Sentenza n.71 del 1981
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SENTENZA N. 71

ANNO 1981

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI, Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 270 R.D.23 maggio 1924, n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato) e dell'art. 429 cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 11 agosto 1973, n. 533, promossi con le seguenti ordinanze:

1. - Ordinanza emessa il 28 maggio 1975 dalla Corte di appello di Caltanissetta nel procedimento civile vertente tra Salerno Rosolino ed il Comune di Caltanissetta, iscritta al n. 350 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 268 del 1975;

2. - Ordinanza emessa il 23 luglio 1976 dal Tribunale di Catania nel procedimento civile vertente tra l'Assessorato Regionale dell'Agricoltura e delle Foreste della Sicilia e Di Marzo Nicolò, iscritta al n. 707 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17 del 1977;

3. - Ordinanza emessa il 20 dicembre 1976 dal Pretore di Palmi nel procedimento civile vertente tra Arduca Antonino ed altri e l'Ospedale Civile di Palmi, iscritta al n. 111 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 107 del 1977.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1980 il Giudice relatore Antonio La Pergola;

udito l'avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 28 maggio 1975 nel procedimento di lavoro vertente fra il Comune di Caltanissetta e tale Salerno Rosolino, la Cortedi appello di Caltanissetta ha denunziato come costituzionalmente illegittimo, in quanto rilevante ai fini del decidere, il corpo di norme contenute nel Regolamento di contabilità generale dello Stato (R.D. 23 maggio 1924, n. 827) e in particolare l'art. 270 censurando d'altra parte la mancata estensione alla specie delle disposizioni introdotte nel c.p.c. con la legge 11 agosto 1973, n. 533, e in particolare l'art. 429, terzo comma, c.p.c., nel nuovo testo.

Ai sensi, appunto, della norma per ultimo citata il Salerno aveva chiesto alla Corte di appello la rivalutazione monetaria del credito da lui vantato nei confronti del Comune, già accertato con sentenza non definitiva dello stesso giudice a quo. L'ente convenuto aveva opposto, ex art. 270 del citato Regolamento di contabilità, l'infondatezza della pretesa, deducendo che i crediti pecuniari nei confronti dello Stato e degli enti pubblici non economici diventano liquidi ed esigibili solo con l'emissione del relativo titolo di spesa da parte dell'amministrazione: prima di quel momento non vi sarebbe mora dell'ente debitore né dunque obbligo di corrispondere gli interessi, restando con ciò esclusa ogni possibilità di rivalutazione monetaria del credito. Tale principio, si soggiunge, non trova applicazione nel solo caso in cui il debito dell'amministrazione sia stato accertato con sentenza passata in giudicato, e così non possa più contestarsi che il credito della controparte sia certo, liquido ed esigibile. Dove invece, esso si applica - e così nel nostro caso - si avrebbe la violazione di più di un precetto della Carta fondamentale: in primo luogo, dell'art. 3. La norma che abilita lo Stato o l'ente pubblico non economico a scegliere, liberamente e senza controllo, il momento in cui il proprio credito pecuniario è reso liquido ed esigibile, deroga, si dice, all'art. 1282 del c.c., in forza del quale il credito liquido ed esigibile di una somma di denaro produce interessi di pieno diritto. Ora, siffatta deroga, fondata esclusivamente sulla qualità del debitore, implicherebbe una ingiustificata disparità di trattamento dei creditori, secondo che il loro rapporto intercorra con lo Stato, o con gli enti pubblici previsti da detto Regolamento di contabilità, ovvero intercorra con altri enti o soggetti. Quando, poi, si tratti di crediti di lavoro, oltre alla denunziata disuguaglianza di disciplina, verrebbe in rilievo l'inosservanza degli artt. 35 e 36 Cost. Si assume infatti che siano inestensibili alla specie le garanzie di ordine sostanziale e processuale introdotte con la legge n. 533 del 1973 a favore dei dipendenti di persona giuridica o fisica diversa dallo Stato o dagli enti pubblici non economici. Anche per questa considerazione, dunque, si imporrebbe il diniego degli interessi corrispettivi e della rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro, con il risultato di privare i dipendenti dello Stato e degli anzidetti enti pubblici non economici della giusta retribuzione, loro costituzionalmente garantita. All'ente debitore sarebbe d'altra parte concesso il vantaggio di fruire ingiustificatamente della somma di denaro dovuta al creditore, spesso per lungo tempo e senza spese, e di assolvere poi i propri debiti con moneta che ha valore svilito.

