SENTENZA N. 191
ANNO 1983
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Antonino DE STEFANO, Presidente
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 480 cod. civ. (Accettazione dell'eredità - Prescrizione), promosso con ordinanza emessa il 18 maggio 1976 dalla Corte d'Appello di Catanzaro nel procedimento civile vertente tra Caparra Francesco ed altri e Romeo Domenico ed altri iscritta al n. 636 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 321 del 1976.
Visti gli atti di costituzione di Caparra Francesco ed altri e di Caparra Domenico (già Romeo Domenico) ed altri e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito, nella pubblica udienza dell'11 gennaio 1983 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;
uditi l'avv. Vincenzo Mazzei per Caparra Francesco ed altri, l'avv. Domenico Ambrosio per Caparra Domenico ed altri e l'avvocato dello Stato Benedetto Baccari per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del giudizio d'appello avverso una sentenza emessa dal Tribunale di Crotone - che aveva, tra l'altro, rigettato la domanda in petizione d'eredità proposta da Romeo Domenico, Carmine Benedetto e Fortunato nei confronti dei germani Caparra per difetto della qualità di eredi legittimi dei primi, non essendo stato ancora accertato il loro rapporto di filiazione naturale col de cuius Caparra Salvatore, deceduto il 15 febbraio 1952 - la Corte d'Appello di Catanzaro - considerato che nelle more dell'appello era passata in giudicato la sentenza con la quale era stato dichiarato che gli attori erano figli naturali di Caparra Salvatore, ma che erano trascorsi più di dieci anni dalla data d'apertura della successione - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 480 cod. civ., in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che per i figli naturali il termine di prescrizione del diritto di accettare l'eredità decorra dal giorno della dichiarazione giudiziale di paternità anziché da quello dell'apertura della successione.
2. - Premesso che le due deroghe contemplate dal secondo e dal terzo comma della disposizione impugnata per gli istituiti sotto condizione e per i chiamati ulteriori (nei confronti dei quali il termine di prescrizione decennale decorre rispettivamente dal giorno in cui si é avverata la condizione o é venuto meno l'acquisto ereditario dei precedenti chiamati) sono insuscettibili, per il loro carattere eccezionale, di applicazione analogica o d'interpretazione estensiva, il giudice a quo osserva che neppure può nella specie ritenersi applicabile la norma di cui all'art. 2935 cod. civ. - che prevede la decorrenza della prescrizione "dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere" -, stante la portata generale del principio, valido solo quando manchino espresse e difformi statuizioni normative che fissino una diversa decorrenza del termine prescrizionale in determinate materie; statuizioni che, in subjecta materia, sono appunto quelle concernenti gli istituiti sotto condizione e i chiamati ulteriori, talché deve ritenersi esclusa ogni possibilità d'interferenza della generale disposizione indicata.
Estranee al problema della decorrenza del termine fissato per la accettazione dell'eredità devono poi ritenersi, continua l'ordinanza, le disposizioni di cui all'art. 715 cod. civ. (che solo vieta la divisione in pendenza del giudizio sulla filiazione naturale di colui che, in caso di esito favorevole del giudizio stesso, sarebbe chiamato a succedere) ed alla legge n. 1047 del 1971 (che s'é limitata a restituire in termini per due anni, a decorrere dalla data di entrata in vigore, i nati prima del 1 luglio 1939 in ordine all'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità), le quali non hanno inciso sulla disciplina dettata dall'art. 480 cod. civ. Ad analoghe conclusioni dovrebbe infine pervenirsi per quel che concerne gli artt. 230 e 232 della l. 19 maggio 1975, n. 151 (nuovo diritto di famiglia) che, pur conferendo efficacia retroattiva alla nuova disciplina sul riconoscimento e sulla dichiarazione di filiazione naturale, non incidono tuttavia sulla decorrenza del termine di prescrizione posto dalla disposizione impugnata.
