Sentenza n.90 del 1984

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SENTENZA N. 90

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Antonino DE STEFANO,Presidente

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile promosso con ordinanza emessa il 7 aprile 1977 dal pretore di Roma tra Bartolini Sergio e l'ENEL, iscritta al n. 398 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 286 dell'anno 1977; visto l'atto di costituzione dell'ENEL nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 gennaio 1984 il Giudice relatore Livio Paladin;

uditi l'avv. Antonino Cataudella per l'ENEL e l'Avvocato generale dello Stato Ivo Bragaglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nella causa civile di lavoro fra Sergio Bartolini e l'ENEL, vertente sulla legittimità del recesso dal rapporto di lavoro attuato dall'ente, per l'impedimento all'esecuzione della prestazione lavorativa conseguente all'arresto del ricorrente e al protrarsi del suo stato di carcerazione preventiva, il Pretore di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 2110 cod. civ., "nella parte in cui esclude, in caso di carcerazione preventiva del lavoratore, la sospensione del rapporto di lavoro subordinato fino alla sentenza definitiva".

Secondo l'ordinanza di rimessione - datata 7 aprile 1977 - la norma impugnata determinerebbe un privilegio per "le esigenze della produzione", giustificando in sostanza "un licenziamento nell'interesse dell'impresa": il che, tuttavia, contrasterebbe tanto con il secondo comma dell'art. 27 Cost. (per cui " l'imputato non é considerato colpevole sino alla condanna definitiva"), quanto con il principio costituzionale di eguaglianza. Da un lato, infatti, la richiamata presunzione di non colpevolezza avrebbe "il carattere della polivalenza e della assolutezza e universalità di direzione", proiettandosi pertanto "anche all'interno dell'organizzazione di impresa";

sicché non si potrebbe "attribuire effetti risolutori sul rapporto di lavoro al mero fatto della carcerazione preventiva", senza eccedere i limiti e le finalità di questa. D'altro lato, essendo stato introdotto nel settore del pubblico impiego "il principio della sospensione del rapporto in caso di carcerazione preventiva del dipendente", il difforme trattamento del lavoro privato non sarebbe sorretto da "ragionevoli e idonei motivi".

2. - Dinanzi alla Corte si é costituito l'ENEL chiedendo che la questione venga dichiarata " inammissibile, poiché irrilevante, o comunque infondata".

Nel primo senso, si afferma che "la mancata previsione della carcerazione quale ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro poteva considerarsi influente à solo dopo che si fosse accertata l'esistenza, nella specie in esame, dei presupposti indispensabili per legittimare" - secondo lo stesso Pretore - "il recesso del datore di lavoro"; mentre di un tale accertamento non vi sarebbe traccia nell'ordinanza di rimessione.

Nel secondo senso, la difesa dell'ENEL osserva anzitutto che nel giudizio a quo "non si discute di un recesso motivato dalla presunzione che il dipendente sia colpevole dei reati imputatigli bensì di un recesso giustificato dall'impossibilità nella quale il dipendente si é trovato, di fornire la prestazione di lavoro". Né sarebbe sostenibile che l'imputato debba rimanere immune, sino alla sentenza definitiva di condanna, da ogni conseguenza pregiudizievole del procedimento penale in corso.

D'altronde, non ci si potrebbe limitare al raffronto tra specifici aspetti del rapporto di pubblico impiego e del rapporto di lavoro privato, senza considerare il contesto in cui tali aspetti si inseriscono. Al contrario, andrebbero tenute presenti sia le " maggiori garanzie di stabilità", caratterizzanti l'impiego pubblico, sia lo spazio che spetta all'autonomia individuale e collettiva nella disciplina dell'impiego privato.

3. - Argomentazioni e conclusioni analoghe sono state proposte dall'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri.

Anche l'Avvocatura dello Stato premette che la questione sarebbe inammissibile "per manifesta irrilevanza", non avendo il Pretore accertato se il recesso dell'ENEL non fosse comunque illecito in vista dell'art. 1464 cod. civ., vale a dire in difetto d'una impossibilità sopravvenuta della prestazione, che abbia determinato il venir meno di "un interesse apprezzabile all'adempimento parziale". Nel merito, l'atto di intervento esclude la pertinenza del richiamo al secondo comma dell'art. 27 Cost., dato che l'arresto del lavoratore - secondo la giurisprudenza della Cassazione - non verrebbe in considerazione " di per sé, ma come causa della forzata interruzione della prestazione di opera". Quanto poi alla pretesa disparità di trattamento fra dipendenti pubblici e privati, le due situazioni così messe a confronto sarebbero "ben diverse", sia per la loro "genesi" che per la loro "struttura" e "funzione". In particolar modo, la sospensione cautelare obbligatoria del pubblico impiegato sottoposto a carcerazione preventiva risponderebbe "allo scopo di evitare che egli continui a prestare servizio" in danno del prestigio dell'amministrazione (oltre che per impedire la perpetrazione di reati e l'inquinamento delle prove a carico); e la differenziazione giocherebbe, se mai, a favore del lavoratore privato, dal momento che questi non verrebbe sospeso di diritto.

