SENTENZA N. 143
ANNO 1976
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Paolo ROSSI, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 102 e 109, secondo comma, del codice penale, promossi con due ordinanze emesse il 20 aprile 1974 dal giudice di sorveglianza del tribunale di Firenze nei procedimenti per l'applicazione di misure di sicurezza a carico di Bruni Giancarlo e di Pandi Giorgio, iscritte ai nn. 240 e 241 del registro ordinanze 1974 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 180 del 10 luglio 1974.
Udito nella camera di consiglio del 25 marzo 1976 il Giudice relatore Nicola Reale.
Ritenuto in fatto
Con due ordinanze, di identico contenuto, emesse il 20 aprile 1974, nel corso di procedimenti promossi dal P.M. per la dichiarazione di abitualità a delinquere e per la conseguente applicazione di misure di sicurezza a carico di Pandi Giorgio e di Bruni Giancarlo, il giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento all'art. 111, comma primo, Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 102 e 109 cpv. codice penale, concernenti la dichiarazione di abitualità nel reato presunta dalla legge.
Le due ordinanze, ritualmente comunicate e notificate nei modi di legge, sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 180 del 10 luglio 1974. Nei giudizi non vi é stata costituzione di parte né intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. - Per il combinato disposto degli artt. 102 e 109 c.p. é dichiarato delinquente abituale "chi, dopo essere stato condannato alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti non colposi, della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non contestualmente, riporta un'altra condanna per un delitto, non colposo della stessa indole e commesso entro dieci anni successivi all'ultimo dei delitti precedenti". La dichiarazione può essere pronunziata in ogni tempo e comporta - fra l'altro - anche l'applicazione di misure di sicurezza.
Peraltro, il successivo art. 204, dopo aver stabilito che in alcuni casi espressamente determinati (tra i quali rientra la dichiarazione di abitualità nei reato) la qualità di persona socialmente pericolosa (necessaria per l'applicazione delle misure di sicurezza, secondo quanto disposto nel primo comma del medesimo articolo) é presunta dalla legge, dispone che, ciò non di meno, anche in tali ipotesi l'applicazione delle misure di sicurezza é subordinata al concreto accertamento delle suddette qualità "se la condanna o il proscioglimento é pronunciato: 1) dopo dieci anni dal giorno in cui é stato commesso il fatto, qualora si tratti di infermi di mente, nei casi preveduti dal primo capoverso dell'art. 219 e dall'art. 222; 2) dopo cinque anni dal giorno in cui é stato commesso il fatto, in ogni altro caso".
2. - Il giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze, chiamato ad emettere dichiarazione di abitualità presunta dalla legge e ad applicare una misura di sicurezza nel corso di due procedimenti distinti, ma di analogo oggetto, a carico, rispettivamente, di tali Pandi Giorgio e Bruni Giancarlo, con ordinanze 8 e 20 marzo 1972 ebbe a sollevare questione di legittimità costituzionale circa gli artt. 102 e 109 c.p. in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione. La legittimità della prima norma, concernente la abitualità nel delitto presunta dalla legge, fu posta in dubbio sul riflesso che detta norma, non accordando al giudice la possibilità di tener conto delle motivazioni e dei significati delle condotte criminose dei vari soggetti ricaduti nel delitto, non consentirebbe di adottare un trattamento differenziato per situazioni che si presentano tra loro diverse ed, inoltre, ostacolerebbe la funzione rieducatrice della pena.
L'art. 109, secondo comma, c.p., venne poi impugnato sotto il profilo che esso, consentendo che la dichiarazione di abitualità nel reato può essere effettuata in ogni tempo (anche dopo l'esecuzione della pena, sulla base della condotta già considerata nella sentenza di condanna senza tener conto della condotta successiva), determinerebbe un ingiustificato trattamento discriminatorio e, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, l'emarginazione di una categoria di soggetti dall'ambiente sociale.
Peraltro, con sentenza n. 168 del 1972 di questa Corte entrambe le questioni furono ritenute non fondate.
3. - Ripreso il corso dei due giudizi lo stesso giudice con altre due ordinanze, di identico contenuto, ha sollevato nuovi dubbi in ordine alla legittimità costituzionale dei già citati artt. 102 e 109 cpv. c.p., questa volta in riferimento all'art. 111, comma primo, Cost., il quale dispone che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati.
Il giudice a quo, premesso che, nei casi sottoposti al suo esame l'applicazione di misure di sicurezza, essendo decorso il periodo di tempo indicato nell'art. 204, secondo comma, n. 2, c.p., presuppone il concreto accertamento della pericolosità sociale, osserva che dagli accertamenti effettuati entrambi i soggetti interessati risultano inseriti nelle rispettive famiglie e dediti ad onesta attività lavorativa e non sono quindi socialmente pericolosi onde non potrebbe essere loro applicata alcuna misura di sicurezza. D'altro canto, nonostante l'esito dei predetti accertamenti essi andrebbero ugualmente dichiarati delinquenti abituali e cioé soggetti caratterizzati da una pericolosità sociale particolarmente qualificata. Infatti, per il tassativo disposto dell'art. 109 cpv. codice penale, il giudice é tenuto ad emettere, ove ricorrano le condizioni stabilite dall'art. 102 c.p., la dichiarazione di delinquenza abituale in ogni tempo e quindi anche quando, essendo decorsi i termini indicati dall'art. 204, comma secondo, c.p., egli si trovi ad accertare (ai fini della applicazione delle misure di sicurezza) che il soggetto non é socialmente pericoloso. Un provvedimento siffatto, reso inevitabile dal contenuto delle norme sopra richiamate, si fonderebbe peraltro su una motivazione contraddittoria e certamente non rispondente al principio sancito nel primo comma dell'art. 111 Cost., sopra riferito, il cui rispetto richiederebbe che siano esposte in modo coerente, logico e articolato le ragioni del decidere.
