SENTENZA N. 313
ANNO 1983
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA, Presidente
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, primo, secondo e terzo comma, 13, nn. 1 e 2, lett. a, 15, secondo comma, lett. a, ottavo e nono comma, 21, 22, 23, 25, ultimo comma, e 26, primo comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319 (Tutela delle acque dall'inquinamento) promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1976 dal pretore di Padova nel procedimento penale a Carico di Greggio Rino ed altri, iscritta al n. 602 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 288 del 1976;
visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell'11 maggio 1983 il Giudice relatore Oronzo Reale.
Ritenuto in fatto
In un procedimento penale a carico di Rino Greggio ed altri - imputati dei reati di cui agli artt. 440 e 452 (per adulterazione colposa di acque destinate all'alimentazione), 635, comma secondo, n. 3 (per deterioramento di acque destinate a pubblica utilità) e 650 (per inosservanza di provvedimenti dell'autorità) del codice penale, nonché di numerose contravvenzioni a disposizioni del t.u. delle leggi di P.S. (art. 58 r.d. 1931 n. 773: conservazione non autorizzata di gas tossici), del t.u. sulla pesca (artt. 6, 9, 33, 36 r.d. 1931 n. 1604: riversamento in acque pubbliche di materie nocive alla fauna ittica), del t.u. delle leggi sanitarie (art. 226 r.d. 1934 n. 1265; scarico di acque industriali inquinate) e del regolamento di bonificazione delle paludi (art. 133 r.d. 1904 n. 368), con riguardo a fatti commessi fino al marzo 1975 - il pretore di Padova, con ordinanza in data 22 giugno 1976, ha sollevato, ritenendole rilevanti al fine del decidere e non manifestamente infondate, questioni di legittimità costituzionale di varie norme (artt. 3, commi primo, secondo e terzo; 13, nn. 1 e 2 lett. a; 15, commi secondo, lett. a, ottavo e nono; 21; 22; 23; 25 u.c.; 26, primo comma) della legge 10 maggio 1976, n. 319, intitolata alla "tutela delle acque dall'inquinamento".
Il complesso delle disposizioni denunciate - attraverso l'abrogazione (art. 26) o la limitazione (art. 25) del precedente sistema sanzionatorio (direttamente od indirettamente) riferibile alla materia degli scarichi inquinanti; l'insufficiente previsione di nuove ipotesi incriminatrici (artt. 21, 22, 23); la introduzione di un sistema autorizzatorio (anche in forma tacita) degli scarichi in atto (art. 15); la fissazione di termini assai ampi per l'adeguamento di detti scarichi a limiti di accettabilità (art. 13), per di più stabiliti con riferimento a valori obiettivamente inadeguati a proteggere la qualità delle acque; la previsione inoltre della mera "facoltà" di allineamento di tali valori a quelli più restrittivi stabiliti dalla CEE ed infine di lunghi termini per l'adeguamento dei limiti stessi alle indicazioni emergenti dalle nuove acquisizioni scientifiche (art. 3) - avrebbe, infatti, ad avviso del pretore, "preparato un massiccio deterioramento ambientale ed una vera e propria dissipazione delle risorse idriche", così di conseguenza compromettendo la pubblica salute.
Da ciò la richiesta di verifica di legittimità delle disposizioni suelencate con riferimento, in primo luogo, al comune parametro dell'art. 32 della Costituzione che, appunto, "tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività".
Ed al riguardo il pretore non ha mancato di farsi carico della possibile obiezione secondo cui, fermo restando il principio di tutela della salute, dovrebbe comunque riconoscersi che spetta al legislatore, con valutazione discrezionale e come tale insindacabile, determinare la misura ed i criteri per l'attuazione di tale tutela.
Ma a ciò ha replicato che l'obiezione non regge quando, come nella specie, si abbia di fronte "non già una normativa che riconosca modi e tempi di una tutela, anche se ridotta, della sanità pubblica, bensì un sistema che abolisce pressoché integralmente la protezione di questo bene costituzionalmente garantito".