Alla stregua di siffatta interpretazione delle norme citate, alla Corte d'appello di Catanzaro non par dubbio che la decorrenza del termine di prescrizione dal giorno dell'apertura della successione anche nei confronti dei figli naturali non ancora giudizialmente dichiarati tali e, quindi, non in condizioni di poter esercitare il diritto di accettare l'eredità, contrasti col principio di ragionevolezza ed integri una disparità di trattamento in relazione a quanto previsto per le altre due categorie di soggetti contemplate dal secondo e terzo comma dello stesso art. 480 cod. civ., essendo a tutti comune l'esigenza logica di far coincidere il dies a quo del termine di prescrizione "con quello in cui si acquista la qualità di chiamati e diventa in conseguenza giuridicamente possibile l'accettazione".
D'altro canto, non sembra al giudice a quo che possa condividersi la tesi secondo la quale "la disuguaglianza non discenderebbe dall'art. 480, bensì dalla negligenza dei vocati, che si determinano ad esercitare il diritto di accettazione molti anni dopo che la Costituzione avrebbe consentito di conseguire lo status di figli naturali". E ciò, sia perché il ritardo con cui può intervenire la dichiarazione non é sempre collegabile all'inerzia degli interessati, ma ben può dipendere da fattori indipendenti dalla loro volontà, sia perché ai nati anteriormente al 1 luglio 1939 non può certo imputarsi di non aver tempestivamente rilevato l'illegittimità costituzionale (dichiarata con sent. n. 7 del 1963) dell'art. 123, primo e secondo comma, disp. att. cod. civ., il quale nella specie rendeva improponibile l'azione.
3. - É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, e si sono costituite entrambe le parti private.
4. - In atto d'intervento l'Avvocatura, dopo aver preliminarmente rilevato che, nonostante taluni dissensi espressi dalla dottrina, la giurisprudenza pacificamente ritiene che il termine fissato nell'art. 480 sia di prescrizione e non di decadenza, nega che la limitata applicazione che in effetti deve riconoscersi in materia alla norma generale di cui all'art. 2935 c.c. comporti l'ineluttabile verificarsi della prescrizione col decorso del termine di dieci anni dall'apertura della successione, con le sole eccezioni poste dal secondo e terzo comma della norma denunziata.
Sicuramente, ad esempio, il termine non corre contro il nascituro non concepito ed il concepito non ancora nato, ed é sospeso per le cause attinenti alla condizione del titolare di cui all'art. 2942 c.c. E se l'interruzione della prescrizione viene solitamente esclusa, ciò dipende non già dall'inconcepibilità teorica dell'interruzione, bensì dalla considerazione che l'atto potenzialmente interruttivo si risolverebbe in realtà in un'accettazione tacita ex art. 476 c.c.; onde in tutti i casi in cui non fosse possibile l'accettazione tacita ben potrebbe farsi luogo ad interruzione. Alla stregua di tali considerazioni, l'atto giudiziale diretto al riconoscimento della qualità di erede (nella specie, la domanda d'accertamento della paternità) potrebbe considerarsi come equipollente dell'accettazione (o come sospensivo) o interruttivo della prescrizione. D'altro canto, l'art. 715 c.c. prevede espressamente l'ipotesi che tra i chiamati all'eredità vi siano soggetti che temporaneamente non possono esercitare il diritto; e se é innegabile che la norma concerne la divisione, essa tuttavia "giova ad interpretare l'art. 480 c.c. nel senso che il termine di prescrizione ammette nelle stesse situazioni la conservazione del diritto di accettare l'eredità, necessariamente preliminare alla divisione". Inoltre, la possibilità che in situazioni assimilabili a quella in esame l'accettazione venga espressa subordinatamente all'avverarsi dell'evento che, con efficacia ex tunc, la perfeziona - come accade per le persone giuridiche non ancora riconosciute, che possono dichiarare di accettare l'eredità attraverso l'organo che provvisoriamente ne ha l'amministrazione, subordinatamente al futuro riconoscimento ed alla futura autorizzazione ad accettare (artt. 17, 473 e 600 cod. civ.), che pur possono intervenire dopo la scadenza del decennio dall'apertura della successione - potrebbe consentire di ritenere che l'accettazione possa essere espressa subordinatamente al futuro acquisto della qualità di chiamato a succedere.
In definitiva sussisterebbero molteplici alternative ermeneutiche per ritenere tutelata dall'ordinamento la posizione del figlio naturale la cui filiazione sia in corso di riconoscimento, talché non si porrebbe il problema della legittimità costituzionale dell'art. 480 c.c.
