SENTENZA N. 164
ANNO 1975
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, secondo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 (Disciplina del trattamento di riversibilità delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità e la vecchiaia), promosso con ordinanza emessa il 9 febbraio 1973 dal tribunale di Bolzano nel procedimento civile vertente tra Magresso Anna e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 168 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubbica n. 169 del 4 luglio 1973.
Visti gli atti di costituzione di Magresso Anna e dell'Istituto nazionale della previdenza sociale;
udito nell'udienza pubblica del 23 aprile 1975 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi;
udito l'avv. Benedetto Bussi, per Magresso Anna.
Ritenuto in fatto
1. - Nel procedimento civile vertente tra Anna Magresso e l'INPS, il tribunale di Bolzano, con ordinanza del 9 febbraio 1973, ha sollevato, in riferimento all'art.3, comma primo, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma secondo, del decreto legislativo luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 (disciplina del trattamento di riversibilità delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità e la vecchiaia), secondo cui non hanno diritto a pensione (di riversibilità) "le figlie maritate".
Osservato che solo in caso di declaratoria dell'illegittimità costituzionale della norma denunciata, la domanda dell'attrice avrebbe potuto essere accolta, il giudice a quo ha rilevato che sarebbe ispirata a disattendibili principi formalistici la tesi sostenuta in giudizio dall'INPS secondo cui la ratio del differente trattamento dei figli sposati e delle figlie maritate risiederebbe nel fatto che ai bisogni della vita della donna maritata deve provvedere il marito e non più il padre, mentre i figli sposati non hanno diritto di essere mantenuti dalle loro mogli; che la distinzione contenuta nella norma denunciata appare del tutto illogica qualora la donna maritata si venga di fatto a trovare in stato di bisogno ed in particolare, sia inabile al lavoro e viva col padre ed a suo carico all'atto della morte di questo, e ciò perché non é escluso dal diritto in questione il figlio maschio pure coniugato che si trovi nella identica situazione; e che, quindi, la differenziazione di trattamento che si ha nonostante la perfetta identità delle obiettive, reali situazioni, é collegata al (differente) sesso dei figli dell'assicurato o del pensionato che viene a morte.
2. - Con le deduzioni la Magresso ha chiesto a questa Corte di voler dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma denunciata.
Premesso che in base all'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, il diritto alla pensione di riversibilità spettava ai figli ultradiciottenni che fossero inabili al lavoro e a carico del genitore al momento della di lui morte, e che quindi con quella norma si volevano mantenere ai figli del pensionato o assicurato deceduto i mezzi di sussistenza di cui essi disponevano in precedenza, la Magresso ha osservato che la limitazione introdotta con la legge del 1945 appariva fondata esclusivamente sul sesso, e non rilevava il riferimento allo stato civile perché effettuato nei confronti del richiedente già qualificato in base al sesso; che non valeva invocare in contrario l'obbligo del mantenimento da parte del coniuge perché tale obbligo gravava sia sul marito che sulla moglie; e che, se la figlia inabile coniugata vive a carico del genitore al momento della di lui morte, con l'accertamento di tale condizione si ha anche quello che la detta figlia non é mantenuta dal marito, e non interessa quali siano o possano essere le cause di tale situazione. Ne discende l'illegittimità costituzionale della norma perché l'art. 3 della Costituzione "non ammette differenza di trattamento che si fondi sul sesso senza perseguire finalità costituzionalmente apprezzabili".
Nella memoria la Magresso ha svolto le dette ragioni richiamandosi alle sentenze di questa Corte n. 135 del 1971 e n. 53 del 1969 e sostenendo che i principi in esse affermati si attagliano perfettamente al caso.
3. - Per l'INPS, che ha chiesto alla Corte di provvedere come di giustizia, la vivenza a carico sarebbe in qualunque ipotesi condizione del sorgere del diritto, e però il matrimonio dei figli, con l'allontanamento degli stessi dalla casa paterna, farebbe presumere la non vivenza a carico tra genitore e figli. La norma de qua sarebbe in armonia con tali principi.