L'Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio, deduce che il citato Regolamento di contabilità, nel disciplinare compiutamente l'ordinazione ed erogazione della spesa pubblica deroga legittimamente il regime del codice civile, come è posto non solo dal citato art. 1282 ma anche dall'art. 1224, ai sensi del quale "nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali". La normativa censurata, si soggiunge, come vincola l'ente pubblico all'osservanza di un certo procedimento, così non può non vincolare i creditori dell'ente medesimo; essa diverge, certo, dalle regole che governano i rapporti scaturenti dall'autonomia privata ma non costituisce per questo alcuna prerogativa od esenzione soggettiva dell'ente pubblico dai normali obblighi gravanti sul debitore, che risponde alla oggettiva necessità di regolare l'attività svolta dall'ente pubblico nell'interesse della collettività, ed in conformità del principio, sancito dall'art. 97 della Carta fondamentale, del buon andamento della pubblica amministrazione. Il Regolamento di contabilità - viene anzi dedotto - non allarga, bensì limita l'autonomia degli enti pubblici, in guisa da ridurre il rapporto obbligatorio sotto la disciplina alla quale ente pubblico e soggetto privato soggiacciono ad egual titolo. La deroga dai principi del codice civile, che discende dalla normazione censurata, troverebbe allora un'idonea giustificazione costituzionale proprio nell'adempimento del richiamato precetto dell'art. 97. Ne seguirebbe che non sussiste la lamentata violazione del canone di eguaglianza; e d'altra parte non sarebbero nemmeno offesi gli artt. 35 e 36 Cost., che tutelano il lavoro e il diritto alla giusta retribuzione. Le norme impugnate, si assume, incidono sui sottostanti rapporti solo relativamente a situazioni accessorie e sono in definitiva volte a garantire l'adempimento del debito da parte dell'ente pubblico; e così si conclude che la posizione del creditore, tanto più dove questi è lavoratore subordinato, non è vulnerata, sibbene sostanzialmente rafforzata.

2. - Con ordinanza emessa il 20 dicembre del 1976 il Pretore di Palmi, quale giudice del lavoro, nel procedimento civile vertente tra Arduca Antonino ed altri e l'ospedale civile di Palmi, sollevava, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, questione di legittimità costituzionale:

a) dell'art.429, terzo comma, codice di procedura civile, nella parte in cui la norma censurata non deroga, per i crediti di lavoro, al principio stabilito dall'art. 270 R.D. 23 maggio 1924, n. 827 (erroneamente indicato come R.D. n. 747 del 1923), e non consente pertanto la rivalutazione monetaria di detti crediti dal giorno della maturazione del relativo diritto;

b) dello stesso articolo 270 del R.D. 827 del 1924.

Ottanta dipendenti avevano adito il giudice a quo perchè l'ospedale civile di Palmi venisse condannato al pagamento delle somme loro dovute a titolo di retribuzione, e già liquidate dall'amministrazione. Essi chiedevano, peraltro, la condanna al pagamento degli interessi legali e al risarcimento del danno derivante dalla svalutazione monetaria.

