sentenza n. 98 del 1977
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SENTENZA N. 98

ANNO 1977

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Paolo ROSSI, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 169, comma secondo, 173 e 268, comma primo, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 31 ottobre 1975 dal tribunale di Torino, nel procedimento per incidente di esecuzione promosso da Francesco Vivo, iscritta al n. 613 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51 del 25 febbraio 1976.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 febbraio 1977 il Giudice relatore Michele Rossano;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Il Presidente del consiglio di amministrazione dell'ospedale civile "San Lorenzo" di Carmagnola denunziò, il 31 ottobre 1966, ai carabinieri della stazione di Carmagnola (Torino) che, tramite il segretario dello stesso ente, rag. Luigi Stabile, era venuto a conoscenza dell'ammanco della somma di lire 10.448.397, indebitamente prelevata, in più riprese, dal dott. Francesco Vivo, dipendente con la qualifica di ragioniere, con la connivenza dell'economo Ruggero Bruschetta, il quale non aveva segnalato il fatto, nonostante ne fosse venuto a conoscenza.

Lo stesso Presidente consegnò ai carabinieri una lettera in data 28 ottobre 1966, con la quale il dott. Vivo aveva confessato di avere prelevato la complessiva somma di L.10.358.100 e di essere l'unico responsabile della sottrazione, dichiarando che sperava di restituire tale somma al più presto e che, qualora fosse stato ricercato, difficilmente lo avrebbero trovato e avrebbero corso il rischio "di non recuperare niente".

Vivo Francesco fu interrogato, il 30 dicembre 1966, dalla polizia giudiziaria di Torino, nell'Ufficio del commissario di p.s. "Castello"; dichiarò che abitava in Ivrea, via Quartiere Bellavista, n. 72; e momentaneamente in Torino, via Della Rocca n. 27, presso Cataldo; confesso di essersi impossessato complessivamente della somma di lire 10.500.000 circa, prelevata in più riprese, prima per le sue precarie condizioni economiche familiari e, poi, per giocare nei Casinò di San Remo e Saint Vincent precisò che non era in grado di restituire all'ospedale la suddetta somma.

Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino trasmise gli atti al giudice istruttore dello stesso tribunale con la richiesta di contestare a Vivo Francesco ed a Bruschetta Ruggero, con mandato di comparizione, il reato di peculato aggravato continuato (artt. 110, 81 cpv. e 314 cod. pen.) "per essersi, in qualità di dipendenti dell'Ente di diritto pubblico ospedale "San Lorenzo" di Carmagnola (e precisamente il primo in qualità di ragioniere con funzioni di "revisore" ed il secondo come "economo responsabile" dei movimenti di cassa), in concorso tra loro ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, appropriati, in un periodo di tempo compreso tra il giugno e l'ottobre dell'anno 1966, di complessive lire 10.448.397, appartenenti al predetto ospedale, custodite nella cassaforte, di cui entrambi detenevano la copia delle relative chiavi".

Il giudice istruttore, con atto 11 novembre 1970, invitò il Vivo, ai sensi dell'art. 128 cod. proc. pen., a nominare un difensore ed a dare comunicazione dì tale nomina con l'avvertimento che, in difetto ditale dichiarazione nel termine di 3 giorni dalla notifica, era nominato d'ufficio per ogni effetto l'avv. Altara. La notifica ditale invito non fu effettuata perché, come risulta dalla relata 13 novembre 1970 dell'ufficiale giudiziario, Vivo Francesco era "sconosciuto" all'indirizzo di Ivrea, Quartiere Bellavista n. 72, e "non iscritto all'anagrafe".

Il giudice istruttore, con nota 11 dicembre 1970, chiese al commissariato di p.s. di Ivrea ed ai carabinieri di Molfetta di accertare l'attuale domicilio del Vivo, non reperito all'ultimo domicilio di via Bellavista 72 o 78 di Ivrea.

