Sentenza n. 12 del 1978
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SENTENZA N. 12

ANNO 1978

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE,

ha pronunciato la seguente

 

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 571 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 28 giugno 1977 dalla Corte di cassazione nel procedimento relativo alla domanda di riparazione pecuniaria proposta da Micolitti Sergio, iscritta al n. 381 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 244 del 7 settembre 1977.

 

Visto l'atto di costituzione di Micolitti Sergio, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 20 dicembre 1977 il Giudice relatore Arnaldo Maccarone;

 

uditi l'avv. Pasquale Petrolillo, per Micolitti, e il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

1. - Il 20 aprile 1955 Mario Caluori, funzionario del Ministero dell'industria e commercio, veniva rinviato a giudizio davanti alla Corte di assise di Roma per rispondere, tra l'altro, del reato di cui agli artt. 81, 261 e 61, n. 9, cod. pen., per avere, in tale qualità e violando i doveri inerenti alla propria funzione, rivelato ad Aldo Pinto e ad altre persone non autorizzate a prenderne conoscenza, il contenuto di documenti che dovevano restare segreti nell'interesse politico e in quello della sicurezza dello Stato italiano. Con il Caluori venivano rinviati a giudizio, oltre al Pinto, Aldo Chiarinelli e l'avv. Sergio Micolitti per avere in concorso tra loro rivelato a terzi il contenuto di quegli stessi documenti, la cui conoscenza il Pinto aveva ottenuto dal Caluori.

Con sentenza del 22 settembre 1955 la suddetta Corte mentre affermava la penale responsabilità, in ordine alle imputazioni ad essi rispettivamente ascritte, del Caluori, del Pinto, del Chiarinelli e di altri coimputati, assolveva per insufficienza di prove il Micolitti.

La decisione era riformata dalla Corte d'assise d'appello di Roma che con sentenza 6 novembre 1956 modificava l'imputazione di cui all'art. 261 cod. pen. (rivelazione di segreti di Stato) in quella - meno grave - prevista dall'art. 262 cod. pen. (rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione dalle competenti autorita) affermando la responsabilità del Caluori, del Pinto e del Chiarinelli per tale reato e assolvendo da esso, per insufficienza di prove, il Micolitti. E detta qualificazione dei fatti addebitati era tenuta ferma in una successiva sentenza, emessa dalla stessa Corte d'assise d'appello in sede di rinvio il 9 dicembre 1959.

Divenuta definitiva la condanna, la Corte di cassazione, con sentenza del 14 dicembre 1962, annullava senza rinvio in sede di revisione, su istanza del Caluori (e per la parte a lui relativa), entrambe le sentenze 6 novembre 1956 e 9 dicembre 1959 della Corte d'assise d'appello di Roma, assolvendo il Caluori dalle imputazioni ascrittegli con la formula "perché i fatti non sussistono".

A questa decisione facevano seguito, il 31 maggio e il 3 giugno 1963, altre due decisioni della Corte di cassazione che, sempre in sede di revisione, annullavano senza rinvio le sentenze sopra richiamate della Corte d'assise d'appello di Roma anche per le parti riguardanti gli imputati Chiarinelli e Pinto, assolvendoli con la stessa formula.

2. - Con istanza 20 dicembre 1972 il Micolitti (il quale, come si é già rilevato, era stato assolto nei precedenti gradi del giudizio per insufficienza di prove dalla imputazione di cui all'art. 262 cod. pen.) chiedeva alla Corte di cassazione di estendere in suo favore - ai sensi dell'art. 203 cod. proc. pen. - gli effetti delle sentenze 14 dicembre 1962, 31 maggio e 3 giugno 1963 con le quali, in sede di revisione, erano stati assolti, nei termini sopra riferiti, il Caluori, il Chiarinelli e il Pinto.

La Cassazione riteneva che l'istanza non potesse essere accolta (essendo l'applicabilità dell'istituto della revisione limitata alle sentenze di condanna) ma, sollevava, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 553 e 554 c.p.p., denunciando la disparità di trattamento che così veniva a determinarsi tra i condannati e gli assolti con formula dubitativa.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 236 del 25 novembre 1976, dichiarava l'illegittimità costituzionale dei citati artt. 203, 553 e 554 c.p.p. "nella parte in cui, nel loro combinato disposto, non consentono che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un condannato possa spiegare l'effetto estensivo nei confronti di chi, imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato assolto per insufficienza di prove".

In seguito a questa decisione, la Cassazione con sentenza 14 gennaio 1977 annullava senza rinvio, in sede di revisione, anche nei confronti del Micolitti la sentenza 6 novembre 1956 della Corte d'assise d'appello di Roma, sempre con la formula "perché i fatti non sussistono". Quindi, investita della domanda di riparazione proposta dal Micolitti medesimo ai sensi dell'art. 571 c.p.p., con la ordinanza in epigrafe sollevava, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale del predetto art. 571, limitatamente alla parte in cui non riconosce come soggetti del diritto di chiedere la riparazione pecuniaria anche coloro che, assolti nei precedenti gradi del giudizio abbiano ottenuto in sede di revisione una formula di assoluzione più vantaggiosa.

