SENTENZA N. 86
ANNO 1982
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori
Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo
REALE
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di
legittimità costituzionale della legge 20 dicembre 1973, n. 831 (Norme per la
nomina a magistrato di cassazione) promossi con ordinanze emesse il 2 dicembre
1977 e il 3 luglio 1979 dal Consiglio di Stato - Sez. IV giurisdizionale, sui
ricorsi proposti da Lucentini Sergio ed altri e da Torella di Romagnano Andrea
contro il Ministero di Grazia e Giustizia ed altri, rispettivamente iscritte al
291 del
registro ordinanze 1978 e al n. 56 del registro ordinanze 1980 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 250 del 1978 e n. 85 del 1980.
Visti l'atto di costituzione
di Lucentini Sergio ed altri e gli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica
del 24 marzo 1982 il Giudice relatore Livio Paladin;
Uditi l'avv. Umberto Coronas,
per Lucentini Sergio ed altri e gli avvocati dello Stato Piergiorgio Ferri e
Carlo Carbone, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1. - Sergio Lucentini ed
altri, consiglieri di corte d'appello nominati consiglieri di cassazione ai
sensi dell'art. 21, sesto comma, della legge 20 dicembre 1973, n. 831,
chiedevano al TAR per il Lazio l'annullamento dei rispettivi provvedimenti di
nomina, limitatamente alla loro decorrenza giuridica: sostenendo
l'illegittimità costituzionale del predetto comma sesto dell'art. 21, in
riferimento all'art. 3 Cost. Ma i ricorsi venivano respinti dall'adito
Tribunale, previa dichiarazione della manifesta infondatezza delle censure in
esame.
Avverso tale sentenza, gli
interessati hanno proposto appello al Consiglio di Stato, insistendo
nell'assunto che le loro nomine a magistrati di cassazione sarebbero state
operate in applicazione di una norma costituzionalmente illegittima. La
decorrenza giuridica delle nomine stesse, fissata al momento dell'entrata in
vigore della legge n. 831 del 1973 quanto ai "magistrati che per qualsiasi
motivo non abbiano partecipato ad alcuno scrutinio per la nomina a magistrati
di cassazione, pure avendo l'anzianità necessaria", determinerebbe infatti
una irragionevole equiparazione dei ricorrenti con i colleghi che in sede di
scrutinio avessero riportato un giudizio sfavorevole; e li discriminerebbe,
d'altro lato, rispetto ai magistrati che all'entrata in vigore della legge n.
831 avessero già maturato l'anzianità di sette anni, prevista dall'art. 4 della
legge stessa, ma non l'anzianità di nove anni, richiesta per la partecipazione
allo scrutinio dalla legge n. 1 del 1963: magistrati per i quali l'art. 21,
quinto comma, della legge n. 831 fa decorrere gli effetti giuridici della
nomina dal compimento dei sette anni di anzianità.
La quarta sezione del
Consiglio di Stato ha per altro ritenuto di non poter delibare la non manifesta
infondatezza delle censure proposte dai ricorrenti, senza una previa verifica
della "ragionevolezza" del procedimento di nomina, contemplato dalla
legge n. 831 del 1973; ed ha pertanto impugnato con ordinanza emessa il 2
dicembre 1977 - l'intero "sistema di progressione a magistrato di
cassazione", previsto dalla legge stessa, "nella parte in cui
deferisce al Consiglio superiore il potere di attribuire (oltre ad una classe
di stipendio che non viene in discussione) la nomina a magistrato di
cassazione, senza il conferimento delle corrispondenti funzioni". Tale
sistema sarebbe infatti "ispirato nella sua concezione di fondo ad una
completa e totale divaricazione tra l'esercizio effettivo delle funzioni di
magistrato di cassazione e l'attribuzione della corrispondente qualifica",
che ormai si sostanzierebbe "nel conferimento quasi automatico di un
titolo e di una classe di stipendio", indipendentemente dalla spettanza
delle funzioni medesime, tanto é vero - precisa l'ordinanza - che nel 1977, su
505 posti di ruolo, risultavano nominati 1912 magistrati di cassazione.
Di qui discenderebbe la
violazione del principio fissato dal terzo comma dell'art. 107 Cost., per cui
"i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di
funzioni": con chiaro riferimento - assume il giudice a quo - al "dato oggettivo desumibile dalla effettiva
incardinazione del magistrato in un ufficio". E, mentre per la
magistratura di merito l'unificazione sostanzialmente disposta dalla legge n.
570 del 1966 sarebbe "avvenuta sulla base di una asserita identità di
funzioni", altrettanto non potrebbe dirsi per l'ufficio in esame, poiché
lo vieterebbero le "concrete funzioni inerenti al sindacato giurisdizionale
della Corte Suprema" e la "posizione che ad essa é riconosciuta dalla
Costituzione" (ex artt. 104,
quarto comma, 106, terzo comma, 111 secondo e terzo comma, 135, primo e secondo
comma). Da questa particolare posizione emergerebbe, dunque, "che le funzioni
relative all'ufficio di consigliere di cassazione sono quelle e solo quelle
esercitate dai magistrati effettivamente destinati alla Corte di cassazione e
che soltanto ad essi spetta la qualifica di magistrati di cassazione, ai sensi
dell'art. 107, terzo comma, Cost.".