Il commissariato di p.s. di Ivrea, con rapporto 24 dicembre 1970, comunicò all'Ufficio di istruzione del tribunale di Torino che Vivo Francesco non era stato mai iscritto all'anagrafe di Ivrea; che la moglie del Vivo aveva dichiarato di non averlo più visto dal 1966; che ulteriori accertamenti, eseguiti per individuare l'attuale recapito del Vivo, avevano dato esito negativo.

I carabinieri della stazione di Molfetta, con rapporto 17 dicembre 1970, riferirono all'Ufficio di istruzione del tribunale di Torino che dagli atti dell'anagrafe risultava che Vivo Francesco era nato in Molfetta il 9 aprile 1921, perché il padre era allora residente in Molfetta quale ferroviere; che non erano note la data e la località del trasferimento ed in Molfetta non vi erano né parenti, né conoscenti.

I carabinieri della compagnia di Ivrea confermarono, con rapporto 4 dicembre 1970, che Vivo Francesco era iscritto all'anagrafe del comune di Bollengo (Torino), ma di fatto non aveva mai abitato in quel comune; e che la di lui moglie, residente in Ivrea, Quartiere Bellavista n. 78, non aveva saputo fornire dichiarazioni utili al fine del rintraccio del medesimo.

L'Ufficio anagrafe del comune di Torino certifico, il 13 aprile 1971, che Vivo Francesco non era iscritto a quella anagrafe.

Gli avvisi di procedimento (ai sensi dell'art. 304 cod. proc. pen. sostituito dall'art. 8 legge 5 dicembre 1969, n. 932), in data 11 novembre 1970 e 17 marzo 1971, 17 aprile 1971 non furono notificati al Vivo, nel domicilio di via della Rocca n. 27 presso De Cataldo, perché il medesimo non fu rinvenuto in tale domicilio, né era conosciuto dagli inquilini.

Negli stessi avvisi il giudice istruttore nominò difensore d'ufficio del Vivo l'avv. Altara.

Con provvedimento 16 giugno 1971 il giudice istruttore, ritenuto che erano "risultate vane le ricerche dell'imputato Vivo Francesco" e che non apparivano utili ulteriori indagini, dichiarò "l'irreperibilità" del Vivo e dispose che il mandato di comparizione venisse notificato mediante deposito in cancelleria, con avviso al difensore d'ufficio avv. Altara.

Il mandato di comparizione venne, quindi, notificato mediante deposito nella cancelleria ai sensi dell'art. 170 cod. proc. pen. Il p.m. in data 23 febbraio 1972 chiese al giudice istruttore di contestare al Vivo il reato di peculato continuato aggravato con mandato di cattura "consigliato dalla gravità del fatto e dalla irreperibilità del prevenuto e sussistendo sufficienti indizi, desunti tra l'altro da confessione resa dal Vivo alla polizia il 30 dicembre 1966".

Chiese, inoltre, di contestare al Vivo il reato di emissione di assegni a vuoto con mandato di comparizione.

Il mandato di cattura, emesso il 28 febbraio 1972 dal giudice istruttore, non fu eseguito perché, come risulta dal verbale 13 marzo 1972 dì vane ricerche dei carabinieri del nucleo investigativo della legione di Torino, il Vivo venne ricercato presso la sua abitazione, Quartiere Bellavista, n. 72, Ivrea, ed altri luoghi, ma con esito negativo in quanto si era reso irreperibile. Nello stesso verbale i carabinieri assicurarono che le ricerche del Vivo sarebbero state effettuate con particolare impegno e che sarebbe stata data comunicazione di ogni utile notizia.

Il giudice istruttore, con atto 22 marzo 1972, dichiarò "la latitanza" del Vivo ed ordinò il deposito del mandato di cattura per 3 giorni con avviso all'avv. Altara, difensore d'ufficio.