Ma, continua l'Avvocatura, quand'anche fossero esatte le premesse da cui muove l'ordinanza di rinvio, la questione sarebbe comunque infondata. Invero, le situazioni degli istituiti sotto condizione e dei chiamati ulteriori, assunte dal giudice a quo come parametro comparativo dell'addotta, ingiustificata disparità di trattamento, presentano caratteristiche non assimilabili a quella del figlio la cui filiazione naturale non sia stata ancora giudizialmente dichiarata, essendo la condizione un evento sottratto alla disponibilità degli interessati (mentre l'iniziativa per la dichiarazione di paternità é in potere della parte) ed i chiamati ulteriori ricevendo tutela solo in quanto l'accettazione dei precedenti - che essi hanno l'onere di sollecitare con l'actio interrogatoria di cui all'art 481 c.c. - abbia successivamente perduto effetto. Non potrebbe quindi consentirsi di travolgere una norma posta a tutela della certezza del diritto sulla base di un raffronto fra situazioni assai diverse, anche se ciascuna meritevole di considerazione in via autonoma.
Infine, si conclude in atto d'intervento, se deve convenirsi che la situazione in esame é estranea all'ambito direttamente applicativo della l. 23 novembre 1971, n. 1047, deve anche rilevarsi "che gli effetti della dichiarazione di paternità così ottenibile si ripercuotono sicuramente sul diritto successorio, sì che le pretese che possono farsi valere devono trovare la loro regolamentazione nella legge vigente indipendentemente da una pronuncia sulla legittimità costituzionale dell'art. 480 c.c.".
5. - La difesa dei germani Caparra, originari convenuti, ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità della questione, siccome per la prima volta sollevata in comparsa conclusionale, in manifesta violazione degli artt. 190 e 359 c.p.c., che non consentono che le comparse successive alla rimessione della causa al collegio contengano conclusioni diverse da quelle fissate dinanzi all'istruttore. Del resto, l'art. 24 della l. 11 marzo 1953, n. 87, nel consentire che l'eccezione di incostituzionalità sia sollevata in ogni grado di giudizio, afferma pure che l'eccezione respinta in un grado di giudizio, deve essere riproposta "all'inizio di ogni grado" ulteriore, così ammonendo che vanno rispettate le regole del contraddittorio; il che, nella specie, non sarebbe avvenuto.
Né varrebbe obiettare che la questione può essere sollevata dal giudice anche d'ufficio, giacché l'art. 183 c.p.c., facendo obbligo all'istruttore di indicare alle parti le questioni, rilevabili d'ufficio, delle quali ritenga opportuna la trattazione, preclude l'esercizio di tale potere da parte del collegio senza indicazione alle parti.
Nel merito si assume l'infondatezza della questione. Anzitutto, si osserva in memoria, esulerebbe dai poteri della Corte - e costituisce, invece, prerogativa del legislatore ordinario - quello di creare una nuova norma, stabilendo una terza eccezione alla regola generale fissata dall'art. 480 c.c. In secondo luogo la posizione di coloro che vengono giudizialmente dichiarati figli naturali del de cuius sarebbe diversa da quella degli istituiti condizionali e dei vocati successivi, nel primo caso difettando lo status di figlio naturale al momento dell'apertura della successione, e, quindi, lo stesso nucleo costitutivo della fattispecie della vocazione ereditaria, mentre negli altri casi ne é solo procrastinata la efficacia.
Si conclude, quindi, "gradatamente, per l'irrilevanza, la inammissibilità e l'infondatezza della proposta questione".
6. - La difesa degli originari attori, premesso che la prescrizione postula l'inerzia del titolare nell'esercizio del diritto e che l'inerzia in tanto sussiste in quanto sia attuale il diritto, che nella specie sorge con l'acquisizione dello status di figlio naturale, rimette alla Corte costituzionale l'alternativa fra una pronunzia correttiva dell'interpretazione posta a fondamento dell'ordinanza di rinvio e la dichiarazione d'incostituzionalità.