Considerato in diritto

1. - Sia l'Avvocatura dello Stato sia l'ENEL, costituitosi dinanzi alla Corte in quanto convenuto nel giudizio a quo, hanno eccepito l'inammissibilità dell'impugnazione proposta dal Pretore di Roma, argomentando - in sostanza - che la questione sarebbe stata sollevata prematuramente, quando essa presentava una rilevanza soltanto eventuale. Anziché impugnare in modo immediato l'art. 2110, secondo comma, cod. civ. - "nella parte in cui esclude, in caso di carcerazione preventiva del lavoratore, la sospensione del rapporto di lavoro subordinato fino alla sentenza definitiva" - il Pretore avrebbe dovuto accertare se nella specie ricorressero o meno le condizioni indispensabili a legittimare il licenziamento del lavoratore arrestato, secondo il vigente diritto del lavoro; per poi rivolgersi a questa Corte, ma nel solo caso che ne fosse risultata la validità del recesso in esame, alla stregua dei criteri fissati dalla giurisprudenza della Cassazione.

L'eccezione é infondata. Il giudice a quo non ignora ma anzi ricorda espressamente, nella prima parte dell'ordinanza di rimessione, "che nella situazione posta a base del recesso é configurabile un'ipotesi di impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione ex art. 1464 cod. civ. la cui incidenza si manifesta con la sospensione del rapporto di lavoro che resta in posizione di quiescenza sino a quando, in relazione alla durata della carcerazione, all'importanza delle mansioni del lavoratore e ai caratteri dell'organizzazione di impresa, non sia venuto meno l'interesse del datore di lavoro al mantenimento del vincolo contrattuale"; e ciò, precisamente, sulla base dell'interpretazione che in materia era accolta dalla Corte suprema, alla data dell'atto introduttivo del presente giudizio. Tale interpretazione, tuttavia, é radicalmente contestata dal Pretore di Roma, con l'assunto che essa troncherebbe il problema, privilegiando le esigenze dell'impresa rispetto a quelle del lavoratore interessato. Ed é appunto per non essere tenuto ad effettuare gli accertamenti prescritti dalla Cassazione, che il Pretore ha sollevato la detta questione di legittimità costituzionale: l'accoglimento della quale sarebbe in tanto rilevante nel giudizio a quo, in quanto consentirebbe a quel giudice di annullare il licenziamento intimato dall'ENEL - secondo la richiesta primariamente avanzata dal lavoratore ricorrente - senza dover operare alcuna ulteriore verifica.

2. - Per stabilire la sorte del rapporto di lavoro in seguito all'arresto del lavoratore - sorte che non é mai stata considerata ex professo dal legislatore - la giurisprudenza ha fatto, volta per volta, ricorso a varie norme riferite o riferibili al rapporto stesso, desumendole sia dal Codice civile che da fonti successive.

In un primo tempo, la Cassazione aveva ritenuto che l'arresto e la conseguente detenzione andassero inquadrati fra le cause d'impossibilità sopravvenuta della prestazione atte a risolvere il rapporto ipso iure, indipendentemente da ogni manifestazione di recesso ad opera del datore di lavoro: in applicazione del primo comma dell'art. 1256 cod. civ., per cui "l'obbligazione si estingue, quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile". Ma questo orientamento aveva subito autorevoli critiche in dottrina, per non aver cercato di distinguere fra l'impossibilità definitiva di cui al primo comma e l'impossibilità temporanea di cui al capoverso dell'art. 1256; e non era stato, comunque, portato alle sue estreme conseguenze, poiché l'estinzione veniva collegata alle sole interruzioni del rapporto che si protraessero oltre i limiti di normale tollerabilità. In un secondo tempo, perciò, la stessa Cassazione ha rettificato la propria giurisprudenza, nello sforzo di bilanciare gli interessi del lavoratore e del datore di lavoro: dapprima applicando in materia l'art. 1464 cod. civ. nei termini ricordati dall'ordinanza di rimessione; e quindi rifacendosi - come si é verificato negli anni più recenti - all'art. 3, seconda parte, della legge 15 luglio 1966, n. 604, in tema di "licenziamento per giustificato motivo à determinato à da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa".