Con sentenza 18 aprile 1972 il giudice istruttore, su conformi richieste del p.m., ordinò il rinvio di Vivo Francesco a giudizio davanti al tribunale di Torino per rispondere del reato di peculato aggravato, "fermo restando il mandato di cattura", e dichiarò non doversi procedere nei confronti di Bruschetta Ruggero in ordine allo stesso reato di peculato aggravato continuato per non aver commesso il fatto e in ordine al reato di omissione di atti di ufficio contestatogli per non aver segnalato gli ammanchi di cassa. Dichiarò, inoltre, non doversi procedere nei confronti del Vivo in ordine al reato di emissione di assegni a vuoto per essere tale reato estinto per amnistia.

L'avviso di deposito della sentenza di rinvio a giudizio fu notificato, il 19 aprile 1972, al Vivo mediante deposito in cancelleria, a norma dell'art. 170 cod. proc. pen., e all'avv. Altara a mani della segretaria.

Il decreto di citazione a giudizio fu notificato al Vivo ai sensi dell'art. 170 cod. proc. pen., mediante deposito in cancelleria, e al suo difensore d'ufficio a mani della segretaria.

Con sentenza 16 aprile 1973 il tribunale di Torino dichiarò Vivo Francesco - ("latitante non comparso, contumace") - colpevole del reato ascrittogli e lo condannò alla pena di tre anni e sei mesi di reclusione e lire 300.000 di multa, dichiarandolo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici.

Su richiesta 1 ottobre 1974 della cancelleria del tribunale di Torino - "ufficio appelli" -, i carabinieri della stazione di Ivrea-Banchette riferirono, con rapporto 18 novembre 1974, che Vivo Francesco si era trasferito a Milano, via Attilio Momigliano n. 2.

La sentenza di condanna fu notificata al Vivo il 3 luglio 1975 mediante deposito in cancelleria, ai sensi dell'art. 170 cod. proc. pen., e al difensore di ufficio a mani della segretaria.

La sentenza non fu impugnata.

L'ordine di carcerazione, emesso il 28 luglio 1975, fu eseguito il 12 agosto successivo.

Vivo Francesco, detenuto nelle carceri giudiziarie di Torino, propose il 14 agosto 1975 incidente di esecuzione avverso l'ordine di carcerazione e appello tardivo contro la sentenza, affermando che alla data del 16 aprile 1973 (data della sentenza di condanna) il suo domicilio "era, come é tuttora, eletto in Milano via A. Momigliano n. 2, ed era tale dall'1 gennaio 1971".

Vivo Francesco, comparso il 28 ottobre 1975 davanti al tribunale di Torino, riunito in camera di consiglio per decidere sull'incidente di esecuzione, esibì patente di guida e carta di identità rilasciate rispettivamente il 10 gennaio 1973 ed il 9 maggio 1973, e recanti l'indicazione della sua residenza in Milano, via Moinigliano n. 2.

Il p.m. chiese che l'appello venisse dichiarato inammissibile perché proposto fuori termine, osservando che la notifica dell'estratto della sentenza era stata effettuata a norma dell'art. 170 cod. proc. pen. perché l'imputato era latitante.

Il tribunale di Torino, con ordinanza 31 ottobre 1975, sollevò, di ufficio, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 173, 169, comma secondo, e 268, comma primo, cod. proc.pen. in riferimento agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione.

Considerato in diritto

1. - Il tribunale di Torino ha sollevato, di ufficio, le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione:

1) "dell'art. 173 cod. proc. pen. nella parte in cui, per l'imputato latitante, rinvia solamente al primo capoverso dell'art. 170 cod. proc. pen. e non all'intera disciplina dell'articolo 170";

2) "dell'art. 169, comma secondo, cod. proc. pen. nella parte in cui vieta che, per l'imputato latitante, la notificazione possa avvenire nel luogo ove l'imputato ha temporanea dimora o recapito, mediante consegna a persona che conviva anche temporaneamente con lui";

3) "dell'art. 173 cod. proc. pen. nella parte in cui - secondo l'interpretazione vigente - vieta il ricorso a forme di notificazione diverse dal deposito nella cancelleria o segreteria, anche quando si conosca il luogo dell'abitazione del latitante o quando esista una elezione di domicilio";

4) "dell'art. 268, comma primo, cod. proc. pen. nella parte in cui consente una presunzione di volontaria sottrazione, da parte dell'imputato, ad un provvedimento di cattura emesso a suo carico, anche quando non risulti che l'imputato abbia effettiva conoscenza del provvedimento, ovvero quando non risulti che l'imputato abbia conoscenza che a suo carico pende procedimento per un reato che comporta l'emissione obbligatoria di un ordine o di un mandato di cattura".

