SENTENZA N.35
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Giovanni CONSO Presidente
Prof. Ettore GALLO Giudice
Dott. Aldo CORASANITI “
Prof. Giuseppe BORZELLINO “
Dott. Francesco GRECO “
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, con modificazioni, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 16 novembre 1988 dal Tribunale di Modena nel procedimento penale a carico di Caprara Teresa, iscritta al n. 399 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 1990;
2) ordinanza emessa il 26 aprile 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Mattiazzo Diego, iscritta al n. 422 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1990;
3) ordinanza emessa il 10 maggio 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Greco Vincenzo ed altra, ordinanza iscritta al n. 445 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1990.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 28 novembre 1990 il Giudice relatore Giovanni Conso.
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di Modena, con ordinanza emessa il 16 novembre 1988 (pervenuta a questa Corte il 23 maggio 1990), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, nella parte in cui non prevede "un preciso limite di valore" oltre il quale il risultato della dichiarazione annuale dei redditi debba considerarsi alterato "in misura rilevante".
Il "potere-dovere di stabilire se e quando una umana condotta risulti talmente pregiudizievole da meritare i rigori della reprimenda penale" - argomenta il giudice a quo - è da intendersi attribuito, in via esclusiva, al legislatore, tenendo conto "delle ragioni e delle esigenze del corpo sociale"; alla giurisprudenza spetta soltanto "di stabilire 'sé un comportamento umano abbia o meno a costituire reato per la sua corrispondenza al modello legale astratto della relativa fattispecie incriminatrice speciale". Ove, pertanto, come nel caso della disposizione denunciata, sia rimesso al giudice "il compito di stabilire se sia 'rilevante' l'alterazione del risultato dell'infedele dichiarazione", si realizza un "distorto sistema di usurpazione di competenze", in forza del quale "il cittadino fiscalmente 'infedele' saprà che la sua condotta integra estremi di reato non dalla preventiva lettura della norma ma dalla successiva determinazione del Giudice". Da ciò, ad avviso del remittente, la violazione, ad opera della norma denunciata, degli artt. 25 e 3 della Costituzione: per come "formulata e strutturata", tale norma "collide in modo vistoso" con il principio di "tassatività", nel quale si articola il principio di "legalità", e con il principio di eguaglianza, poiché, da un lato, l'indeterminatezza della fattispecie fa carico al giudice di determinare, in concreto, l'alterazione rilevante del risultato della dichiarazione, in assenza di adeguati parametri ai quali ancorarne la valutazione, mentre, dall'altro lato, i contrastanti apprezzamenti giurisprudenziali che ne conseguono attentano al principio di eguaglianza.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 26, prima serie speciale, del 27 giugno 1990.
È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata "palesemente non fondata".
2. - Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, con due ordinanze di analogo contenuto, emesse il 26 aprile 1990 ed il 10 maggio 1990, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità dell'art.4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516.
In base alla sentenza n. 247 del 1989 di questa Corte, riconosce il giudice remittente, la fattispecie descritta dalla norma impugnata non si presenterebbe indeterminata, in quanto ad integrare la condotta penalmente rilevante non basterebbe un comportamento consistente nel semplice omettere l'indicazione di fonti di reddito, occorrendo, invece, che esso si esprima "in forme corrispondenti a quelle necessarie per integrare le diverse ipotesi di frode fiscale".
L'ordinaria prassi giurisprudenziale - prosegue il giudice a quo - è, però, prevalentemente orientata nel senso di ritenere sufficiente ad integrare la fattispecie di cui alla norma denunciata anche un comportamento semplicemente mendace.
Alla stregua di tale orientamento interpretativo, che comporta l'indeterminatezza della fattispecie in ordine al requisito della rilevante alterazione del risultato della dichiarazione dei redditi, il giudice remittente ritiene non manifestamente infondata la questione.
Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 27 e n. 29, prima serie speciale, rispettivamente del 4 e del 18 luglio 1990.
In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, formulando conclusioni analoghe a quelle sub 1.
Considerato in diritto
1. - Le questioni sollevate dalle tre ordinanze in epigrafe, avendo per oggetto la stessa norma ordinaria e per riferimento gli stessi parametri costituzionali, vanno riunite e decise con un'unica sentenza.
2. - L'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto- legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, viene denunciato per contrasto con gli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione, perché, facendo carico al giudice di determinare quando sia da considerarsi rilevante l'alterazione del risultato della dichiarazione dei redditi conseguente alla dissimulazione di componenti positivi o alla simulazione di componenti negativi del reddito, violerebbe, da un lato, il principio di "legalità", basilare in materia penale sotto il profilo della carenza di "tassatività", e, dall'altro lato, il principio di "uguaglianza", a causa dell'inevitabile disparità di apprezzamento da giudice a giudice.
Va subito ricordato in proposito che con la sentenza n.247 del 1989 questa Corte aveva ritenuto di poter escludere l'esistenza di un'eccessiva indeterminatezza del requisito della "rilevanza" nell'alterazione della dichiarazione dei redditi e, quindi, l'esistenza di un contrasto fra l'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, e gli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione, muovendo dalla premessa che, per l'integrazione della fattispecie in questione, "il disvalore della condotta e dell'evento" deve essere già di per sé in grado di individuare ed esaurire il contenuto offensivo del fatto, così da rendere estranea a tale disvalore la "misura rilevante" dell'alterazione, che "indica, invero, il 'peso' del carico offensivo del delitto ma non entra, non fa parte della qualità offensiva del delitto stesso".