L'ospedale eccepiva, in rito, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e, nel merito, opponeva che gli interessi richiesti, se configurati come corrispettivi, non dovevano ritenersi dovuti per la mancata emissione del relativo ordine di pagamento, e se invece configurati come moratori, dovevano ritenersi decorsi dalla data di ciascuna delibera di liquidazione, invece che dal dies a quo indicato dagli attori; opponeva, inoltre, la impossibilità di applicare ai rapporti di lavoro aventi per parti gli enti pubblici non economici il disposto dell'art. 429 c.p.c., terzo comma, nuovo testo, che concerne la rivalutazione dei crediti. Il Pretore di Palmi riteneva con sentenza non definitiva la propria giurisdizione, trattandosi nella specie di crediti di lavoro già riconosciuti dall'amministrazione, e tuttavia condannava l'ospedale al pagamento del solo credito principale. Si deduce infatti nell'ordinanza di rinvio che il citato art. 429, terzo comma, c.p.c., risulta, in forza dell'art. 409, nuovo testo, c.p.c., inapplicabile alle controversie devolute in via generale al giudice amministrativo, nulla importando che in deroga a tale regola sussista nella specie la competenza del giudice ordinario. Inoltre, l'art. 270 del R.D. n. 827 del 1924, come è inteso dalla prevalente giurisprudenza, stabilirebbe che i debiti della pubblica amministrazione - e, così, secondo il Consiglio di Stato, degli enti pubblici ospedalieri - diventano esigibili solo dopo l'emissione del mandato di pagamento con la conseguenza di precludere la rivalutabilità dei crediti verso l'ente debitore.

Vero è - osserva il giudice a quo - che qui vengono in considerazione interessi moratori, mentre la giurisprudenza del Consiglio di Stato avrebbe accolto la suddetta interpretazione dell'art. 270 del Regolamento di contabilità con riferimento agli interessi corrispettivi. Ma non è meno vero che altra giurisprudenza vorrebbe estendere il principio in questione agli interessi moratori; e del resto, la stessa distinzione tra interessi corrispettivi e moratori sarebbe ormai revocata in dubbio dalla migliore dottrina, dovendosi ravvisare una funzione risarcitoria anche negli interessi corrispettivi. A parte ciò, l'art. 270 del Regolamento di contabilità derogherebbe al principio sancito nell'art. 1219, Cpv. n. 3, del codice civile, ai sensi del quale la costituzione in mora non è necessaria quando è scaduto il termine per l'adempimento dell'obbligazione. Il Pretore di Palmi denunzia quindi, in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 Cost., un'ingiustificata disparità di trattamento a carico dei lavoratori dipendenti dallo Stato e dagli anzidetti enti pubblici. La deroga agli artt. 1219 e 1282 c.c., disposta esclusivamente in considerazione della qualità del debitore, implicherebbe, si deduce, un'illegittima discriminazione tra i creditori, secondo che il loro rapporto intercorra con enti soggetti alla disciplina di cui all'art. 270 del decreto n. 827 del 1924, o viceversa intercorra con altri soggetti, e la discriminazione sarebbe poi tanto più grave ed evidente in quanto essa afferisce a crediti di lavoro. Nell'atto di intervento l'Avvocatura dello Stato richiama le deduzioni esposte in riferimento alla medesima questione, sollevata dalla Corte d'appello di Caltanissetta.

3. - Il Tribunale di Catania, con ordinanza emessa il 23 luglio 1976, nel procedimento civile vertente tra l'Assessorato Regionale dell'Agricoltura e Foreste e Di Marzo Nicolò, si è posto d'ufficio il problema della legittimità costituzionale dell'art. 270 del Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 23 maggio 1924, n. 827. Tale norma prescrive che le spese dello Stato (e dell'ente pubblico non economico) passino attraverso distinte e successive fasi: impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento. Il procedimento così configurato, prosegue il giudice a quo, si conclude con l'emissione del titolo di spesa, spesso a notevole distanza di tempo dall'ordinazione. La normativa testè descritta divergerebbe dal principio sancito nell'art. 1282 del codice civile, essendo giurisprudenza pacifica che gli interessi moratori decorrano a favore dei creditori della P.A. solo dall'emissione del mandato di pagamento. La questione sarebbe ictu oculi rilevante. Nel caso sottoposto all'esame del Tribunale di Catania vengono infatti in considerazione interessi maturati sul canone locatizio dovuto al Di Marzo dall'Assessorato appellante, a far tempo dalla scadenza e fino al giorno del pagamento del canone stesso; interessi moratori, dunque, che la P.A. dovrebbe corrispondere se il citato art. 270 fosse dichiarato incostituzionale, e non nella ipotesi opposta.