Quel che alla difesa par certo é che agli attori non sia ascrivibile alcuna inerzia colpevole neppure nella richiesta di dichiarazione giudiziale della paternità, posto che prima della l. n. 1047 del 1971 la normativa vigente la vietava. E non potrebbe certo sostenersi che, essendo stata quella normativa dichiarata successivamente incostituzionale, gli interessati non avrebbero dovuto omettere di rilevarne l'incostituzionalità, istando per la dichiarazione giudiziale della paternità sin dall'entrata in vigore della Costituzione. Anzitutto, invero, il contrasto dell'art. 123, disp. trans. cod. civ., non era facilmente rilevabile; in secondo luogo non esiste nella Carta una norma precettiva che imponga la disapplicazione di una disposizione non ancora dichiarata costituzionalmente illegittima.
Nel merito, una disparità di trattamento tra figli naturali riconosciuti (come i convenuti) o dichiarati (come gli attori) sarebbe stata respinta dalla stessa Corte con sent. n. 79 del 1969; mentre l'addurre l'esigenza della "certezza del diritto" sotto l'aspetto patrimoniale per suffragare l'intangibilità della norma, pare in contrasto con la nuova legislazione sul diritto di famiglia, laddove sono stati aboliti i limiti temporali alla ricerca giudiziale della paternità.
Sembra in definitiva inammissibile che si tolleri una così marcata disparità di trattamento fra chi, essendo stato riconosciuto prima della morte del de cuius, abbia potuto ereditare ope legis, e chi, avendo acquisito lo stesso status di figlio naturale solo in esito al passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della paternità, si veda precluso il diritto di accettare per il già avvenuto decorso del termine di prescrizione.
Considerato in diritto
1. - Devono anzitutto dichiararsi inammissibili, sia la costituzione dinanzi a questa Corte dei fratelli Caparra (già Romeo) Domenico, Carmine Benedetto e Fortunato, perché fuori termine - non avendo pregio la motivazione, eccepita in udienza dal difensore, avv. Domenico Ambrosio, della tardiva diffusione in loco della Gazzetta Ufficiale -, sia l'intervento in questa sede di Caparra Antonietta (già Maiorano), anch'essa figlia naturale del defunto Caparra Salvatore, perché la predetta non era parte nel giudizio a quo, e pertanto non ha legittimazione ad intervenire; tenuto conto che le questioni di legittimità costituzionale possono essere sollevate, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, non ha parimenti pregio l'eccezione di inammissibilità della questione de qua siccome sollevata per la prima volta in comparsa conclusionale.
Deve altresì rigettarsi l'eccezione di irrilevanza, formulata dinanzi a questa Corte nella memoria del 29 dicembre 1982 dall'avv. Vincenzo Mazzei, difensore dei fratelli Caparra, ed ulteriormente svolta all'udienza. Secondo la suddetta difesa, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 480 c.c., sollevata dalla Corte di Catanzaro, sarebbe manifestamente irrilevante: essendo stata, infatti, eccepita l'usucapione decennale, il giudice a quo avrebbe dovuto pronunciarsi con sentenza su tale eccezione, che, stante il suo carattere assorbente, avrebbe consentito, se riconosciuta fondata, di decidere la lite indipendentemente da ogni questione di legittimità costituzionale. Senonché questa Corte deve al riguardo limitarsi a prendere atto che nell'ordinanza di rinvio la suddetta eccezione risulta esplicitamente disattesa, e con la motivazione della carenza di un titolo astrattamente idoneo a trasferire il dominio; un sindacato su tal punto non rientra nella competenza del giudice delle leggi.
2. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Catanzaro con ordinanza emessa il 18 maggio 1976 (r.o. 636/1976) consiste nell'assunto che l'art. 480 c.c., dopo avere stabilito in via generale che "il diritto di accettare l'eredità si prescrive in dieci anni" e che tale "termine decorre dal giorno dell'apertura della successione", preveda due sole eccezioni: quella dell'istituzione condizionale, in cui il termine decorre "dal giorno in cui si verifica la condizione", e quella dei "chiamati ulteriori", per i quali "il termine non corre... se vi é stata accettazione da parte di precedenti chiamati e successivamente il loro acquisto ereditario é venuto meno". Il giudice a quo lamenta che un'analoga eccezione non sia prevista anche per i soggetti che siano stati dichiarati figli naturali del de cuius con sentenza passata in giudicato posteriormente al decorso del termine decennale di prescrizione, benché si trovassero, "al pari degli istituiti sub conditione e dei chiamati ulteriori, nella posizione di non 'vocati ' e, come tali, nell'impossibilità" di esercitare il diritto di accettare l'eredità entro il decennio dall'apertura della successione. Rilevando pertanto tra i due casi eccettivi previsti, da un lato, e quello non previsto, dall'altro lato, "una disciplina normativa differenziata quanto alla decorrenza del termine di prescrizione" e, quindi, la violazione del principio d'eguaglianza (art. 3 Cost.), denunzia l'illegittimità costituzionale dell'art. 480 c.c. "nella parte in cui non si prevede per i figli naturali la decorrenza del termine di prescrizione del diritto di accettare l'eredità paterna dal giorno della dichiarazione giudiziale di paternità".