Confliggerebbe, in particolare, con l'art. 32 - oltreché, solo nel dispositivo dell'ordinanza, con gli artt. 3 e 11, secondo inciso - della Costituzione, la disposizione di cui all'art. 26 l. n. 319/1976 citata. La quale, stabilendo (comma primo, secondo inciso) che "Sono pertanto abrogate tutte le altre norme che direttamente od indirettamente disciplinano la materia degli scarichi in acque, sul suolo o nel sottosuolo e del conseguente inquinamento" (mentre "restano in vigore le disposizioni del codice penale in materia di delitti contro la vita, l'incolumità personale e pubblica": comma secondo), espungerebbe in pratica dall'ordinamento, tra le altre, disposizioni - quali quelle contenute nel t.u. delle leggi sanitarie - ispirate ad esigenze elementari di protezione della salute pubblica (ad es. attraverso il divieto di immissione di scarichi non depurati in acque inservienti all'uso alimentare o domestico), ovvero dettate da altri interessi, come quello della salvaguardia della fauna ittica (t.u. delle leggi sulla pesca), o della protezione dei canali di bonifica (art. 133, lett. f, r.d. 8 maggio 1904, n. 368), ma, pur sempre, mediatamente garanti della qualità delle acque e della sanità dei cittadini: e ciò senza prevedere sanzioni sostitutive per i corrispondenti attentati al bene collettivo della salute.
L'art. 32 della Costituzione sarebbe nel contempo parimenti violato dall'art. 25, u.c., della detta legge n. 319/1976, in quanto questo limiterebbe gravemente la punibilità dei fatti di inquinamento - ai quali risultino applicabili norme del codice penale non rientranti nella previsione abrogativa dell'art. 26 - escludendola nell'ipotesi di scarico autorizzato (anche tacitamente) che inoltre non violi le previsioni delle amministrazioni locali.
In pratica tale disposizione verrebbe a sottrarre a qualunque sanzione fatti - nei quali siano riconoscibili gli estremi oggettivi del delitto di danneggiamento, o di avvelenamento o adulterazione di acque destinate all'alimentazione, ovvero di lesioni o di omicidio colposi - per la sola considerazione, estrinseca, dell'avvenuto rilascio della autorizzazione e della osservanza delle prescrizioni locali: così fondando una presunzione assoluta di buona fede dell'imputato, che potrebbe non avere riscontro nella realtà.
Il che induce il giudice a quo ad ipotizzare la contestuale violazione dell'art. 101 della Costituzione: poiché - per effetto sempre della disposizione impugnata - sarebbe sottratta al potere di accertamento del giudice una serie indeterminabile di attentati, in ipotesi gravissimi, contro la persona, in conseguenza di provvedimenti della P.A..
E perché anche al di fuori di tale evenienza sarebbe, comunque, al giudice "precluso il sindacato di legittimità dell'atto amministrativo (prescrizione dell'autorità locale), che forma il presupposto della valutazione penale della condotta del privato", una volta che "il provvedimento, anche se illegittimo, imporrebbe all'a.g. una declaratoria di non punibilità".
Non diversamente dalle esaminate disposizioni di contenuto abrogativo contrasterebbero con l'art. 32 della Costituzione anche le altre norme della l. n. 319 recanti la nuova disciplina della materia: tra le quali, in particolare, quelle contenute negli artt. 13, nn. 1 e 2 lett. a), 15 comma secondo lett. a e 15, commi ottavo e nono, si troverebbero contemporaneamente a confliggere anche con il precetto costituzionale dell'eguaglianza.
Con riguardo agli scarichi degli insediamenti produttivi (la materia degli scarichi da insediamenti civili non attiene infatti al procedimento penale pendente innanzi al pretore di Padova) dispone l'art. 13 della legge 319 cit. (ai nn. 1 e 2, lett. a) che, ove trattisi di insediamenti esistenti, i relativi scarichi "dovranno essere adeguati entro tre anni dalla entrata in vigore della legge ai limiti di accettabilità" di cui all'allegate tabelle A e C (secondo che abbiano recapito in corsi d'acqua superficiali ovvero in pubbliche fognature).
