Sentenza n.21 del 1980
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SENTENZA N.21

ANNO 1980

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI  Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma primo, del d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411 (< Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70 >), con riferimento all'art. 35 ed all'allegato n. 6 del medesimo decreto promosso con ordinanza emessa il 17 gennaio 1977 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sui ricorsi proposti da Bivona Maria Felicia ed altri contro il Presidente del Consiglio dei ministri e l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, iscritta al n. 115 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 128 del 10 maggio 1978.

Visti gli atti di costituzione di Evangelista Romeo e De Giovanni Franco, di Cima Bruno ed altri e dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 ottobre 1979 il Giudice relatore Leopoldo Elia;

uditi gli avvocati Nicola Picardi per Cima Bruno ed altri, Gino Sacerdoti per l'INPS, Federico Sorrentino (delegato dall'avv. Antonio Sorrentino) per Evangelista Romeo e De Giovanni Franco e il sostituto avvocato generale dello Stato Paolo D'Amico, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

Tra le eccezioni pregiudiziali viene in evidenza quella che nega al d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411 la natura di atto avente forza di legge.

L'eccezione è fondata.

In effetti il d.P.R. né si qualifica espressamente come atto emesso in base a legge di delegazione ex artt. 76 e 77, primo comma, Cost., né manifesta altrimenti la volontà del Governo di farlo valere come legge delegata.

Inoltre non risulta in alcun modo che il legislatore, con l'art. 28 della legge 20 marzo 1975, n. 70, abbia inteso conferire all'autorità governativa il potere di approvare un testo avente forza di legge: e ciò solo sarebbe sufficiente per escluderne la sindacabilità in questa sede (tra le altre, sentt. n. 4 del 1958 e 150 del 1967).

Ma si può aggiungere che quando, con altre disposizioni della stessa legge n. 70 del 1975, si è voluto delegare al Governo la potestà legislativa, lo si è fatto in termini assolutamente inequivocabili (art. 3 in tema di conferma, ristrutturazione e soppressione di enti pubblici).

A escludere poi che il d.P.R. n. 411 del 1976 possa ritenersi atto avente forza di legge giova, ad abundantiam, la considerazione che se con l'art. 28 della legge 20 marzo 1975, n. 70 si fosse voluto davvero conferire una delega legislativa al Governo, questa verrebbe senza dubbio a porsi in contrasto con le condizioni prescritte nell'art. 76 Cost.: lasciando da parte la specificazione degli oggetti delegati e la prefissione dei principi e dei criteri direttivi, è evidente che fa difetto la previsione del momento finale del termine per l'esercizio della potestà delegata. Tale non può certo considerarsi la scadenza del triennio di durata degli accordi previsti dalla legge n. 70 del 1975 (art. 26, ultimo comma), perchè questa evenienza produce soltanto la necessità di una nuova ipotesi di accordo sindacale e di una nuova disciplina da sottoporre all'approvazione del Consiglio dei ministri.

Non vale perciò richiamarsi alla sentenza di questa Corte n. 163 del 1963 giacché altro è che il termine sia fissato in via indiretta con l'indicazione di un evento futuro ma certo, altro è che il termine, come limite finale alla durata del potere conferito, non sia affatto previsto, risultando stabilite soltanto le scadenze entro le quali un potere permanente, seppur non continuo, dovrebbe essere esercitato.

Anche a prescindere dal problema della legittimità di deleghe attuabili con esercizio ripetuto e non istantaneo della potestà delegata, l'art. 26 violerebbe la prescrizione costituzionale sulla < temporaneità > della delegazione legislativa, volta appunto a precludere la facoltà di conferire al Governo deleghe a tempo indeterminato (sent. n. 163 del 1963).

La reiterazione triennale degli accordi e delle deliberazioni del Consiglio dei ministri conferma dunque che non si tratta in questa fattispecie di una delegazione di potere legislativo, ma di una devoluzione istituzionale di potere normativo con le procedure particolari indicate nelle leggi che tengono conto della contrattazione collettiva nei vari settori del pubblico impiego. E va da sé che, nel dubbio, debba accogliersi una interpretazione degli artt. 26-28 della legge n. 70 del 1975 compatibile con il rispetto delle norme costituzionali.

Le considerazioni fin qui formulate a favore della inammissibilità non sono superabili con gli argomenti fatti valere in contrario da taluni giudici e, in questa sede, dall'Avvocatura dello Stato. Invero, la contrattazione collettiva nel pubblico impiego, nelle forme e nei limiti in cui è riconosciuta e recepita secondo le leggi dell'ultimo decennio, costituisce una innovazione così significativa ed importante nel nostro ordinamento (e con tratti così peculiari), che non è possibile in quadrarla negli schemi richiamati a proposito della legge di delegazione 14 luglio 1959, n. 741 (norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai Lavoratori) .

Inoltre il carattere della < innovatività >, da riconoscere senz'altro ad alcune norme del d.P.R. n. 411 del 1976 anche rispetto a precetti legislativi di grado primario, non presuppone affatto il carattere legislativo del decreto, avendo la legge n. 70 del 1975 aperto larghi spazi alla normazione secondaria, nel quadro della riserva di legge relativa prevista dall'art. 97 Cost.

Né vale riferirsi in contrario alla previsione dell'art. 35, legge n. 70 del l975, secondo cui lo stato giuridico, il trattamento economico e l'indennità di fine servizio del personale degli enti pubblici sottoposti al controllo o alla vigilanza delle Regioni sono disciplinati con leggi regionali: giacché in questo caso la adozione dello strumento legislativo regionale era resa necessaria dall'art. 117, primo comma, Cost., secondo cui è la legge della regione l'atto normativo che deve porsi in relazione diretta con i principi fondamentali stabiliti dalla legge dello stato (in questo caso dalla legge n. 70 del l 975). Al carattere obbligato della previsione contenuta in proposito nell'art. 35, si contrappone la situazione relativamente libera del legislatore statale che poteva scegliere tra legge ordinaria, legge delegata ed atto di normazione secondaria. Infine non interessa qui accertare il carattere regolamentare o meno di quest'atto: restando così assorbito ogni altro rilievo circa la peculiarità del procedimento di formazione dell'atto stesso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del d.P.R. 26 maggio 1976, n. 411, sollevata dal Tribunale amministrativo del Lazio con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22/02/80.

Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo  VOLTERRA – Michele  ROSSANO – Antonino  DE STEFANO – Leopoldo  ELIA – Guglielmo  ROEHRSSEN – Oronzo REALE - Brunetto  BUCCIARELLI DUCCI – Alberto  MALAGUGINI – Livio  PALADIN – Arnaldo  MACCARONE – Antonio  LA PERGOLA – Virgilio  ANDRIOLI

Giovanni  VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 27/02/80.