3. - Ai fini della più chiara impostazione del problema, giova tener presente la vicenda giudiziaria da cui ha tratto origine la questione in oggetto, la quale, benché particolarmente annosa e tormentata, si lascia tuttavia agevolmente compendiare: nel 1952, decedeva in Cirò tale Caparra Salvatore, nel possesso dei cui beni si immettevano i quattro figli che il de cuius aveva riconosciuto. Nel 1965 - e perciò, tredici anni dopo il decesso del summenzionato Caparra Salvatore, e due anni dopo la sentenza di questa Corte n. 7 del 1963, la quale aveva dichiarato illegittima l'improponibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti dei nati anteriormente al 1 luglio 1939 (art. 123, primo e secondo comma, disposizioni transitorie del codice civile) - tali Romeo Domenico, Carmine Benedetto, Fortunato ed i figli di una loro sorella premorta convenivano davanti al Tribunale di Crotone i figli riconosciuti del defunto Caparra Salvatore per sentire dichiarare giudizialmente che questi era il padre naturale anche di essi attori. Nel 1972 - e perciò, a distanza di venti anni dall'apertura della successione in parola - i suddetti Romeo proponevano azione in petizione di eredità, chiedendo il riconoscimento del loro diritto successorio e, quindi, tra l'altro, la dichiarazione di apertura della successione, la divisione dei beni caduti in eredità, la collazione dei beni ed i necessari provvedimenti cautelari.
Benché in prime cure dichiarati soccombenti, i Romeo poterono giovarsi della rimessione in termini per la dichiarazione di paternità, stabilita con la novella n. 1047 del 1971 nei riguardi dei figli nati anteriormente al 1 luglio 1939, ed ottenere la sentenza con cui veniva riconosciuto il loro status di figli naturali del defunto Caparra Salvatore, del quale pertanto assunsero anch'essi il cognome. In seguito alla produzione di tale sentenza, passata in giudicato nelle more dell'appello proposto avverso il rigetto in primo grado della domanda in petizione di eredità, la Corte di Catanzaro ha sollevato la questione in esame, reputando che dalla sua soluzione "dipende la decisione sulla validità dell'accettazione dell'eredità fatta dopo il decennio dall'apertura della successione" da parte dei Romeo "dichiarati figli naturali" nel corso del giudizio d'appello "e, quindi, sulla loro legittimazione alla domanda di petizione".
4. - Con la sollevata questione, il giudice a quo chiede in effetti che questa Corte integri l'art. 480 c.c., statuendo che anche per i figli naturali, e perciò in aggiunta agli istituiti condizionali ed ai chiamati ulteriori, il termine prescrizionale del diritto di accettare l'eredità non decorre dal giorno dell'apertura della successione, come seconda regola generale, bensì da quello della dichiarazione giudiziale di paternità.