Ed aggiunge l'art. 15 sempre per i detti insediamenti produttivi esistenti che (entro 2 mesi dalla entrata in vigore della legge) deve essere fatta domanda di "autorizzazione allo scarico" (comma secondo, lett. a); che prima dell'autorizzazione definitiva "viene rilasciata dall'autorità competente un'autorizzazione provvisoria", sulla quale deve essere previsto l'allineamento progressivo ai valori tabellari (comma ottavo); che l'"autorizzazione provvisoria si intende concessa se non é rifiutata entro sei mesi dalla data di presentazione della relativa domanda" (comma nono).
Orbene la ragione del sospetto di illegittimità di tali disposizioni, con riguardo ai due parametri costituzionali su indicati, sarebbe appunto duplice.
Per un verso, infatti, la qualità delle acque e la pubblica salute verrebbero compromesse dal lungo termine concesso per l'adeguamento ai valori tabellari degli scarichi delle imprese già operanti, e dal sistema dell'autorizzazione provvisoria allo scarico che nella previsione del pretore assumerà per molto tempo la forma normale dell'autorizzazione tacita non essendo possibile (nel sistema stesso della legge che "pone per ciò da se stessa le premesse per risultare inoperante") l'acquisizione da parte delle autorità competenti degli elementi e dati tecnici necessari in ordine alla concessione od al diniego del provvedimento.
E, per altro verso, verrebbe a crearsi una situazione di irrazionale disparità di trattamento tra insediamenti futuri ed attuali in danno dei primi, essendo questi tenuti a differenza dei secondi all'immediata osservanza dei limiti di accettabilità ed alla richiesta ed ottenimento dell'autorizzazione, sempre esplicite, previamente alla apertura di nuovi scarichi (argomentando ex artt. 21 e 23 che sanzionano il contrario comportamento).
Laddove il principio di eguaglianza non potrebbe, ad avviso del pretore, essere ristabilito altrimenti che attraverso il riconoscimento della soggezione delle imprese già operanti agli stessi obblighi imposti nei confronti di quelle future. Soltanto così potendo risultare "rispettati pari grado, l'art. 3, comma primo, e l'art. 32 Costituzione, in relazione al criterio che l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale né, a maggior ragione, con il fondamentale interesse sociale alla salute".
La delibazione della questione di costituzionalità delle disposizioni sin qui esaminate non potrebbe, d'altra parte, sempre secondo il giudice a quo, prescindere dalla considerazione:
a) dello scarso fondamento scientifico del criterio nella specie adottato, di fissare valori limiti di tollerabilità non in relazione direttamente alle acque, sibbene agli scarichi, e in maniera uniforme per tutto il territorio nazionale, trascurando dati decisivi come quelli inerenti alla portata dello scarico stesso , alla sua periodicità e prossimità ad immissioni analoghe, nonché alle caratteristiche del corso d'acqua ricettore;
b) della più accentuata permissività dei valori indicati nella legge in questione rispetto a quelli stabiliti da precedenti circolari ministeriali come la n. 166 del 2 ottobre 1971 e la n. 105 del 2 luglio 1973 (risultando la tolleranza di alcune sostanze inquinanti, attualmente anche di 20 volte superiore a quella precedentemente ammessa);
c) dalla più che probabile incompatibilità dei detti valori previsti dalla l. n. 319 con quelli imperativi indicati dalla CEE nel documento ENV/107/731.
I quali ultimi, pur inerendo alla qualità delle acque e non essendo a rigore direttamente confrontabili con i dati delle tabelle in esame attinenti ( come detto) alle caratteristiche degli scarichi, denotano una evidente maggiore severità di valutazione.
E tali considerazioni, mentre avallerebbero il sospetto di incostituzionalità dei su citati artt. 13 e 15 l. n. 319/76 anche in relazione all'art. 11, secondo inciso, della Costituzione, autorizzerebbero il dubbio altresì di illegittimità, per contrasto con gli artt. 32 e 11 della Costituzione, dell'art. 3 della legge suddetta, quanto al comma terzo, "per la parte in cui faculta - e non obbliga - il competente Comitato dei Ministri ad adeguare i valori dei limiti di accettabilità degli scarichi di cui alle tabelle A e C a quelli corrispondenti, definiti dalle apposite direttive della Comunità Economica Europea, qualora questi ultimi risultino più restrittivi"; e, quanto ai commi primo e secondo "per la parte in cui esclude che i limiti della tab. A possano essere adeguati alle nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche, prima di otto anni dall'entrata in vigore della legge; e, inoltre esclude che eventuali ulteriori modifiche possano essere apportate, se non a intervalli di tempo superiori ai quattro anni".