Si deduce, poi, che la normativa censurata confligga con i seguenti precetti della Costituzione:

a) l'art. 3, per la illegittima situazione di privilegio riservata alla P.A. - arbitra di effettuare il pagamento "in esito alla situazione generale di cassa e alla effettiva disponibilità di fondi" - rispetto ai creditori privati. Siffatta deroga del comune regime degli interessi sarebbe ingiustificata nel nostro caso, in cui viene in rilievo un rapporto costituito jure privatorum. La natura del diritto di credito non muta, si deduce, per il fatto che debitore sia un ente pubblico, invece che un soggetto privato, ed esige quell'eguaglianza di trattamento, della quale si denunzia la violazione.

b) Gli artt. 24 e 113. Al privato spetterebbe un diritto perfetto, e tuttavia privo di tutela, in quanto esigibile solo con l'emissione del mandato di pagamento. Poiché non si può escludere l'eventualità che la P.A. manchi addirittura di emettere il mandato, si subordinerebbe per questa via la realizzazione del diritto del privato ad una condizione sospensiva, che si atteggia come meramente potestativa. In ogni caso, al creditore sarebbe precluso di agire in executivis, finché il suo diritto rimanga inesigibile secondo la censurata norma di contabilità. La tutela della situazione giuridica, pienamente garantita al creditore dagli invocati precetti costituzionali, verrebbe così esclusa nel processo di esecuzione e "di fatto vanificata".

c) L'art. 97. L'osservanza del principio di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione, sancito in detto articolo della Carta fondamentale, sarebbe compromessa dal ritardo nel pagamento da parte degli enti pubblici e per converso garantita se la P.A. fosse tenuta a corrispondere gli interessi moratori, giacché, in questo caso, l'ente pubblico sarebbe indotto ad adempiere puntualmente i propri debiti.

Si osserva, infine, che il Regolamento di contabilità non è atto amministrativo, ma atto avente forza di legge. In particolare, si annette all'art. 270, che forma oggetto di specifica impugnazione, l'efficacia, caratteristica della norma speciale, di regolare il presente caso in deroga al generale disposto dell'art. 1282 del codice civile. Spetterebbe, quindi, alla Corte di conoscere della questione di costituzionalità che concerne la norma impugnata; al giudice a quo sarebbe solo concesso di delibarne, per parte sua, la rilevanza e la non manifesta infondatezza.

Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per dedurre l'infondatezza della questione. Nell'atto di intervento si svolgono le stesse deduzioni sopra riferite con riferimento alle altre ordinanze di rimessione. Si aggiunge poi che non sussiste il preteso contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione. Nella specie, assume l'Avvocatura, non si tratta di una norma processuale che limiti il diritto di difesa o di azione bensì di una norma sostanziale, che afferisce al contenuto del singolo diritto, regolarmente assistito, in tali limiti di sostanza, "dalle normali garanzie giurisdizionali".

Il procedimento discusso all'udienza del 13 febbraio 1980 veniva rinviato a nuovo ruolo con ordinanza n. 145 del 1980 e ridiscusso all'udienza del 10 dicembre 1980.

Considerato in diritto

1. - I giudizi promossi con le ordinanze in epigrafe possono, data la sostanziale identità della questione, essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - Viene sotto vario riguardo dedotta la illegittimità costituzionale dell'art. 429, terzo comma, nuovo testo, del codice di procedura civile nonché dell'art. 270 R.D. 23 maggio 1924, n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato). La prima delle citate disposizioni è impugnata dalla Corte di appello di Caltanissetta e dal Pretore di Palmi; la seconda, oltre che dai suddetti giudici, dal Tribunale di Catania. La questione è così prospettata alla Corte:

