tassatività delle ipotesi di rito camerale elencate nella direttiva n. 93 non potrebbe, d'altra parte, essere giustificata - come fa la Relazione al progetto preliminare - col criterio dell'identità di ratio: sia perchè il dibattimento non viene eliminato nell'ipotesi in cui il giudice d'appello respinga la richiesta predibattimentale; sia perchè, potendo essa essere riproposta in dibattimento e addirittura proposta in questo per la prima volta in termini diversi (artt. 599, quinto comma e 602, secondo comma) l'istituto anzichè camerale sarà nella maggior parte dei casi destinato ad operare in fase dibattimentale. In tal modo, interferirebbe sull'ordinato svolgimento del dibattimento, in quanto da un lato incoraggerebbe "poco edificanti trattative" ed "aggiustamenti" in sede pubblica e darebbe luogo ad una sua "anomala" conclusione, dall'altro produrrebbe un'"aura di prevenzione" nei confronti del giudice che ritenga di respingere la richiesta.

 

2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto tramite l'Avvocatura dello Stato, deduce l'inammissibilità per irrilevanza della questione, sostenendo che, poichè l'elencazione di cui all'art. 245 disp. trans. si pone come eccezione alla regola dell'ultravigenza della precedente disciplina processuale, il richiamo dell'art. 599 non consentirebbe l'applicazione in via analogica, nei procedimenti che proseguono con l'osservanza del vecchio rito, dell'art. 602, secondo comma , la cui operatività é stata prospettata nel giudizio a quo.

 

La questione sarebbe comunque infondata nel merito, dato che l'ordinanza svolge essenzialmente argomenti di opportunità e non considera che la legge di delegazione non può coprire l'intera materia da regolare, sicchè é inevitabile il ricorso al criterio della corrispondenza alla ratio dei principi direttivi: la quale nella specie sussisterebbe, rispondendo l'istituto di cui all'art. 599, quarto comma - pur se non espressamente previsto nella delega - al criterio di massima semplificazione delle procedure, con particolare riguardo alle procedure d'impugnazione (cfr. parere della Commissione parlamentare).

 

Considerato in diritto

 

1.-Con l'ordinanza indicata in epigrafe la Corte d'appello di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., della legittimità costituzionale degli artt. 599, quarto e quinto comma e 602, secondo comma del codice di procedura penale, nonchè dell'art. 245, secondo comma, lettera q), delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del medesimo codice, approvate con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. A suo avviso, disponendo - con le prime due norme - che il giudice d'appello possa provvedere in camera di consiglio quando, ante riormente al dibattimento o nel corso di esso, intervenga tra le parti un accordo sull'accoglimento in tutto o in parte dei motivi d'appello, con rinuncia agli altri, e sulla conseguente determinazione della pena e prevedendo-con la terza-che ciò sia possibile anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del codice che proseguano con il vecchio rito, il legislatore delegato avrebbe violato i limiti della delega conferitagli con la legge n. 81 del 1987.

 

Si tratterebbe, invero, di un istituto del tutto nuovo rispetto alle previsioni della delega, dato che in questa l'applicazione di una pena concordata tra le parti è limitata al primo grado (direttiva n. 45) e l'adozione del rito camerale in sede di impugnazione concerne solo i casi in cui debba decidersi sul quantum di pena (direttiva n. 93) e non anche sulla responsabilità .

 

Nè potrebbe nella specie soccorrere il criterio dell'identità di ratio sotto il profilo della superfluità anche in tal caso del dibattimento, dato non solo che questo non è evitato ove la richiesta delle parti non venga accolta, ma dato anche che l'istituto è destinato ad operare pure (ed anzi prevalentemente) in dibattimento, con risultati che sarebbero non di semplificazione ma di turbativa del suo ordinato svolgimento.

 

2. -L'Avvocatura dello Stato contesta la rilevanza della questione, sostenendo che la tassatività dei richiami di cui all'art. 245 disp. trans. dovrebbe comportare l'applicabilità dell'istituto in esame, nei procedimenti in corso secondo il vecchio rito, solo nella fase predibattimentale (art. 599, quarto e quinto comma) e non anche in quella dibattimentale (art. 602, secondo comma).

 

L'eccezione non può però essere accolta, dato che l'applicabilità in tali procedimenti di quest'ultima disposizione, pur se non espressamente richiamata, non può ritenersi - come sostiene l'Avvocatura - frutto di un non consentito procedimento di estensione in via analogica . Essa, invero, non disciplina un istituto diverso ed autonomo rispetto a quello di cui all'art. 599, quarto comma, bensì il medesimo istituto nei suoi sviluppi dibattimentali; e la sua applicazione anche in fase dibattimentale è coerente con l'esigenza di semplificazione dei procedimenti d'appello in corso che ha indotto il legislatore delegato a disporne l'immediata operatività.