Infine, con riguardo alle norme sanzionatorie contenute nella legge impugnata, formula il pretore un'ultima ipotesi di illegittimità che investe in particolare gli artt. 21,22 e 23, per la parte in cui - comminando sanzioni per l'omissione della richiesta di autorizzazione, per la mancata concessione o per il diniego o la revoca della medesima, o per la inosservanza delle prescrizioni relative - non prevedono invece alcuna pena autonoma per il superamento dei sia pur generosi limiti di accettabilità previsti dalle tabelle allegate, lasciando così impuniti proprio gli attentati più gravi per la pubblica salute. Il che contrasterebbe con l'art. 11, secondo inciso, oltreché con l'art. 32 della Costituzione.
Nel giudizio innanzi alla Corte é intervenuto, per il tramite dell'Avvocatura Generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri che ha concluso per la piena legittimità di tutte le norme impugnate.
Infondate innanzitutto, sarebbero, secondo l'Avvocatura, le questioni sub art. 26 ("non avendo senso sul piano della legittimità costituzionale una constatazione, non interessa quanto fondata anche sul piano politico, secondo la quale la precedente disciplina appariva migliore") e sub art. 25 l. n. 319/1976 (dacché "non par dubbio che il giudice possa sindacare l'atto autorizzativo, disapplicando in caso di ritenuta illegittimità e condannare il pubblico funzionario ed il privato per il concorso nella commissione di reati non giustificati da autorizzazione legittima").
Del pari destituita di fondamento sarebbe l'altra questione sub art. 13 legge cit., sia in riferimento all'art. 3 della Costituzione (sussistendo obiettiva diversità di situazioni tra insediamenti esistenti ed insediamenti nuovi ed apparendo ragionevole che il legislatore abbia concesso ai titolari dei primi un margine di tempo entro cui adeguarsi alla nuova disciplina), sia in riferimento all'art. 32 della Costituzione (non potendosi disconoscere la tendenza della norma in questione alla tutela della salute anche se entro certi termini di tempo per il contemperamento di interessi contrastanti) sia, infine, in riferimento all'art. 11, secondo inciso, della Costituzione (poiché, a prescindere da ogni valutazione sulla rilevanza nell'ordinamento giuridico italiano del documento CEE richiamato dal pretore, non se ne comprenderebbe comunque l'attinenza all'obiettivo della pace e giustizia fra le Nazioni, cui ha riguardo l'art. 11).
Ai formulati rilievi di illegittimità si sottrarrebbe, poi, anche l'art. 15 della legge, sia quanto alla concessione del termine per la richiesta di autorizzazione accordato agli insediamenti esistenti (comma secondo, lett. a), "essendo nella prassi normale che il legislatore dia al cittadino un termine ragionevole entro il quale orientarsi per predisporre le determinazioni che gli competono"; sia quanto alla previsione dell'autorizzazione provvisoria anche tacita (commi ottavo e nono) che traduce "la prevalenza di certi interessi rispetto ad altri che il legislatore ha posto a raffronto con risultati non irrazionali".
Analogamente infondate sarebbero le questioni sub art. 3 legge cit.
Quanto al comma terzo, perché il termine (può) ivi adoperato intenderebbe "richiamare l'attenzione dell'operatore del diritto sul fatto che la disciplina della materia può essere attuata anche al di fuori della procedura legislativa" e non già significare che il Comitato possa intervenire a suo criterio.
Quanto ai commi primo e secondo, poiché nulla vieterebbe al legislatore ordinario di intervenire sulla materia più sollecitamente qualora se ne presenti la necessità, "mentre appare ragionevole il fatto che egli abbia vincolato all'osservanza di certi termini il Comitato dei Ministri, al fine di evitare il rischio di ricorrenti modifiche della normativa, che potrebbero risolversi in danni di non scarso conto sugli interessi economici, non meno meritevoli di attuazione".