Non rileverebbe poi il fatto che la detta presunzione sarebbe iuris tantum per i figli sposati e iuris et de iure per le figlie maritate, perché ciò corrisponderebbe al fatto che nella realtà sociale tuttora esistente é maggiore la probabilità che sia la moglie anziché il marito a dipendere economicamente dal coniuge.
Ed infine non potrebbe trascurarsi che l'inabilità del figlio sposato (e cioé di un marito) produce normalmente uno stato di bisogno familiare più grave della inabilità della figlia maritata (e cioé di una moglie).
4. - A queste considerazioni ha risposto, con la memoria, la Magresso, osservando che l'attuale realtà sociale ed economica ben a ragione alla base della ormai imminente riforma del diritto di famiglia, persuade della inconsistenza di arcaiche differenziazioni tra l'apporto lavorativo del marito e della moglie nell'economia familiare, ed altresì che le condizioni di legge previste per il diritto alla riversibilità "non possono ritenersi sussistenti o insussistenti, per presunzione di legge avente un maggiore o minore grado di vincibilità, a seconda del sesso e dello stato civile", senza dar luogo a discriminazioni costituzionalmente illegittime".
La Magresso, infine, ha osservato che le pronunce di cui alle sentenze nn. 119 e 201 del 1972 richiamate dall'INPS, riguardano situazioni ben diverse, in fatto ed in diritto, da quella in oggetto, in primo luogo perché non viene in esame la posizione del marito superstite della moglie assicurata o pensionata, e al contrario é sospettato di illegittimità proprio il trattamento fatto alla donna rispetto all'uomo, ed in secondo luogo perché non si tratta della relazione reciproca tra coniugi bensì della posizione dei figli rispetto al genitore, posizione che - si ripete - é caratterizzata da eguali presupposti condizionanti il diritto alla riversibilità tanto per il figlio quanto per la figlia: lo stato di bisogno e la dipendenza economica del defunto. La limitazione nei riguardi della figlia maritata, per ciò, é illegittimamente ed irrazionalmente determinata soltanto dal sesso e non é sorretta dalla discutibile presunzione di inesistenza dello stato di bisogno.
5. - All'udienza del 23 aprile 1975 l'avv. Benedetto Bussi ha svolto le ragioni a difesa della Magresso.
Considerato in diritto
1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe del tribunale di Bolzano é sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma secondo, del decreto legislativo luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 (disciplina del trattamento di riversibilità delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità e la vecchiaia).
2. - Secondo l'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (recante modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), nel caso di morte del pensionato o dell'assicurato spetta una pensione "ai figli superstiti che al momento della morte del pensionato o assicurato non abbiano superato l'età di 15 anni o, per gli assicurati appartenenti alla categoria degli impiegati, quella di 18 anni, ovvero siano riconosciuti inabili al lavoro".
Con l'art. 2 del d.l.l. n. 39 del 1945 il diritto alla pensione di riversibilità dei figli riconosciuti inabili al lavoro é "subordinato alla condizione che, al momento della morte dell'assicurato o del pensionato, essi risultino a carico dell'assicurato o del pensionato" (comma primo) ed é negato tale diritto alle figlie maritate, anche se di età inferiore a quelle indicate nel citato art. 13 (comma secondo).
Con l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218, procedendosi al riordinamento delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, viene sostituito l'art. 13 del r.d.l. n. 636 del 1939 e si dispone che la detta pensione spetta "ai figli superstiti che al momento della morte del pensionato o assicurato non abbiano superato l'età di 18 anni e non esercitino alcuna attività lavorativa e ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi".
Dalle norme sopra richiamate risulta che, unificato il trattamento per i figli superstiti infradiciottenni (e richiedendosi che questi non esercitino alcuna attività lavorativa), a proposito dei figli di qualunque età (e sempre che l'art. 2, comma secondo, del d.l.l. n. 39 del 1945 non possa essere considerato abrogato dal successivo art. 2 della legge n. 218 del 1952) é dettata una disciplina differenziata a seconda che si tratti di "figlie maritate" ovvero di figlie nubili o vedove o di figli celibi, sposati o vedovi.