a) l'art. 429, terzo comma, c.p.c., censurato in riferimento agli artt. 3, 35, primo comma, e 36 Cost., dispone: "il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto". La lesione dei suddetti precetti costituzionali sussisterebbe in quanto si assume, per un duplice ordine di considerazioni, che la disposizione in esame sia inestensibile alla specie. Si deduce, per un verso, che le controversie dalle quali trae origine il presente giudizio riguardino crediti di lavoro nei confronti di enti pubblici: i quali ultimi sono, in virtù delle espresse statuizioni dell'art. 409, cpv. nn. 4 e 5, del codice di procedura civile, sottratti all'intera disciplina delle controversie individuali di lavoro in detto codice introdotta con legge 11 agosto 1973, n. 533, e così anche al disposto dell'art. 429 c.p.c. Per altro verso, l'estensione al caso in esame della norma or ora citata sarebbe preclusa ex art. 270 del Regolamento di contabilità generale dello Stato. Quest'ultima disposizione, che prevede distinte e successive fasi del procedimento di ordinazione ed erogazione della spesa pubblica, sarebbe intesa dalla prevalente giurisprudenza nel senso che il debito della pubblica amministrazione diviene esigibile solo con l'emissione del mandato di pagamento, al termine dell'anzidetta serie procedimentale. Si assume dunque che, tale essendo la norma regolatrice della specie, nessun limite sia posto alla sua applicazione dall'art. 429, terzo comma, c.p.c. La censurata disposizione del Regolamento di contabilità derogherebbe, d'altra parte, alla disciplina dettata dal codice civile con riguardo agli interessi nelle obbligazioni pecuniarie (art. 1282, primo comma) e alla costituzione del debitore in mora (art. 1219 cpv. n. 3). Con ciò resterebbe escluso che l'ente pubblico sia tenuto alla corresponsione degli interessi moratori e del maggior danno derivante al creditore dalla svalutazione monetaria; l'ente pubblico sarebbe allora assistito dall'ingiustificato privilegio di determinare discrezionalmente il momento in cui rendere esigibile il proprio debito: ne discenderebbe la denunziata disparità di trattamento tra la pubblica amministrazione e gli altri debitori e, correlativamente, un'illegittima discriminazione tra i titolari dei crediti di lavoro, secondo se il loro rapporto intercorra con lo Stato (comunque, con un ente pubblico a cui si applichi il Regolamento di contabilità) o invece con diverso soggetto. Di qui l'ulteriore conseguenza che - trattandosi nel nostro caso di crediti vantati da dipendenti di enti pubblici - risulterebbero lesi i principi stabiliti negli artt. 35 e 36 Cost. a tutela del lavoro e della giusta retribuzione dei lavoratori.

b) Forma oggetto del giudizio promosso dal Tribunale di Catania il solo art. 270 del Regolamento di contabilità. La specie sottoposta all'esame di quel giudice riguarda, infatti, un rapporto di locazione fra l'Assessorato Regionale dell'Agricoltura e foreste e un privato. La disposizione che si censura precluderebbe, com'é interpretata dalla giurisprudenza, l'insorgenza della mora, e il conseguente riconoscimento degli interessi maturati sul canone locatizio dal giorno della scadenza a quello in cui l'Assessorato appellante ha provveduto a effettuare il pagamento. Fin qui la questione è proposta, al pari che nelle altre ordinanze di rinvio, in relazione al principio costituzionale di eguaglianza. Si denunzia altresì la violazione degli artt. 24 e 113 Cost., deducendo che, se alla pubblica amministrazione spetta di stabilire discrezionalmente quando - o addirittura se - emettere il titolo di spesa, si viene a vanificare quella tutela, della quale dovrebbe invece godere il pieno e perfetto diritto soggettivo del creditore. Si lamenta, infine, che la denunziata deroga delle norme relative alla corresponsione degli interessi moratori pregiudichi il puntuale adempimento degli obblighi pecuniari da parte degli enti pubblici ai quali si applica il Regolamento di contabilità, e vulneri per questo verso il principio, consacrato nell'art. 97 Cost., del buon andamento della pubblica amministrazione.