Completamente destituita di fondamento sarebbe infine anche l'ultima sollevata questione sub artt. 21, 22, 23 legge cit., dacché - "a prescindere dal fatto che con essa si prospetta un problema di politica legislativa sul piano della critica ad una pretesa mancata previsione di fattispecie che dovrebbe, ad avviso del pretore, essere penalmente sanzionata" - non apparirebbe neppure esatta l'affermazione secondo la quale non sarebbe prevista alcuna pena autonoma per il superamento dei limiti di accettabilità indicati nelle tabelle allegate. Atteso che l'art. 22 della legge in esame prevederebbe, invece, la fattispecie criminosa costituita, appunto, della condotta di colui che effettui o mantenga uno scarico senza osservare le prescrizioni indicate nel provvedimento di autorizzazione.
Considerato in diritto
1. - Il pretore di Padova, con decreto di citazione 17 marzo 1976, aveva tratto in giudizio innanzi a sé Greggio Rino, Olivato Rina, Leggio Giuliana, Baso Loris e Fidelio Corrado imputando loro di aver violato in periodi precedenti al 13 e 20 marzo 1975 una serie di disposizioni del codice penale, del testo unico delle leggi di P.S., del testo unico delle leggi sulla pesca, del testo unico delle leggi sanitarie, del regolamento di bonificazione delle paludi.
Successivamente alla data di commissione dei fatti imputati e al decreto di citazione veniva pubblicata la legge 10 maggio 1976, n. 319 (Norme per la tutela delle acque dall'inquinamento) la quale entrava in vigore il 13 giugno dello stesso anno, e cioé nove giorni prima che il pretore di Padova emanasse l'ordinanza con la quale ha chiamato d'ufficio la Corte a pronunziarsi sulla legittimità costituzionale di tutte quelle disposizioni della legge n. 319 che sono state indicate in narrativa.
Il pretore sottopone pressoché l'intera legge a critica serratissima, nella convinzione che la disciplina con essa introdotta in sostituzione della normativa prima esistente, costituita da molteplici disposizioni sia del codice penale sia di leggi speciali - delle quali la giurisprudenza aveva fatto applicazione in materia di repressione degli inquinamenti - fosse inidonea a salvaguardare il bene costituzionalmente garantito della salute e si ponesse in contrasto con altri principi costituzionali. In realtà il pretore, avendo chiamato gli imputati a rispondere di fatti integranti la violazione di determinate disposizioni legislative vigenti anteriormente alla legge n. 319 del 1976, era venuto a trovarsi, al momento di pronunziare la sentenza, di fronte all'ostacolo di due disposizioni della legge n. 319 appena entrata in vigore: quella dell'art. 26 ("Gli scarichi di cui all'art. 1, lett. a, sono disciplinati esclusivamente dalla presente legge. Sono pertanto abrogate tutte le altre norme che, direttamente o indirettamente, disciplinano la materia degli scarichi sul suolo o nel sottosuolo e del conseguente inquinamento. Restano in vigore le disposizioni del codice penale in materia di delitti contro la vita, l'incolumità personale e pubblica"), e inoltre quella dell'art. 25, ultimo comma, ("Quando si verifichi l'osservanza delle norme e prescrizioni di cui all'art. 15, secondo comma, lett. a e lett. b, ed al presente articolo, non sono punibili i fatti connessi con l'inquinamento delle acque di cui all'art. 1, lett. a, previsti come reato da precedenti disposizioni di legge").
2. - Il primo problema che il pretore doveva risolvere in sede interpretativa consisteva dunque nello stabilire se alcune delle imputazioni sulle quali era chiamato a giudicare sopravvivessero alle disposizioni della nuova legge sopra richiamata. E il pretore lo risolve in senso negativo, traendone la conseguenza che "non appare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, comma primo, della legge, in quanto abroga le norme che disciplinano la materia degli scarichi, senza prevedere sanzioni sostitutive per i corrispondenti attentati al bene collettivo della salute (art. 32 Cost.); e, inoltre, dell'art. 25, ultimo comma, della legge stessa, in quanto limita gravemente la punibilità dei fatti di inquinamento - ai quali risultino applicabili norme del codice penale, segnatamente quelle poste a tutela della vita, della incolumità personale o pubblica - escludendola nell'ipotesi di scarico autorizzato (anche tacitamente) che, inoltre, non violi le prescrizioni delle amministrazioni locali".