2. - Tale disciplina, secondo il tribunale di Torino - che ha invocato le sentenze di questa Corte n. 57 del 1965 e n. 54 del 1971 - sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

L'art. 3 sarebbe violato perché sussisterebbe una disparità di trattamento, non giustificata, tra il latitante e l'irreperibile. La disciplina sopra richiamata comporterebbe anche una "drastica limitazione del diritto di difesa".

La distinzione tra imputato irreperibile - che si sottrae al generico obbligo di rendere nota la sua residenza o dimora - e imputato latitante - che si sottrae ad un provvedimento coercitivo dell'autorità giudiziaria - non sussisterebbe neppure di fatto, in determinati casi, ben potendo il latitante ignorare l'esistenza del provvedimento di cattura a suo carico. La posizione del latitante dovrebbe essere equiparata a quella dell'irreperibile quando non risulti che l'imputato (latitante) abbia avuto effettiva conoscenza del provvedimento di cattura oppure abbia avuto conoscenza - a mezzo di qualsiasi atto processuale notificatogli in forma diversa da quella prevista dall'art. 173 cod. proc. pen. - della pendenza di un procedimento per reato che comporti l'emissione obbligatoria di provvedimento di cattura.

Sarebbe legittima la presunzione di volontaria sottrazione solo quando l'imputato abbia conoscenza - attraverso un qualsiasi atto notificatogli in forma diversa da quella prevista dall'art. 173 cod. proc. pen. - che a suo Carico pende un procedimento per un reato che comporta l'emissione obbligatoria di un ordine o di un mandato di cattura. Solo in questi casi sarebbe consentita l'adozione della forma di notifica prevista dall'art. 173 cod. proc. pen.

La Corte di cassazione, invece, avrebbe individuato una presunzione di volontarietà affermando che "perché sussista l'estremo della volontarietà, necessario a caratterizzare lo stato dì latitanza ai sensi dell'art. 268 cod. proc. pen., non occorre che il soggetto colpito d'al provvedimento coercitivo della autorità giudiziaria sia a conoscenza dell'avvenuta emissione del provvedimento stesso o delle ricerche in corso, ma basta che si metta in condizioni di irreperibilità pur sapendo che é stato emesso o può essere emesso quel provvedimento coercitivo che effettivamente é stato emesso".

3. - Le questioni non sono fondate.

L'art. 268, comma primo, cod. proc. pen. non Stabilisce alcuna presunzione legale, come lo stesso tribunale pone in risalto, ma con la formula "é latitante chi volontariamente si sottrae all'esecuzione di un mandato di cattura ovvero di un ordine di cattura, di arresto o di carcerazione" demanda all'autorità giudiziaria competente l'accertamento in concreto dei presupposti di fatto rilevanti, in applicazione del principio di diritto che dalla formula legislativa é ricavabile nell'osservanza delle norme di ermeneutica. E le "massime", alle quali l'ordinanza si riferisce, non integrano una "presunzione di volontaria conoscenza", ma sono enucleate da motivazioni concernenti fattispecie concrete, nelle quali, ricorrendo i presupposti di fatto rilevanti, é accertata la volontaria sottrazione al provvedimento coercitivo, obbligatorio o facoltativo.