3. - Il giudice a quo prospetta il dubbio che la norma denunziata dia luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento, lesiva del principio di uguaglianza, tra coloro a cui favore in sede di revisione sia stata riconosciuta l'ingiustizia di un'assoluzione con formula dubitativa e coloro per i quali la decisione ingiusta sia stata di condanna.

Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con memoria in data 13 settembre 1977 le cui conclusioni si precisano in una declaratoria di infondatezza della questione sollevata.

Dopo aver ricordato che questa Corte, con la sentenza n. 1 del 1969, ha già escluso che l'art. 571 c.p.p. contrasti con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, l'Avvocatura osserva che la situazione dei soggetti assolti, anche per insufficienza di prove, é ben diversa, agli effetti dei danni che in astratto possono derivare a colui che é protagonista della vicenda giudiziaria, rispetto a quella dei soggetti condannati e che, pertanto, non può ravvisarsi in detta disposizione alcuna violazione del principio di uguaglianza.

Nulla vieta - si rileva - che, in futuro, il legislatore ordinario, secondo le esigenze che si appalesino in termini non equivoci, e con la prudenza che la delicatezza della materia impone, provveda ad ulteriori estensioni dell'istituto ad altre e diverse ipotesi oltre a quelle originariamente previste. Ma non sembra che la materia possa essere oggetto di utile definizione attraverso un'eventuale pronuncia di incostituzionalità della esistente disciplina per pretesa violazione dell'art. 3 della Costituzione, tanto più che tale eventuale pronuncia che si fondasse sulla sola parziarietà della disciplina, rischierebbe di condurre ad un regresso della situazione normativa riaprendo un vuoto che non sarebbe colmabile in sede di interpretazione.

Nel giudizio si é costituito anche Sergio Micolitti, rappresentato e difeso dall'avv. Pasquale Petrolillo, con foglio di deduzioni del 26 settembre 1977.

La difesa, riportandosi al parere espresso dal Procuratore generale presso la Cassazione nel giudizio di merito, assume anzitutto che una volta ammesso, con la sentenza n. 236 del 1976 di questa Corte, che dell'istituto della revisione delle sentenze può beneficiare non solo chi fu condannato ma anche colui che fu assolto per insufficienza di prove non é dato ammettere il primo ed escludere il secondo dalla riparazione pecuniaria dell'errore giudiziario dato il carattere strettamente conseguenziale e complementare dell'istituto della riparazione rispetto a quello della revisione. Accogliendo tali premesse, la proposta questione andrebbe dichiarata non fondata potendo il problema essere risolto in via interpretativa con piena soddisfazione per l'istante.

Se peraltro tale assunto non fosse condiviso la norma denunziata dovrebbe essere dichiarata costituzionalmente illegittima dal momento che la sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove, comporta, per l'imputato, quantunque assolto, una serie di conseguenze a lui sfavorevoli sia sul piano etico sia sul piano strettamente giuridico, la cui affinità con quelle derivanti dalla sentenza di condanna non può essere razionalmente negata.

 

 

Considerato in diritto

 

 

1. - Come é stato innanzi precisato, la Corte é chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell'art. 571 c.p.p., il quale, riconoscendo il diritto di chiedere la riparazione pecuniaria soltanto al condannato poi assolto in sede di revisione, determinerebbe, secondo la ordinanza di rimessione, una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti di chi, assolto per insufficienza di prove, abbia ottenuto a seguito di revisione una formula di assoluzione più vantaggiosa, sussistendo affinità tra le due situazioni in relazione al pregiudizio derivante dalla ingiustizia della decisione di merito.

2. - La parte privata, costituitasi in questa sede, sostiene che il diritto a conseguire la riparazione pecuniaria per chi abbia ottenuto a seguito di revisione una formula di assoluzione più vantaggiosa deriva direttamente dalla sentenza di revisione, la quale ha accertato che il fatto addebitato al prosciolto non sussiste, ponendo nel nulla la precedente pronuncia di assoluzione con formula dubitativa, sicché la fattispecie rientrerebbe nella previsione dell'art. 571 c.p.p.; che riconosce il diritto alla riparazione pecuniaria a chiunque sia stato assolto a seguito di giudizio di revisione.

L'assunto non può essere condiviso. L'art. 571 c.p.p. limita espressamente il diritto alla riparazione pecuniaria a favore dei soggetti che, condannati nel giudizio di merito, siano stati poi assolti in sede di revisione, sicché é fuori della previsione della norma ogni diversa ipotesi.