La Corte é quindi chiamata a pronunziarsi innanzi tutto sulla questione di legittimità relativa ai commi degli artt. 26 e 25 della legge n. 319 soprariprodotti.
3. - Tale questione é stata recentemente affrontata dalla Corte (sent. n. 226 del 1983) che ne ha dichiarato la non fondatezza, con riferimento agli artt. 2, 3, 9 e 32 della Costituzione, allora invocati nelle ordinanze di rimessione della Corte di cassazione e del pretore di Vigevano.
Va innanzitutto precisato che il pretore di Padova ha, sì, nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione richiamato come parametri di riferimento quanto alla denuncia dell'art. 26, comma primo, della legge, gli artt. 3, comma primo, 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione, e quanto alla denuncia dell'art. 25, ultimo comma, della legge, gli artt. 32,11, secondo inciso, e 101, comma secondo, della Costituzione. Ma nella motivazione della pretesa illegittimità delle due norme di legge il solo parametro invocato per la impugnativa dell'art. 26 é l'art. 32 della Costituzione; mentre per la impugnativa dell'art. 25 della legge, insieme con l'art. 32, viene invocato anche l'art. 101 della Costituzione (non l'art. 11, secondo inciso, indicato nel dispositivo).
Pertanto la Corte deve limitarsi ad esaminare le questioni sottopostele, per quanto riguarda l'art. 26 della legge, soltanto con riferimento all'art. 32 della Costituzione, e per quanto riguarda l'art. 25, con riferimento ai soli artt. 32 e 101 della Costituzione.
Nella recente citata sentenza n. 226 del 1983 la Corte, come si é detto, in riferimento, fra l'altro, all'art. 32 della Costituzione ha dichiarato non fondate le questioni. "É ben vero - si legge nella sentenza a conclusione dell'esame della questione - che la tutela della salute implica 'la promozione e la salvaguardia della salubrità e dell'igiene dell'ambiente naturale di vita e di lavorò, come ora é chiarito dall'art. 2, primo comma, n. 5, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (sull'istituzione del servizio sanitario nazionale). Ma non si può certo affermare... che le norme impugnate, fingendo di tutelare l'ambiente, finiscano in realtà per comprometterlo".
Questo giudizio non può non essere confermato dalla Corte, non riscontrandosi nella motivazione con la quale il pretore di Padova ha denunciato la incostituzionalità degli artt. 26 e 25 della legge n. 319, con riferimento all'art. 32 della Costituzione, profili o argomentazioni che inducano a mutare avviso.
4. - Né a tale risultato può indurre il riferimento all'art. 101 della Costituzione, sommariamente fatto dal pretore a proposito dell'art. 25, ultimo comma, della legge n. 319, laddove esso prescrive che "quando si verifichi l'osservanza delle norme e prescrizioni di cui all'art. 15, secondo comma, lett. a e lett. b, ed al presente articolo, non sono punibili i fatti connessi con l'inquinamento delle acque, di cui all'art. 1, lett. a, previsti come reato da precedenti disposizioni di legge".
In sostanza, il pretore di Padova ritiene che la punibilità di un reato non possa essere subordinata alla mancata osservanza delle "mere formalità amministrative previste", senza violare l'art. 101 della Costituzione.
La questione della cosiddetta subordinazione della punibilità di reati pregressi alla inosservanza delle prescrizioni dell'art. 15 e dell'art. 25, primo comma, della legge, é stata già dichiarata priva di fondamento dalla citata sentenza n. 226 del 1983 della Corte. "Si intende - vi si legge - che il momento amministrativo é stato così privilegiato - come si é detto in dottrina - rispetto al momento repressivo, affidato ai giudici penali, ma questa scelta legislativa non può ritenersi priva di giustificazioni. Nel sindacato sulla legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 25, ultimo comma, e 26, primo comma, non devono infatti trascurarsi la considerazione del sistema normativo in cui tali disposti si inseriscono e la valutazione complessiva delle finalità che la legge n. 319 ha perseguito e tuttora persegue (malgrado i gravi ritardi verificatisi in sede attuativa)".