All'uopo, dopo avere preliminarmente osservato che le due sole deroghe alla regola generale (istituzione condizionale e chiamati ulteriori) sono insuscettibili, sia d'applicazione analogica, sia d'interpretazione estensiva, "stante il loro carattere eccezionale", esclude progressivamente che la decisione possa fondarsi sull'art. 2935 c.c. o sull'art. 715 stesso codice ovvero ancora sulla legge n. 1047 del 1971 o infine sul nuovo diritto di famiglia. In quanto al principio, secondo cui "la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere" (art. 2935 c.c.), si afferma nell'ordinanza che esso non é "valido... in materie particolari", ove siano previste "espresse statuizioni normative di diversa decorrenza", come sono quelle di cui al secondo e terzo comma dell'art. 480 c.c., le quali hanno appunto una diversa decorrenza del termine prescrizionale e perciò escludono implicitamente "la possibilità d'interferenza, in materia d'accettazione di eredità, della disposizione dell'art. 2935". Di nessuna utilità risulterebbe altresì la norma, la quale considera come caso d'impedimento alla divisione ereditaria "la pendenza di un giudizio sulla legittimità o sulla filiazione naturale di colui che, in caso di esito favorevole del giudizio, sarebbe chiamato a succedere" (art. 715 c.c.), perché ivi nulla é previsto "in ordine alla decorrenza del termine prescrizionale in questione". E per lo stesso motivo, cioè per la mancanza di alcuna statuizione in deroga al termine per l'accettazione dell'eredità, non gioverebbe far riferimento, né alla legge n. 1047 del 1971, né al nuovo diritto di famiglia. A riguardo di quest'ultimo, anzi, la Corte di Catanzaro rileva che l'art. 230, terzo comma, della legge 19 maggio 1975, n. 151 (riforma del diritto di famiglia), disponendo la validità, "anche agli effetti delle successioni aperte prima" della sua entrata in vigore, del "riconoscimento dei figli naturali, compiuto prima di tale data", richiede il verificarsi di una delle tre condizioni ivi previste: che i diritti successori "non siano stati esclusi con sentenza passata in giudicato"; che non siano stati "definiti con convenzione tra le parti"; che "siano trascorsi tre anni dall'apertura della successione senza che il figlio abbia fatto valere alcuna ragione ereditaria sui beni della successione". Ebbene, conclude il giudice a quo, nessuna di tali condizioni "innova il principio concernente la decorrenza del termine di prescrizione ex art. 480 c.c.". Pertanto, non potendosi ritenere che la efficacia retroattiva delle norme sul riconoscimento e sulla dichiarazione giudiziale di paternità "si estenda agli effetti successori, perché questi risultano "regolati in modo autonomo", si ottiene conferma che tra i figli naturali non ancora riconosciuti o non ancora dichiarati tali, da una parte, e gli istituiti sotto condizione ed i chiamati ulteriori, dall'altra parte, si determinerebbe "una disparità di trattamento, contrastante non solo col principio costituzionale dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ma anche con l'esigenza di ragionevolezza".
5. - Gli argomenti sopra riassunti, nonostante la loro apparente varietà, sono fondamentalmente riconducibili a tre motivi, peraltro connessi tra loro: l'inestensibilità dell'art. 480, secondo e terzo comma, c.c., oltre le eccezioni ivi espressamente previste; l'inapplicabilità nella fattispecie del principio di cui all'art. 2935 c.c.; la mancanza dell'esplicita previsione di una diversa decorrenza del termine prescrizionale, sia nell'art. 715 c.c., sia nella legge n. 1047 del 1971, sia nel nuovo diritto di famiglia (artt. 230 e 232 legge 19 maggio 1975, n. 151).
6. - Per quanto riguarda il motivo esposto per ultimo, il ragionamento appare far perno su quei noti brocardi che, in seguito al raffronto tra ciò che il legislatore ha detto e ciò che ha taciuto, attribuiscono all'asserito silenzio il valore di omissione intenzionale. E nella specie, dalla mancanza nella normativa sopra indicata di un'esplicita e puntuale prescrizione di efficacia retroattiva anche agli effetti successori si dedurrebbe la preclusione all'interprete di riconoscere, relativamente al termine per l'esercizio dell'azione in petizione di eredità, una decorrenza coincidente con l'acquisto dello status di figlio naturale. Ma il criterio ermeneutico di cui sopra é troppo malsicuro, e conseguentemente non può riconoscersi piena attendibilità alla deduzione, ove non trovi convalida nel sistema.