Per contro, il Pretore di Roma é dell'avviso che nessun bilanciamento del genere debba essere effettuato dai giudici di merito: dal momento che l'unica soluzione costituzionalmente legittima consisterebbe nel privilegiare in modo assoluto gli interessi del lavoratore, precludendo l'estinzione del rapporto sino all'eventuale condanna definitiva (o sino a quando la carcerazione preventiva non fosse venuta altrimenti a cessare). In altri termini, il Pretore richiede alla Corte di garantire comunque ai lavoratori interessati la conservazione del posto di lavoro, introducendo nell'ordinamento un nuovo caso di sospensione del rapporto, ben diverso per natura e per effetti da quelli considerati nell'art. 2110 cod. civ.. Ed effettivamente in questo articolo vengono previste le sole ipotesi "d'infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio", consentendo anche a fronte di esse che l'imprenditore addivenga al recesso, una volta decorso il cosiddetto periodo di comporlo, "stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità"; mentre nell'ipotesi in discussione si tratterebbe di escludere del tutto il potere di recesso, finché non sia cessata quella causa di temporanea o parziale impossibilità della prestazione di lavoro.

Non senza ragione, perciò, l'ordinanza di rimessione noli indica a sostegno della prospettata pronuncia di accoglimento additivo nessun disposto o principio desunto dal diritto privalo in generale o dal diritto del lavoro in ispecie. Al di là del Codice civile e delle "norme sui licenziamenti individuali", l'ordinanza fa invece riferimento, da un lato, alla disciplina concernente il rapporto di pubblico impiego, con particolare riguardo agli artt. 85 e 91 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (contenente lo statuto degli impiegati civili dello Stato), per argomentarne che il diverso trattamento del rapporto di lavoro privato determinerebbe una violazione del principio generale d'eguaglianza; e, d'altro lato, assume che la mancata conservazione del posto a beneficio del lavoratore arrestato contrasterebbe senz'altro con il parametro costituzionale dell'art. 27, secondo comma, per cui "l'imputato non é considerato colpevole sino alla condanna definitiva".

3. - Sotto entrambi gli aspetti, però, la proposta questione non é fondata.

Anzitutto, é ben vero che questa Corte ha dato atto - nella sentenza n. 118 del 1976 (e in altre decisioni precedenti) - della "tendenziale convergenza tra lo stato giuridico del lavoratore privato e quello del lavoratore pubblico, che va realizzandosi mediante una osmosi tra le due discipline". Ma la Corte stessa ha contestualmente sottolineato "le innegabili differenze che tuttora intercorrono tra impiego privato ed impiego pubblico, per la diversa genesi, per la diversa struttura, per la diversa funzione"; ed é appunto in vista di siffatte differenze che l'art. 91, primo comma, del citato D.P.R. n. 3 del 1957 (come pure l'art. 249, primo comma, della legge comunale e provinciale del 1934, anch'essa ricordata dal giudice a quo), dispone la "sospensione cautelare obbligatoria" dell'impiegato sottoposto a procedimento penale, a carico del quale venga " emesso mandato od ordine di cattura". Come ha giustamente ricordato l'Avvocatura dello Stato, la sospensione prevista in tal caso non ha di mira la conservazione del posto già ricoperto dal dipendente sospeso, bensì la tutela degli interessi della pubblica amministrazione, con particolare riguardo alla regolarità del servizio ed al prestigio dello Stato - apparato: tanto é vero che la sospensione stessa va disposta in modo immediato e che lo stipendio si converte senz'altro in un ridotto "assegno alimentare" (cfr. l'art. 82 D.P.R. cit.), mentre la destituzione non dipende neppure - in varie ipotesi - da una condanna passata in giudicato ma da un successivo procedimento disciplinare.

Sia nel primo che nel secondo senso, le vicende del rapporto di pubblico impiego sono dunque dissimili da ciò che si verifica per il rapporto di lavoro privato, la sospensione del quale non é affatto dovuta ad alcun particolare effetto, mentre la risoluzione di esso richiede che l'assenza del lavoratore arrestato si protragga a tal punto da costituire un giustificato motivo di licenziamento. E ciò conferma che le situazioni e le discipline messe a raffronto dal giudice a quo non sono omogenee, sicché non sussiste la denunciata violazione del principio generale di uguaglianza.

Inoltre, anche la presunzione di non colpevolezza dell'imputato viene impropriamente richiamata dal giudice a quo. Indipendentemente dal problema se l'art. 27, secondo comma, della Costituzione sia caratterizzato dalla "polivalenza" che il Pretore di Roma pone a base del suo ragionamento, sta di fatto che "nel caso di specie la carcerazione preventiva é stata disposta con riferimento alla imputazione di un illecito estraneo al rapporto e ai doveri verso il datore di lavoro"(come ricorda espressamente l'ordinanza di rimessione). In tali circostanze, l'eventuale licenziamento non implica nessun anticipato giudizio sulla colpevolezza del lavoratore arrestato, ma presuppone soltanto che sussistano - secondo la più recente giurisprudenza della Cassazione - le obiettive ragioni di giustificazione del recesso, indicate dall'art. 3, seconda parte, della legge n. 604 del 1966.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile - "nella parte in cui esclude, in caso di carcerazione preventiva del lavoratore, la sospensione del rapporto di lavoro subordinato fino alla sentenza definitiva" - sollevata dal Pretore di Roma, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 aprile 1984.

 

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE  -Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  -Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

 

Depositata in cancelleria il 5 aprile 1984.