La Corte, peraltro, non nascondendosi che la norma impugnata potesse prestarsi ad applicazioni contrarie alla Costituzione, si era preoccupata di esplicitare ulteriormente i termini dell'interpretazione capace di conferire "alla condotta ed all'intera fattispecie tipica del delitto in esame il più alto grado possibile di conformità al fondamentale principio di uguaglianza" e "di dare all'intera fattispecie una chiara, netta significazione", di modo che, "in presenza d'un completo significato offensivo tipico del fatto", la "misura rilevante", "pur facendo parte della fattispecie in senso ampio", risulterebbe "estranea alla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto in senso stretto, limitandosi a connotare soltanto la gravità dell'intera fattispecie" delittuosa. In tale ottica veniva, anzitutto, precisato come le modalità tipiche della condotta (dissimulazione di componenti positivi o simulazione di componenti negativi del reddito) assumessero "compiuto significato dal confronto con le altre ipotesi di frode fiscale, di cui all'art. 4, comma 1, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, e con le ipotesi contravvenzionali, previste dall'art. 1, comma 2, dello stesso decreto-legge". Se ne traeva la conseguenza che, per integrare il delitto di cui alla norma impugnata, "non è sufficiente una condotta consistente nel solo omettere la dichiarazione di componenti positivi del reddito e (o) la sola dichiarazione della sussistenza di componenti negativi dello stesso reddito bensì è indispensabile che la condotta in esame si esprima in forme 'corrispondenti' a quelle necessarie per integrare le diverse ipotesi di frode fiscale", di cui ai numeri da 1 a 6 dello stesso primo comma dell'art. 4, e, cioè, "in forme oggettivamente artificiose, fraudolente". Non senza aggiungere che "Per esigenze di corrispondenza simmetrica con la 'dissimulazione' anche la 'simulazione', prevista dal delitto in esame, non può essere realizzata attraverso una semplice, mendace indicazione di componenti negativi del reddito"; simulazione, peraltro, "neppur concepibile senza un supporto documentale contrario alla realtà".
3. - Così intesa, la norma impugnata avrebbe potuto rimanere nel sistema senza recare lesione ai parametri costituzionali invocati.
L'esperienza immediatamente seguita ha, tuttavia, dimostrato che, salvo qualche sporadica eccezione, la giurisprudenza della magistratura ordinaria, or ora culminata nell'intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 6 luglio-23 ottobre 1990, n. 13954), ha ritenuto di doversi discostare dall'anzidetta interpretazione.
Ne discende che l'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, ha continuato a vivere nella realtà concreta in modi incompatibili con gli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione, come diffusamente spiegato nella ricordata sentenza n. 247 del 1989.
4. - Nel frattempo, con l'art. 6 del decreto-legge 14 gennaio 1991, n. 7, è stato sostituito l'intero art. 4 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, così che ne è risultata modificata anche la stessa disciplina oggetto di censura, come chiaramente si ricava dalla lettera f) del primo comma del nuovo testo. Poiché l'art. 7 del decreto-legge 14 gennaio 1991, n. 7, non contempla l'efficacia retroattiva della disciplina di cui all'art. 6 e, quindi, non deroga, in proposito, all'art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, l'abrogazione della norma impugnata non comporta la restituzione degli atti ai giudici remittenti per una nuova valutazione della rilevanza. Non si può, tuttavia, non osservare che il nuovo testo dell'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito nella legge 7 agosto 1982, n. 516 - sono parole della stessa Relazione al disegno di conversione - "si muove nella linea che può cogliersi nella pronuncia della Corte costituzionale" (appunto, la sentenza n. 247 del 1989).
5. - Alla stregua dei precedenti rilievi questa Corte non può esimersi dal riconoscere la violazione dei parametri costituzionali lamentata dai giudici a quibus e, quindi, dal dichiarare illegittimo l'abrogato art. 4, primo comma, n. 7, del decreto- legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, nella parte in cui non prevede che le condotte di dissimulazione di componenti positivi o di simulazione di componenti negativi del reddito debbano concretarsi, non bastando il semplice mendacio, in forme artificiose, "corrispondenti" a quelle necessarie per integrare le altre ipotesi di frode fiscale configurate nei precedenti numeri dello stesso comma.
Ne consegue che la norma in esame potrà trovare ancora applicazione rispetto a quelle condotte, antecedenti alla sua abrogazione, che si siano concretate in dichiarazioni infedeli, poste in essere attraverso un'attività ingannatoria di supporto, mentre ricadranno nell'ambito di operatività dell'art. 1, secondo comma, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, le condotte che, pur concretandosi in dichiarazioni per un ammontare inferiore a quello effettivo, si siano estrinsecate con modalità tali da integrare esclusivamente una o più tra le fattispecie contravvenzionali ivi previste.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, con modificazioni, nella parte in cui non prevede che la dissimulazione di componenti positivi o la simulazione di componenti negativi del reddito debba concretarsi in forme artificiose.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 gennaio 1991.
Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.
Depositata in cancelleria il 28 gennaio 1991.