Ora, nell'ambito di quest'ultima disciplina é denunciata, per contrasto con il principio di eguaglianza, la norma che nega la pensione di riversibilità alle figlie maritate, posta in relazione all'altra che codesto diritto invece riconosce ai figli sposati (che si trovino nelle indicate condizioni).
La questione é fondata.
3. - La ratio della norma che riconosce il diritto alla pensione di riversibilità nelle assicurazioni obbligatorie INPS ai figli maschi superstiti del pensionato o dell'assicurato, risiede certamente nell'esigenza di mantenere a detti figli i mezzi di sussistenza di cui gli stessi dispongono al momento della morte del genitore. Si richiede, infatti, quali condizioni per l'acquisto del diritto, che codesti figli siano riconosciuti inabili al lavoro ed a carico del genitore al momento della di lui morte.
La norma che in ogni caso nega quel diritto alle figlie maritate, invece, pur non facendo espresso riferimento alle ragioni che ne stanno a sostegno, implicitamente si basa sulla presunzione che la donna che sia maritata, in generale, non si trovi in stato di bisogno ed in particolare, ancorché inabile al lavoro, non sia a carico del genitore al momento della di lui morte.
La disparità di trattamento sopra messa in evidenza, appare ingiustificata. Le dette situazioni di fatto e giuridiche relative ai figli superstiti possono dirsi eguali o equivalenti (e almeno certamente sono identiche qualora in concreto ricorrano - non considerata la differenza di sesso - le dette due condizioni) e quindi il diritto alla pensione di riversibilità avrebbe dovuto essere riconosciuto a tutti i detti figli. E non ci sono, nella ipotesi che superstiti siano figlie, ragioni particolari o specifiche che possano fornire razionale ed adeguata base al trattamento differenziato.
La presunzione di mancanza dello stato di bisogno, nelle due possibilità sopra indicate gradatamente, concerne il procedimento logico seguito dal legislatore e come tale denuncia un vizio, perché dall'esistenza del matrimonio e quindi del rapporto coniugale, in base alla legislazione vigente (quale risulta dalla sentenza n. 133 del 1970 di questa Corte), non può dedursi alcuna differenza nella posizione giuridica attiva della moglie e del marito, essendo rispettivamente la moglie ed il marito tenuti al mantenimento verso l'altro coniuge, se questi non ha mezzi sufficienti.
Né, tanto meno, ha ragione di essere la presunzione che la figlia (maritata) non sia a carico del genitore al momento della di lui morte. La vivenza a carico é una situazione di fatto che in concreto può esistere o mancare: e può aversi ugualmente nei confronti di ogni superstite, figlio o figlia che sia.
Ed allora appare non razionale che il figlio abbia riconosciuto il diritto e possa provare (la propria inabilità al lavoro e) la detta vivenza a carico e che invece lo stesso diritto sia negato alla figlia e questa tale prova utilmente non possa fornire.
D'altra parte, non deve essere trascurato che nella specie la discriminazione é fatta in danno della donna maritata e quindi, ai fini della pronuncia, non risultano pertinenti le decisioni di questa Corte adottate in relazione ad ipotesi in cui invece era denunciata una discriminazione in danno dell'uomo coniugato anche se con riferimento allo stato di bisogno effettivo o presunto dello stesso (sentenze nn. 119, 201 e 202 del 1972).
Ne consegue l'illegittimità costituzionale della norma denunciata nella parte in cui esclude dal diritto alla pensione di riversibilità le figlie maritate anche se siano riconosciute inabili al lavoro e risultino a carico del genitore al momento del decesso di questo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma secondo, del decreto legislativo luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 39 (recante disciplina del trattamento di riversibilità delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità e la vecchiaia), nella parte in cui la norma esclude dal diritto alla pensione di riversibilità le figlie maritate anche se siano riconosciute inabili al lavoro e risultino a carico del genitore al momento del decesso di questo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 giugno 1975.
Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 26 giugno 1975.