4. - La questione non é fondata.
La motivazione consiste nella "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione é fondata" (art. 474 c.p.p.) e, secondo quanto comunemente si ritiene, il relativo obbligo é adempiuto se il giudice espone quanto basti ad individuare il processo logico-giuridico che ha seguito nel pervenire alla risoluzione delle questioni sottoposte al suo esame. Questa Corte ha, d'altro canto, precisato, in varie occasioni che, quando il legislatore prevede come obbligatoria l'adozione di un provvedimento in relazione al verificarsi di certe ipotesi astrattamente previste, l'esigenza di una motivazione del provvedimento é rispettata con l'enunciazione in esso della sussistenza, nel caso concreto, delle circostanze previste dalla legge (sent. n. 68 del 1967; n. 64 del 1970; n. 4 del 1970 e n. 89 del 1972).
Ciò premesso, non può non rilevarsi che la pretesa violazione dell'art. 111, comma primo, Cost., consistente - secondo il giudice a quo - in una insanabile contraddizione tra i due punti della decisione circa la pericolosità del soggetto e l'applicabilità al medesimo delle misure di sicurezza, tale da tradursi - sempre secondo il detto giudice - in una vera e propria assenza di motivazione, non sussiste.
Infatti, le due pronunzie che il giudice é chiamato ad emettere non hanno necessariamente lo stesso contenuto e sono pertanto suscettibili di autonoma motivazione. Per vero, ai fini della dichiarazione di delinquenza abituale presunta dalla Legge, di cui all'art. 102, il giudice deve limitarsi ad accertare se sussistono i presupposti difatti richiesti per la dichiarazione: specie, gravità e numero delle condanne e tempo in cui sono state pronunziate. Se questi presupposti sono accertati sorge per il giudice l'obbligo di emettere la declaratoria di delinquenza abituale rimanendo sottratta ad ogni suo apprezzamento discrezionale l'indagine sulla sussistenza o meno di una pericolosità sociale del soggetto.
Invece, nelle ipotesi previste dal secondo comma dell'art. 204 cod. pen., l'indagine del giudice va rivolta ad accertare se chi ha commesso il fatto sia in concreto persona socialmente pericolosa (e, cioé, persona che é probabile commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati: art. 203 cod. pen.) e ciò anche se si tratti di soggetto da dichiarare delinquente abituale ai sensi dell'art. 102 del codice penale.
Appare allora evidente che un'eventuale contraddizione tra le due pronunzie non può riguardare le decisioni e tanto meno le motivazioni su cui esse si fondano, almeno sotto il profilo dell'art. 111 Cost., ma semmai, e sotto altri profili, le normative che il giudice ha correttamente applicato.
5. - Comunque la Corte ritiene che, stando al diritto vigente, sia da escludersi l'asserita contraddizione tra le due norme. Invero, il loro differenziato contenuto é conseguenza della diversità di caratteri tra pericolosità sociale (che costituisce il comune presupposto di tutte le misure di sicurezza) e abitualità nel reato; diversità di caratteri che trova conferma, oltre che nella diversa collocazione sistematica dei due istituti, anche nella circostanza che gli effetti penali i quali direttamente conseguono dalla dichiarazione di abitualità non si estinguono con la revoca delle misure di sicurezza, ma soltanto per effetto della riabilitazione, la quale postula il decorso di dieci anni dalla revoca della misura e, quindi, dalla cessazione della peculiare pericolosità che questa suppone (art. 179, terzo comma, cod. pen.).
Invero, altro é dichiarare un soggetto delinquente abituale, altro é applicargli una misura di sicurezza. Nel primo caso consegue dalla dichiarazione che un soggetto, reiteratamente recidivo specifico, incorra nella interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 29, secondo comma, cod. pen.) e sia escluso da determinati benefici per lo più relativi all'estinzione del reato o della pena (artt. 151, 174, 164, 172, 179). Nel secondo caso, invece, si tratta d'applicare una misura restrittiva della libertà personale (artt. 216 e 226 cod. pen. in relazione allo art. 109 cod. pen.) la quale trova fondamento e giustificazione nella probabilità che l'individuo commetta nuovi reati e la cui coincidenza con l'accertata delinquenza abituale, da presumersi per legge in un primo tempo, non ha necessariamente carattere permanente e può anche venire meno in un tempo successivo, pur perdurando gli altri effetti della dichiarazione di abitualità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 102 e 109, comma secondo, del codice penale, sollevata in riferimento all'art. 111, comma primo, della Costituzione, dal giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 giugno 1976.
Paolo ROSSI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 22 giugno 1976.