 

3.-Il giudice a quo muove dal presupposto interpretativo secondo cui l'ambito di applicabilità dell'istituto previsto dal quarto comma dell'art. 599 cod. proc. pen. sarebbe più ampio di quello disciplinato nel primo comma dello stesso articolo. Non riguarderebbe, cioè solo gli appelli aventi ad oggetto < la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione tra circostanze, o l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna nel certificato penale>, secondo quanto quest'ultima norma prevede, stabilendo che in tali casi < la Corte provvede in camera di consiglio con le forme previste dall'art. 127>; ma abbraccerebbe, invece, tutti i casi di appello, ivi compresi quelli in cui sia in contestazione la responsabilità dell'imputato, che sarebbe perciò definibile in camera di consiglio sulla base di accordi tra le parti. II giudice rimettente, in altri termini, non dubita della conformità alla delega di accordi sugli oggetti di cui al primo comma, che anzi reputa < in armonia> con la direttiva di cui all'art. 2, n. 93, ma ritiene che essi ne esorbitino qualora investano materie diverse.

 

Poichè la suddetta interpretazione è confortata dall'opinione della dottrina e dalla prassi giurisprudenziale finora formatasi, questa Corte non ritiene di potersene discostare: sicchè il thema decidendum resta delimitato nei termini suddetti.

 

4. - Ciò premesso, la questione è da ritenere fondata.

 

La materia delle decisioni dell'appello in camera di consiglio, invero, forma oggetto, nella delega, di una direttiva specifica, la n. 93, che delimita così rigorosamente i casi in cui ad esse può addivenirsi da con figurarsi come norma di dettaglio più che come principio o criterio direttivo, tant'è che il primo comma dell'art . 5 99 non ne è che la sostanziale riformulazione; e la stessa Relazione al progetto preliminare ammette che l'elencazione in essa contenuta è da ritenersi tassativa.

 

Ciò che più conta è poi che, nel corso dei lavori parlamentari, la direttiva in questione è stata oggetto di un approfondito e minuzioso dibattito e che la formulazione cui infine si è pervenuti è frutto di un orientamento tendenzialmente sviluppatosi in senso restrittivo. Se è vero, infatti, che dal testo approvato dalla Camera il 18 luglio 1984 è stata espunta l'esclusione concernente i reati di competenza della Corte di assi se, è anche vero che, rispetto alla ben più ampia proposta della seconda Commissione del Senato, l'Assemblea ha adottato restrizioni significative.

 

Si è infatti deciso che non potessero essere definiti in camera di consiglio gli appelli concernenti le formule di assoluzione, le circostanze attenuanti non generiche e quelle aggravanti: ed è significativo che il proponente di tale esclusione (cfr. seduta del Senato del 21 novembre 1986) le abbia motivate sostenendo trattarsi di questioni < di tale importanza e di tale rilievo> da far ritenere < opportuno addivenire al rito normale>. Già in precedenza, del resto, la Camera aveva respinto la proposta della Commissione di includervi gli appelli concernenti la specie e l'entità delle misure di sicurezza.

 

Tutto ciò rende evidente la precisa volontà del legislatore delegante di delimitare rigorosamente i casi di decisione in camera di consiglio degli appelli. Tale volontà trova ulteriore conferma nell'abbandono dell'ipotesi di declaratoria di inammissibilità dell'appello per manifesta infondatezza, prevista nella precedente delega (legge 3 aprile 1974, n. 108; cfr. art. 560 del relativo progetto preliminare).

 

Di fronte ad un così univoco intendimento, è giocoforza ritenere che, se si è escluso che potessero decidersi in camera di consiglio le questioni attinenti alla ricorrenza di circostanze attenuanti (non generiche) od aggravanti, a maggior ragione lo si deve escludere quando si tratti di decidere sulla sussistenza o meno del (o dei) reati attribuiti all'imputato ovvero sul riconoscimento di cause di esclusione dell'antigiuridicità o della punibilità.