Le massime costituiscono soltanto principi di diritto in tema di interpretazione della volontà da valere nei singoli processi, né escludono che il giudice possa accertare in fatto la volontarietà della latitanza. Né limiti all'accertamento dei presupposti di fatto rilevanti pone la legge nemmeno nei casi di incidenti di esecuzione in quanto, ai sensi dell'art. 630, ultimo comma, cod. proc. pen., il giudice, prima di deliberare sull'incidente, può chiedere all'autorità competente tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno, nell'osservanza, quando occorre, delle disposizioni concernenti la istruzione formale.

4. - Non sono appropriati i riferimenti del tribunale di Torino alle sentenze di questa Corte n. 57 del 1965 e n. 54 del 1971. Invero, con la sentenza n. 57 del 1965 é stato precisato che la posizione del latitante o dell'evaso e ben distinta da quella del "renitente", dato che "mentre per il latitante o l'evaso la notifica ai sensi dell'art. 170 cod. proc. pen. non comporta la limitazione di alcun diritto, in quanto essi si sono resi irreperibili ed hanno quindi posto la giustizia in condizioni di dovere - in mancanza di altra possibilità - ricorrere a questa forma di notificazione, io stesso non può dirsi per l'imputato renitente".

La notifica al latitante ai sensi dell'art. 170 cod. proc. pen. é l'unica forma di notifica che possa consentire l'ulteriore svolgersi del giudizio a salvaguardia dell'interesse, di preminente valore pubblico, connesso all'esercizio della giurisdizione penale (sent. n. 117 del 1970). Il precetto enunciato nell'art. 24, comma secondo, della Costituzione non esclude che con l'interesse all'accertamento dell'illecito ed alla restaurazione dell'ordine giuridico sia armonizzata la esplicazione del diritto di difesa come disciplinato dalla legge (sent. n. 54 del 1971).

Con altra sentenza citata dal tribunale di Torino, n. 54 del 1971, che concerne le notificazioni all'imputato irreperibile, é stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 d.P.R. 8 agosto 1955, n. 666 (concernente disposizioni transitorie, di coordinamento e di attuazione della legge 18 giugno 1955, n. 517) nella parte in cui prescrive che il decreto di irreperibilità, emesso nel giudizio di primo grado, cessa di avere efficacia solo con la trasmissione degli atti al giudice competente per il giudizio di appello e non con la pronuncia del giudice di primo grado.

Con la stessa sentenza, peraltro, sono state dichiarate non fondate questioni anch'esse sollevate in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, e concernenti la legittimità costituzionale dell'art. 170 cod. proc. pen., denunciato sotto i profili che la disciplina, da esso dettata in tema di notificazioni all'imputato irreperibile, é diretta a costituire una fictio juris o una presunzione legale e non ad assicurare l'effettiva conoscenza degli atti da parte dell'imputato; che la stessa disciplina prevede nuove ricerche "particolarmente nel luogo di nascita o in quello dell'ultima dimora dell'imputato" e non obbligatoriamente in entrambi i luoghi; e non impone l'obbligo di disporre nuove ricerche nel corso di ciascuna fase del processo.

5. - La disciplina delle notificazioni all'imputato latitante non é, quindi, in contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione. Né sussiste la violazione dell'art. 3, comma primo, della Costituzione, che si ha, secondo la giurisprudenza di questa Corte, quando la disparità di trattamento obiettivamente risulti per situazioni simili e con riferimento all'interpretazione di norme di legge astrattamente considerate. Diversa é, invece, la situazione del latitante - e cioè dell'imputato che si sottrae volontariamente, nel senso sopra specificato, all'esecuzione del provvedimento restrittivo della libertà personale, emesso nell'interesse di giustizia sulla base di motivi specificamente indicati - da quella dell'irreperibile, cioè dell'imputato al quale non é possibile effettuare la notifica nei modi ordinari stabiliti dall'art. 169 cod. proc. pen.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 169, comma secondo, 173 e 268, comma primo, codice procedura penale, sollevate dal tribunale di Torino, con ordinanza 31 ottobre 1975, in riferimento agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 1977.

Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 2 giugno 1977.