7. - Non può dirsi che ne siano una convalida gli argomenti dedicati specificamente all'art. 480 c.c.
a) In primo luogo, il giudice a quo afferma che deroghe espresse ad una regola generale non avrebbero capacità di espandersi a fattispecie eccettive non previste, ancorché rivelino la medesima ratio. Si può prescindere da tale argomento, che di per sé non é decisivo ed, anzi, accresce il già consistente disputabile che si rinviene nell'ordinanza; oltre tutto, non potrebbe ignorarsi l'opposta concezione, secondo cui le norme in deroga darebbero a loro volta vita ad un loro proprio sistema.
b) A conferma della fondatezza dell'argomento che precede e della giustezza della sua applicazione all'art. 480 c.c., la Corte di Catanzaro invoca una sentenza della Cassazione (10 giugno 1973, n. 274). Senonché tale pronuncia statuisce, sì, effettivamente - anche se la controversia atteneva agli artt. 2941 e 2942 c.c. - la tassatività delle ipotesi di sospensione della prescrizione, ma soggiunge, così precisando il proprio pensiero, che la legge, "per il carattere di ordine pubblico dell'istituto", limita le cause sospensive "a quelle che consistono in veri e propri impedimenti d'ordine giuridico, con esclusione degli impedimenti di mero fatto". Del resto, si tratta di un indirizzo ampiamente consolidato in materia di prescrizione, cui non potrebbe pertanto disconoscersi il valore di diritto vivente. Proprio con riguardo all'art. 2935 c.c., infatti, risulta affermato da tempo e costantemente ribadito: che la prescrizione "non può avere inizio in presenza di un impedimento d'ordine giuridico all'esercizio del diritto" (Cass., 4 aprile 1949, n. 779); che "la disposizione dell'art. 2935 c.c.... va intesa nel senso che la prescrizione non decorre, se esistono impedimenti legali" (Cass. 25 ottobre 1966, n. 2592); che un impedimento di fatto "é inidoneo a fermare il corso della prescrizione, tale potere dovendosi riconoscere soltanto alle cause giuridiche ostative all'esercizio del diritto" (Cass. 3 aprile 1970, n. 896). Ma già anteriormente, cioé nella relazione del Guardasigilli sul progetto dei primi due libri del vigente codice civile, é dato leggere che la decorrenza del termine prescrizionale é legata alla "possibilità giuridica di accettare l'eredità".
c) Né appare maggiormente esatta l'affermazione - che pure é il presupposto su cui si basa la denunzia di "una disciplina normativa differenziata" -, secondo cui le due deroghe espressamente previste nel secondo e terzo comma dell'art. 480 c.c. riguarderebbero soggetti "non vocati" al pari dei soggetti tardivamente riconosciuti o dichiarati figli naturali. Al contrario, il menzionato articolo costituisce ed esaurisce l'ambito della vocatio, in cui rientrano, sia gli istituiti sub condicione sia i chiamati ulteriori; questi, per letterale dettato della stessa norma, quelli, per la logica della delazione condizionata. Di conseguenza, non sembra corretto elevare le due fattispecie in parola a tertium comparationis.
8. - In ordine, da ultimo, all'art. 2935 c.c. - a sensi del quale "la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere" -, il giudice a quo enuncia, come più sopra già riportato, che il relativo "principio di portata generale é valido quando manchino espresse statuizioni normative di diversa decorrenza in materie particolari". E poiché materia particolare é il diritto ereditario, e questo contiene appunto due espresse statuizioni di diversa decorrenza, ne inferisce l'inapplicabilità del principio generale al caso di specie. Ma si é già osservato più sopra che le due statuizioni di cui all'art. 480, secondo e terzo comma, costituiscono un ambito loro proprio - quello della vocatio - nel quale non rientrano, e non possono farsi rientrare, i figli naturali che ottengano la dichiarazione giudiziale di paternità posteriormente all'apertura della successione, con conseguente incomparabilità tra questi ultimi, da una parte, gli istituiti sub condicione ed i chiamati ulteriori, dall'altra parte.
9. - Le considerazioni sopra esposte mostrano che, prestandosi la normativa da applicare - in particolare, il combinato disposto degli artt. 480 e 2935 c.c. - ad una interpretazione logico - sistematica diversa dalla lettura che ne offre il giudice a quo, e potendosi conseguentemente risolvere la controversia in base alla suddetta interpretazione, non si configura la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Catanzaro.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 480 c.c., sollevata dalla Corte d'appello di Catanzaro in riferimento all'art. 3 Cost. con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 1983.
Antonino DE STEFANO - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO – Ettore GALLO
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 29 giugno 1983.