 

5. - Rispetto a tale precisa delimitazione delle materie suscettibili di definizione in camera di consiglio, la circostanza che dalla legge delega possa desumersi la liceità del ricorso a forme procedurali diverse da quella di cui al primo comma dell'art. 599 non comporta che per questa via possa risultare superato il limite materiale ivi positivamente fissato in ossequio alla direttiva n. 93. Non convince, perciò la Relazione al progetto preliminare quando (p. 131), pur dando atto della tassatività dell'elencazione di cui alla predetta direttiva, sostiene che la ratio di questa consente l'adozione del rito della camera di consiglio < anche allorquando il dibattito pubblico si appalesi inutile> perchè le parti hanno raggiunto un accordo sui motivi d'appello e sulla pena.

 

La ratio della direttiva, quale emerge dal testo normativo e dai lavori preparatori, è bensì quella di accelerare la definizione del processo con l'adozione di un rito abbreviato, ma a patto che siano in discussione questioni attinenti alla pena e non anche alla responsabilità. Ritenere che l'accordo tra le parti possa far travalicare tale limite significa supporre che il legislatore delegante abbia inteso derogare indiscriminatamente, nella materia degli appelli, al generale principio della pubblicità della trattazione del merito dei procedimenti penali, che ha rilievo fondamentale in quanto consente a qualunque cittadino di verificare le ragioni e i modi dell'amministrazione della giustizia. Ma la relazione non offre elementi in tal senso; ed anzi dal dibattito parlamentare sul punto emerge chiara l'importanza che a tal principio è stata riconosciuta dal legislatore delegante (v. i resoconti delle sedute della Camera del 12 luglio 1984 e del Senato del 20 e 21 novembre 1986).

 

É vero, d'altro canto, che l'accordo delle parti ha, secondo la legge delega, un ruolo rilevante nella configurazione di vari istituti previsti nella delega a fini di semplificazione, e che esso è nel caso in esame sottoposto al pieno controllo del giudice. Ciò però vale a legittimare che, in aggiunta al modo di definizione dell'appello in camera di consiglio previsto nel primo comma dell'art. 599, se ne sia configurato un altro che, essendo basato su tale accordo, può conseguire risultati di ulteriore semplificazione, in quanto può prescindere dall'instaurazione del contraddittorio nelle forme di cui all'art. 127 (richiamato nel primo e non anche nel quarto comma dall'art. 599). Non è sufficiente, invece, a far ritenere che l'accordo possa investire materie per le quali il legislatore delegante ha stimato necessaria la procedura normale.

 

Non appare corretto, in particolare, dedurre dalla previsione nella delega dell'istituto dell'applicazione di pena su richiesta (direttiva n. 45; cfr. art. 444 cod. proc. pen.) che esso sia espressione di un principio o criterio direttivo di carattere generale, come tale idoneo ad essere utilizzato dal legislatore delegato per la creazione di altri istituti che ne ripetano le caratteristiche essenziali.

 

Anche il c.d. patteggiamento è infatti oggetto di una direttiva così specifica da potersi definire come norma di dettaglio; ed il fatto che il delegante abbia considerato necessario precisarne minuziosamente i contorni induce a ritenere che, se avesse reputato utilizzabile altrove uno schema analogo, non avrebbe mancato di definirne l'ambito. Del resto la stessa Relazione al progetto preliminare ancora, come si è visto, l'istituto qui in esame alla supposta ratio della direttiva n. 93 e non all'espansione della direttiva n. 45.

 

Tanto meno, poi, a giustificare il travalicamento del suindicato limite materiale può valere-come pretende l'Avvocatura-il richiamo alla generale direttiva di < massima semplificazione> contenuta nel n. 1 dell'art. 2 della legge delega. Anche a non considerare che questa direttiva è talora derogata da specifiche previsioni della stessa delega, è evidente che essa può fondare la discrezionalità del legislatore delegato là dove il delegante abbia dettato direttive generiche od abbia omesso di provvedere, ma non è sufficiente a legittimare l'alterazione delle scelte specifiche che-come nel caso in esame-esso stesso abbia positivamente compiuto.

 

L'art. 599, quarto comma, del nuovo codice di rito, nonchè il successivo quinto comma ed il secondo comma dell'art. 602-che presuppongono il primo-vanno perciò dichiarati costituzionalmente illegittimi, in quanto eccedenti i limiti della delega, nella parte in cui consentono la definizione del procedimento nei modi ivi previsti anche al di fuori dei casi elencati nel primo comma dell'art. 599. II richiamo ad esso dell'art. 245 va inteso di conseguenza.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 599, quarto e quinto comma, e 602, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui consentono la definizione del procedimento nei modi ivi previsti anche al di fuori dei casi elencati nel primo comma dello stesso art. 599.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/09/90.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

 

Ugo SPAGNOLI, REDATTORE

 

Depositata in cancelleria il 10/10/90.