3. - Giova alla corretta disamina del presente caso fermare anzitutto l'attenzione sulla censura che concerne l'articolo 429, terzo comma, c.p.c. Come risulta dal dispositivo dell'ordinanza di remissione del Pretore di Palmi, detta disposizione è denunziata in quanto essa non derogherebbe al principio sopra richiamato, che si assume sancito nell'art. 270 del Regolamento di contabilità, con la conseguenza di impedire, riguardo ai dipendenti dello Stato e degli enti pubblici non economici, la decorrenza degli interessi e la rivalutazione degli stessi crediti dal giorno della maturazione del diritto. Ora, se da un canto l'art. 429, terzo comma, c.p.c. è impugnato, nei termini testè riferiti, in relazione all'art. 270 del Regolamento di contabilità, dall'altro si deduce - dallo stesso Pretore di Palmi, e con un'autonoma ed ulteriore censura - anche l'illegittimità costituzionale di quest'ultima disposizione.

Il punto esige un cenno di chiarimento. L'art. 429 c.p.c. potrebbe derogare alla citata disposizione, e comunque al regime della contabilità pubblica - sul presupposto, è appena il caso di avvertire, che si tratti di norme incidenti sulla disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici non economici - solo se tali rapporti ricadessero sotto la sua previsione: laddove si assume dal Pretore di Palmi (e, analogamente dalla Corte d'appello di Caltanissetta) che essi ne rimangono necessariamente esclusi. La lesione del principio di eguaglianza - asserita in base alla discriminazione che opererebbe nel trattamento dei crediti di lavoro - viene così a prospettarsi sul semplice assunto che l'art. 429, terzo comma, c.p.c. sia inestensibile al caso di specie: indipendentemente, dunque, dalla dedotta incostituzionalità dell'art. 270 del Regolamento di contabilità. Ma va subito osservato che, sotto il profilo ora in esame, la questione non è fondata. In questo senso la Corte si è già pronunciata (sentenza n. 43 del 1977) in altro giudizio, in cui la stessa disposizione dell'art. 429, terzo comma, veniva denunziata, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., sostanzialmente per i motivi qui in esame: "Le ragioni giustificatrici della norma in questione" - è detto nella pronunzia testè citata, e va ora ripetuto - "non rilevano negli stessi termini modi e misura in cui ricorrono per gli enti pubblici economici. Ciò basta per constatare che le situazioni poste a raffronto sono diverse e che quindi non sussiste l'assunta illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede la disciplina sopradetta solo per i dipendenti di cui all'art. 409 del codice di procedura civile". Ciò detto si deve escludere anche la lamentata violazione degli artt. 35 e 36 Cost., dedotta sull'assunto, di cui si è appena veduta l'infondatezza, che la mancata estensione al nostro caso dell'art. 429, terzo comma, c.p.c. abbia offeso il principio costituzionale di eguaglianza.

4. - Resta da considerare la denunzia dell'art. 270 del Regolamento di contabilità. Nell'ordinanza di rinvio emessa dal Tribunale di Catania si afferma - e nelle altre due evidentemente si presuppone - che tale Regolamento sia atto dotato della forza di legge, quindi impugnabile in questa sede.