Per la stessa ragione deve escludersi che il diritto alla riparazione pecuniaria consegua, quale effetto immediato e diretto, all'accoglimento dell'istanza di revisione. Tale esclusione trova conferma nel sistema normativo che regola la materia; invero, quando con la legge 14 maggio 1965, n. 481, si é ampliato l'ambito del giudizio di revisione, é intervenuto espressamente il legislatore (art. 2 legge anzidetta) per riconoscere il diritto alla riparazione pecuniaria anche nella nuova ipotesi di revisione considerata.

3. - L'Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, per contestare la fondatezza del dubbio di costituzionalità di cui si tratta, deduce che, in base all'art. 24, quarto comma, della Costituzione, spetta al legislatore determinare i casi di riparazione degli errori giudiziari ed a sostegno dell'assunto richiama i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 1 del 1969, ritenendo precluso l'intervento del giudice costituzionale.

Tali riferimenti non appaiono pertinenti. Nella fattispecie esaminata dalla citata sentenza la questione di costituzionalità dell'art. 571 c.p.p., proposta con riferimento al quarto comma dell'art. 24 Cost., riguardava la riparabilità dell'errore che aveva determinato la carcerazione preventiva di una persona poi prosciolta per insussistenza del fatto addebitato. La Corte, per escludere la fondatezza della questione proposta, osservò che "il principio della riparazione degli errori giudiziari postula l'esigenza di appropriati interventi legislativi, indispensabili per conferirgli concretezza e determinatezza di contorni, dandogli così pratica attuazione"; ritenne, in conseguenza, che il sindacato di legittimità costituzionale fosse consentito soltanto in relazione ad una disciplina legislativa concretamente adottata ma non intervenuta nella specie.

Ciò premesso, va precisato che gli elementi della fattispecie in esame differiscono da quelli del caso deciso con la sentenza innanzi indicata. Invero, per quanto concerne la riparazione degli errori giudiziari accertati in sede di revisione, il legislatore é già intervenuto con la legge 23 maggio 1960, n. 504, e quando ha ampliato le ipotesi di revisione ha esteso ad esse il diritto alla riparazione pecuniaria (legge 14 maggio 1965, n. 481), mostrando la tendenza ad assicurare la riparazione in tutte le ipotesi di favorevole esito del giudizio di revisione. Pertanto, essendo stata effettuata la disciplina della materia per quanto concerne il diritto alla riparazione degli errori giudiziari accertati in sede di revisione, sussistono i presupposti per l'intervento del giudice costituzionale, al fine di verificare se la disciplina adottata corrisponda ai precetti della Costituzione.

4. - La proposta questione appare fondata.

Come é stato innanzi ricordato, questa Corte con la sentenza n. 236 del 1976 ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per violazione del principio di uguaglianza, degli artt. 553 e 554 c.p.p., in correlazione con l'art. 203 stesso codice, nella parte in cui non consentono che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un condannato possa spiegare effetto estensivo nei confronti di chi, imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato assolto per insufficienza di prove. A seguito di tale decisione, il Micolitti, assolto nel giudizio di merito per insufficienza di prove, ottenne in sede di revisione il proscioglimento per insussistenza dei fatti addebitatigli.

Poste tali premesse, la esclusione della riparazione pecuniaria nella situazione sopra delineata appare chiaramente lesiva del principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3, comma primo, della Costituzione.

Nella richiamata sentenza n. 236 del 1976, é stato posto in luce come il proscioglimento per insufficienza di prove comporti per l'imputato - quantunque assolto - una serie di conseguenze sfavorevoli sia sul piano etico che su quello strettamente giuridico, le quali possono comportare un serio ostacolo al pieno reinserimento dell'imputato nella vita sociale e la cui affinità con quelle derivanti dalla sentenza di condanna non può razionalmente essere negata.

Deve aggiungersi che nella disciplina vigente, come é stato sopra sottolineato, non é dato riscontrare alcun caso nel quale chi sia stato assolto in sede di revisione non abbia il diritto di ottenere la riparazione pecuniaria. Anzi con la ricordata legge 14 maggio 1965, n. 481, la possibilità di chiedere la riparazione é stata riconosciuta (sia pure con riferimento ad una ipotesi particolare) anche a coloro che nel giudizio di revisione abbiano ottenuto non l'assoluzione ma la condanna per un reato meno grave.

Per le ragioni esposte, sussistono i presupposti necessari perché sia dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 571 c.p.p., per violazione del principio di eguaglianza, nella parte in cui non comprende tra i soggetti legittimati a chiedere l'equa riparazione in esso prevista anche chi abbia conseguito nel giudizio di revisione l'annullamento di una sentenza irrevocabile di assoluzione per insufficienza di prove, ottenendo l'assoluzione con formula più favorevole.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 571 c.p.p. nella parte in cui non comprende tra i soggetti legittimati a chiedere l'equa riparazione in esso prevista anche chi abbia conseguito, nel giudizio di revisione, l'annullamento di una sentenza irrevocabile di assoluzione per insufficienza di prove, ottenendo l'assoluzione con formula più favorevole.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1 febbraio 1978.

 

 Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI  - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE

 

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 2 febbraio 1978.