Una volta ridimensionato
l'attuale sistema di progressione, risolvendolo nella pura e semplice
attribuzione di una superiore classe di stipendio, potrebbe poi accogliersi -
secondo l'ordinanza di rimessione - la richiesta dei ricorrenti, intesa ad
evitare un loro scavalcamento da parte di colleghi meno anziani. Appunto in
questo senso, all'annullamento della legge n. 831, nella parte concernente la
detta progressione, dovrebbe seguire l'annullamento dell'art. 21, sesto comma:
che il Consiglio di Stato impugna pertanto, con riferimento all'art. 3 Cost.,
"in via subordinata e condizionata all'accoglimento" dell'impugnativa
principale.
2. - I ricorrenti,
costituitisi nel presente giudizio, hanno invece precisato di non essere
interessati a coltivare la questione principale di legittimità, sollevata
d'ufficio dal giudice a quo; ed anzi
ne hanno messo in dubbio la rilevanza, insistendo soltanto nell'originaria
richiesta di annullamento dell'art. 21, sesto comma, che essi considerano
lesivo dell'esigenza costituzionale di "trattamento uguale delle
situazioni uguali" e di "trattamento differenziale delle situazioni
diverse".
Da un lato, sarebbe
illegittimo l'aver equiparato, in deroga al "nuovo principio della
decorrenza della promozione in Cassazione dal compimento del settimo anno di
anzianità nella qualifica di magistrato d'appello", i magistrati che non
avessero partecipato ai vecchi scrutinii e quelli che vi fossero stati
bocciati: solo nel secondo e non nel primo caso, infatti, il ritardo della
promozione potrebbe esser giustificato dal suo "carattere in senso lato
sanzionatorio" o dall'opportunità di consentire comunque che i soggetti
già ritenuti inidonei abbiano il tempo di dare la prova della loro conseguita
idoneità. D'altro lato, sarebbe arbitrario l'avere previsto per i ricorrenti un
regime diverso e deteriore nei confronti di altri magistrati d'appello, meno
anziani di essi, che non erano in grado di partecipare ai vecchi scrutinii:
poiché ne derivererebbero, rispettivamente, un premio ed una sanzione del tutto
immotivati, data la facoltatività della partecipazione di cui trattasi.
3. - L'intervenuto Presidente
del Consiglio dei ministri eccepisce a sua volta che l'impugnativa principale
del Consiglio di Stato sarebbe irrilevante, in quanto eccederebbe il petitum
(ad un punto tale che l'accoglimento di essa determinerebbe non già il
conseguente accoglimento dei ricorsi, bensì l'annullamento delle stesse nomine
dei ricorrenti a magistrati di cassazione).
In ogni caso, l'impugnativa principale
sarebbe infondata, poiché l'art. 107, terzo comma, della Costituzione
garantirebbe l'indipendenza dei giudici, anche nei loro reciproci rapporti, ma
non "la contestualità tra qualifica e funzione". E nessun attentato
all'indipendenza arrecherebbe la legge impugnata, ritardando il conferimento
della funzione medesima; ché anzi tale legge, operando lo
"sradicamento" del principio della carriera, toglierebbe di mezzo
"uno strumento pericolosamente lesivo... della libertà dei giudici",
utilizzabile dai superiori per "interventi diretti o pressioni ed
influenze indirette", nonché suscettibile di determinare nel singolo
magistrato "processi di autocondizionamento e sudditanza
psicologica".
Del pari, sarebbe infondata la
questione proposta in via subordinata, poiché i magistrati che si fossero
sottratti agli scrutinii, per una libera scelta comunque motivata, non
potrebbero ora pretendere un identico (o addirittura un migliore) trattamento
di quanti vi avessero partecipato con successo. Diversamente, infatti, si
produrrebbe una "diseguaglianza di segno opposto", non solo nei
confronti di quanti erano stati sfavorevolmente giudicati, ma rispetto agli
stessi magistrati di cui al quinto comma dell'art. 21.
4. - In vista della pubblica
udienza del 21 gennaio 1981, i ricorrenti hanno depositato una memoria, traendo
argomento dal disegno di legge n. 2115/Senato, presentato il 22 maggio 1975,
per modificare l'art. 21, quinto e sesto comma, della legge n. 831 del 1973,
nel senso auspicato dagli interessati.
Per altro, dopo essere stata
discussa nell'udienza predetta, la causa in esame é stata rinviata a nuovo
ruolo - mediante l'ordinanza n. 172 del 1981
- ed é stata quindi ridiscussa nella pubblica
udienza del 24 marzo 1982. In tale occasione, tanto l'Avvocatura dello Stato
quanto la difesa dei ricorrenti hanno insistito nella richiesta che la Corte
dichiari preliminarmente inammissibile, per irrilevanza, la questione sollevata
in via principale dalla quarta sezione del Consiglio di Stato; ed hanno
comunque sostenuto l'infondatezza della questione medesima.