Ora se l'art. 25 é legge di per sé non in contrasto con gli altri parametri costituzionali richiamati, non si può invocare contro di esso - come fa il pretore di Padova - nemmeno l'art. 101 della Costituzione, perché nell'applicare l'art. 25 il giudice rimane appunto "soggetto soltanto alla legge".
Dovendo la Corte, come innanzi rilevato, limitarsi ad esaminare le questioni relative agli artt. 26 e 25 della legge con riferimento ai soli parametri richiamati nella motivazione dell'ordinanza, le osservazioni che precedono consentono di concludere per la non fondatezza delle questioni.
5. - Alla dichiarazione di non fondatezza del dubbio di illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 25 della legge n. 319 si accompagna la inammissibilità delle questioni relative agli artt. 13, nn. 1 e 2, lett. a, 3, commi primo e secondo, 15, comma secondo, lett. a, 15, commi ottavo e nono, 21, 22 e 23 della stessa legge, sollevate dal pretore di Padova con riferimento a parametri vari.
Nessuna di queste norme doveva essere applicata nel giudizio nel quale il pretore di Padova ha emanato l'ordinanza di rimessione. La violazione di esse non era stata contestata agli imputati nel decreto di citazione, né poteva essere contestata perché la legge che le conteneva non era stata ancora pubblicata. Né quelle norme stabilivano una diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, ma costituivano e costituiscono ipotesi diverse di reato. Infine i nuovi reati ipotizzati da quelle norme non avrebbero potuto ratione temporis essere stati consumati o perfezionati quando il pretore emetteva l'ordinanza di rimessione. Nella stessa ordinanza ciò é riconosciuto, laddove si legge: "In sintesi ove le questioni sollevate venissero riconosciute infondate, gli attuali imputati dovrebbero essere assolti dalle imputazioni contravvenzionali perché il fatto non é preveduto attualmente dalla legge come reato; e dalle imputazioni delittuose, perché non punibili, in base all'art. 25 ultimo comma della legge: ciò indipendentemente dalla circostanza di avere già presentato domanda di autorizzazione in quanto, a tutt'oggi, il relativo termine non é ancora scaduto". In realtà tutte le censure e le critiche, contenute nell'ordinanza, di norme della legge n. 319 diverse da quelle degli artt. 26 e 25 hanno solo il valore di ulteriori argomenti a sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale dei detti artt. 26 e 25, in quanto alle sanzioni delle leggi precedenti abrogate o dichiarate inapplicabili si sarebbe sostituito un sistema sanzionatorio inidoneo a salvaguardare il bene della salute e non rispettoso di altri precetti costituzionali.
Ma riconosciuta la legittimità degli artt. 26 e 25, il nuovo sistema sanzionatorio entrato in vigore, come si é ricordato, il 13 giugno 1976 non poteva essere applicato a fatti compiuti nel marzo 1975 e costituenti reati diversi da quelli contestati agli imputati.
6. - Del resto, conferma e ulteriori motivi di inammissibilità delle questioni ora in esame, si ricavano dalle enunciazioni annesse.
L'art. 13, nn. 1 e 2, lett. a, della legge n. 319 é impugnato "nella parte in cui concede, agli insediamenti produttivi esistenti, termini di adeguamento degli scarichi alla allegata tabella C o, rispettivamente, A, invece di prevederne la conformità immediata". Si chiede una anticipazione di operatività (del resto logicamente impossibile) della sanzione penale. La Corte, cioè, e chiamata a pronunziare un'additiva in materia penale. Il che non le é consentito.
L'art. 3, comma terzo, della legge n. 319 é impugnato nella parte in cui stabilisce che "lo stesso Comitato dei Ministri può (invece che deve) in ogni momento provvedere con decreto del Presidente della Repubblica ad adeguare i valori dei limiti di accettabilità degli scarichi di cui alle tabelle A e C della presente legge ai corrispondenti valori definiti dalle apposite direttive della Comunità Europea, qualora quest'ultimi valori risultino più restrittivi". É evidente la irrilevanza di una simile questione nel giudizio a quo; l'adeguamento previsto riguardava il preteso rispetto alla legge n. 319 entrata in vigore il 13 giugno 1976: giudicando il 22 giugno 1976 su fatti del marzo del 1975, il pretore di Padova non poteva proporsi questioni di mancato adeguamento.