La Corte è di contrario avviso. Il Regolamento è posto con regio decreto in conformità della norma di legge che ne costituisce il fondamento, l'art. 88 del R.D. 18 novembre 1923, n.2440. Quest'ultimo atto legislativo è, a sua volta, un decreto emesso in virtù della delega concessa al governo con legge 3 dicembre 1922, n. 1601 ("Delegazione di pieni poteri al Governo del re per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione"). L'atto in cui è contenuta la norma censurata soddisfa, fuor di dubbio, i requisiti prescritti per la formazione dei regolamenti dalla legge che governava la materia: precisamente, il decreto emana, come doveva, dal re, in forza della menzionata delega, che esso espressamente richiama, e su proposta del Ministro delle finanze, sentiti il Consiglio dei ministri, la Corte dei conti e il Consiglio di Stato. La compresenza nella specie di questi elementi formali consente quindi di stabilire - in via di esclusione, e alla stregua dei criteri predeterminati dalle norme vigenti - che l'atto in esame non poteva avere base diversa dalla potestà regolamentare, qui appositamente attribuita al governo. Tale risultato s'impone, del resto, anche in considerazione di precedenti pronunzie rese in analoghi casi dalla Corte, e specialmente di quel che si è affermato con sentenza n. l8 del 1968: "In presenza di una qualificazione data dalla legge, nel senso che il governo era legittimato ad emanare un regolamento, è necessario che concorrano elementi obiettivi, certi ed inequivoci per dimostrare che, al contrario, si trattava di una vera e propria delega legislativa: il che è da affermarsi specialmente in riferimento ad un ordinamento nel quale, a differenza di quello attuale, la diversa forza degli atti normativi non dava luogo ad una semplice ripartizione fra organi diversi della competenza a sindacarne i vizi sostanziali, ma era rilevante al fine della configurabilità stessa di un controllo giurisdizionale, notoriamente escluso per gli atti legislativi". Si deve aggiungere che la qualificazione dell'atto come regolamento, privo del valore della legge, è nella specie pienamente suffragata anche dal preciso tenore della norma (il citato art. 88 del R.D. n. 2440 del 1923), dalla quale esso trae fondamento. Il governo veniva abilitato, nelle forme sopra viste, soltanto "a modificare le norme regolamentari vigenti per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, con facoltà di emanare ogni altra disposizione di complemento, di coordinamento e di attuazione". Si voleva dunque circoscrivere l'esercizio della potestà regolamentare rigorosamente nei limiti di una normazione secondaria e complementare rispetto alla legge. Nel caso in esame, infatti, il regolamento è subordinato allo stesso atto legislativo abilitante, che appresta, dal canto suo, un'organica disciplina della contabilità generale dello Stato.

Non varrebbe, d'altra parte, nemmeno osservare che la norma impugnata è stata costantemente considerata, nel diritto vivente ad opera della giurisprudenza, come un precetto idoneo a derogare, quando si tratti di debiti pecuniari dello Stato e degli anzidetti altri enti pubblici, il regime posto nel codice civile in tema di interessi moratori. A tacer d'altro, qui soccorre il rilievo che la Corte di cassazione ha con varie decisioni ultimamente negato il fondamento di una simile deroga: nel prospettare la presente questione si sarebbe, quindi, in ogni caso denunziata una norma, ormai spoglia del contenuto o dell'efficacia precettiva, che si vorrebbero far scaturire dall'interpretazione giurisprudenziale. Siamo invece, e sicuramente, di fronte ad una disposizione, la quale, comunque interpretata, è pur sempre prodotta mediante atto regolamentare: e con questa fonte non possono crearsi norme provviste dello stesso valore della legge. Nessun rilievo ha, infine, la circostanza che nelle ordinanze di rinvio si fa riferimento non solo all'art. 270 del Regolamento di contabilità, ma al contesto, o al sistema, della disciplina in cui figura questa singola disposizione, per dedurne - oltre, o piuttosto, che una norma - un qualche principio. sul quale possa esercitarsi il sindacato della Corte. Con ciò non si è, invero, ancora dimostrato che il corpo normativo dal quale un tale principio, andrebbe enucleato trascende la sfera del regolamento; né, dunque, si è dimostrato che la disposizione oggetto di puntuale censura trova nell'ordine delle fonti idonea e sicura collocazione sul piano della legge formale, o di altro atto a questa equiparato. Il che, in conclusione, comprova l'inammissibilità della questione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 270 del R.D. 23 maggio 1924, n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato), sollevata dalla Corte d'appello di Caltanissetta, dal Pretore di Palmi e dal Tribunale di Catania in riferimento agli artt. 24, 97 e 113 Cost.;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 429, terzo comma, c.p.c. in relazione all'art. 270 del R.D. 23 maggio 1924, n. 827, sollevata dalla Corte d'appello di Caltanissetta e dal Pretore di Palmi in riferimento agli artt. 3, 35, primo comma, e 36 Cost.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 13 aprile 1981.

Leonetto AMADEI – Giulio  GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.

Giovanni VITALE – Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 26 maggio 1981.