Queste considerazioni sono ancora più calzanti a proposito della presunta illegittimità costituzionale dell'art. 3, commi primo e secondo, della legge n. 319, "nella parte in cui esclude che i limiti della tabella A possano essere adeguati alle nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche, prima di otto anni dall'entrata in vigore; e, inoltre, esclude che eventuali ulteriori modifiche possano essere apportate, se non ad intervalli di tempo superiori ai quattro anni". Qui c'é la conferma che il pretore di Padova nella sua contestazione totale della legge n. 319, non si é voluto porre alcun limite di rilevanza.
Ancora una conferma di ciò é evidenziata dalla censura di illegittimità dell'art. 15, comma secondo, lett. a, della legge n. 319 "nella parte in cui accorda agli insediamenti produttivi esistenti, non muniti di autorizzazione allo scarico, un termine per farne richiesta e non pretende, invece, una domanda immediata"; e dall'art. 15, commi ottavo e nono, della detta legge "nella parte in cui consente la possibilità di una autorizzazione provvisoria allo scarico indipendentemente dal rispetto attuale dei limiti indicati nella tabella C e, rispettivamente, A; e inoltre prevede che tale autorizzazione possa essere tacita, invece di sancire la necessità di un'autorizzazione espressa e subordinata alla immediata osservanza della corrispondente tabella". Si tratta di norme - entrate in vigore circa un anno e tre mesi dopo la commissione dei fatti - la cui violazione di tutta evidenza non poteva essere e non era stata contestata agli imputati; donde la loro evidentissima estraneità al giudizio del pretore. E inoltre si chiederebbe sostanzialmente, anche qui, un'anticipazione della decorrenza della sanzione, cioé, di nuovo, un'additiva in materia penale non consentita alla Corte.
Infine, il pretore denunzia la illegittimità costituzionale degli artt. 21, 22 e 23 della legge n. 319 per il fatto che - secondo la sua interpretazione - "il superamento dei limiti di accettabilità prescritti, a seconda dei casi, dalla tabella C o dalla tabella A, non é previsto come autonoma figura di reato e, di per sé, non risulta assoggettato a pena. Ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di scarico autorizzato oppure no" (punto VI della motivazione). Quindi il giudice a quo chiede di istituire un'"autonoma figura di reato" che non esisterebbe nella legge. Ancora una volta, e chiaramente, si tratta di un'additiva in materia penale non consentita alla Corte.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, comma primo, della legge 10 maggio 1976, n. 319, sollevata dal pretore di Padova, in riferimento all'art. 32 della Costituzione con l'ordinanza 22 giugno 1976 (n. 602 del reg. ord. 1976) di cui in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, ultimo comma, della stessa legge n. 319, sollevata, con la medesima ordinanza, dal pretore di Padova con riferimento agli artt. 32 e 101, comma secondo, della Costituzione;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal pretore di Padova con la citata ordinanza, dell'art. 13, nn. 1 e 2, lett. a, della stessa legge n. 319, con riferimento agli artt. 3, comma primo, 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione; dell'art. 3, comma terzo, della stessa legge, con riferimento agli artt. 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione; dell'art. 3, commi primo e secondo della stessa legge, con riferimento all'art. 32 della Costituzione; dell'art. 15, comma secondo, lett. a, della stessa legge, con riferimento agli artt. 3, comma primo e 32 della Costituzione; dell'art. 15, commi ottavo e nono della detta legge, con riferimento agli artt. 3, comma primo, 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione; degli artt. 21, 22 e 23 della detta legge, con riferimento agli artt. 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione; dell'art. 26 della detta legge con riferimento agli artt. 3, comma primo, e 11, secondo inciso, della Costituzione; dell'art. 25 della detta legge con riferimento all'art. 11, secondo inciso, della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 settembre 1983.
Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 30 settembre 1983.