SENTENZA N. 21
ANNO 1973
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 665, terzo comma, del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 31 ottobre 1970 dal pretore di Recanati nel procedimento penale a carico di Menghi Romano, iscritta al n. 352 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 324 del 23 dicembre 1970;
2) ordinanze emesse l'8 luglio 1971 dal pretore di Barletta nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Puttilli Angela e di Mennoia Giuseppe Rodolfo e Luigi, iscritte ai nn. 436 e 437 del registro ordinanze 1971 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4 del 5 gennaio 1972.
Visti gli atti di costituzione di Menghi Romano e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 gennaio 1973 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Romano Menghi, imputato della contravvenzione di cui agli articoli 81, comma primo, e 665, comma terzo, del codice penale, in relazione al disposto dell'art. 185 del r.d. 6 maggio 1940, n. 635, per non avere, quale conduttore di un pubblico esercizio, tenuto accesa una luce alla porta del locale dall'imbrunire alla chiusura, il pretore di Recanati, con ordinanza emessa il 31 ottobre 1970, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 665, comma terzo, limitatamente all'inciso relativo all'inosservanza delle prescrizioni "dell'Autorità", in riferimento agli artt. 25, comma secondo, e 3, comma primo, della Costituzione e "nella parte in cui consente all'Autorità di limitare ovvero di non rispettare diritti inviolabili costituzionalmente garantiti per motivi diversi dalla tutela della sicurezza, incolumità, igiene e sanità pubbliche o da motivi di giustizia", in riferimento all'art. 2 e al titolo I della parte I della Costituzione.
Il pretore, preliminarmente, osservava che nella specie non era applicabile l'art. 221 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con il r.d. 18 giugno 1931, n. 773) perché nel citato art. 185 del relativo regolamento non poteva vedersi una norma esecutiva in senso stretto del testo unico; e riteneva che il comportamento omissivo dell'imputato avesse rilevanza penale in forza del disposto dell'art. 665, comma terzo, del codice penale, non potendosi negare che costituiscano ad ogni effetto prescrizioni dell'autorità quelle contenute come nella specie in un regolamento approvato con decreto del Capo dello Stato.
La norma denunziata sarebbe, anzitutto, in contrasto con l'art. 25, comma secondo, della Costituzione perché si limiterebbe a sanzionare penalmente in modo assolutamente generico qualsiasi disobbedienza, commessa dal pubblico esercente autorizzato, rispetto alle prescrizioni di qualsivoglia autorità, ed il precetto penalmente sanzionato non potrebbe che essere ravvisato nel comando o divieto di quell'autorità, che al pubblico esercente in concreto si indirizzi. Secondo il pretore sarebbero, in tal modo, previste sanzioni penali per l'inosservanza di prescrizioni autoritative, delle quali nulla viene detto in riferimento ai presupposti, ai contenuti ed ai limiti. E con tale richiamo di assoluta genericità a siffatte prescrizioni, non sarebbe soddisfatta in alcun modo la precisa garanzia costituzionale secondo la quale non si può essere puniti se non in base ad una legge, per comportamenti ritenuti incompatibili con i fini dello Stato, ma sempre comunque determinati ed enucleati dal preciso disposto di una legge formale.
Sarebbe altresì violato l'art. 3 della Costituzione. Dato che l'art. 665, comma terzo, lascia alla mera discrezionalità dell'autorità amministrativa il prescrivere o non prescrivere determinati comportamenti dei pubblici esercenti, può accadere (e accade) che questi vengano a trovarsi soggetti passivi di minuziose prescrizioni restrittive della loro sfera di libertà, in quanto operano in una data provincia o in un dato comune, e che gli stessi pubblici esercenti di altra provincia o di altro comune, magari limitrofi, siano invece in tutto o in parte esenti da tali obblighi. E ciò, ad avviso del pretore di Recanati, comporterebbe l'esistenza di una disparità di trattamento sfornita di razionale giustificazione e priva di ogni rimedio giuridico.
L'art. 665, comma terzo, infine, sarebbe in contrasto con l'art. 2 e con le disposizioni del titolo I della parte I della Costituzione. Per il giudice a quo, che si é riportato ad una sua precedente ordinanza (con cui aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 650 del codice penale), il rapporto (ed il potenziale conflitto) tra la libertà individuale e l'autorità dello Stato e degli organi dello stesso che tale autorità concretamente esercitano, non sarebbe risolto in favore della seconda con il rispetto dei limiti ai diritti inviolabili di libertà. La disposizione impugnata, infatti, prevederebbe e consentirebbe prescrizioni autoritative del tutto generiche e quindi anche del tutto estranee ai motivi di giustizia, di sicurezza ed incolumità pubblica, e di igiene e sanità pubblica. E quindi potrebbe aversi un'imposizione di limiti (a diritti di libertà costituzionalmente garantiti) per motivi diversi da quelli riconosciuti dalla Carta costituzionale.
L'ordinanza del pretore di Recanati veniva regolarmente notificata, comunicata e pubblicata (nella Gazzetta Ufficiale n. 324 del 23 dicembre 1970).
Davanti a questa Corte si costituiva il Menghi con deduzioni depositate il 9 gennaio 1971 e spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 12 gennaio 1971.
Il Menghi, a mezzo dell'avv. Gianfilippo Benedetti, chiedeva alla Corte di voler dichiarare la fondatezza della questione ed allo scopo si riportava alle ragioni indicate dal pretore.
L'Avvocatura generale dello Stato per il Presidente del Consiglio dei ministri, invece, concludeva in senso contrario. Dopo aver contestato l'esattezza delle considerazioni del pretore in ordine all'individuazione della norma da applicare alla fattispecie sottoposta al suo giudizio, dava atto dell'insindacabilità dell'esercizio del relativo potere, osservando per altro che, stante l'assunta illegittimità dell'art. 185 del regolamento, il pretore avrebbe dovuto negare efficacia alle prescrizioni in esso contenute che, ai sensi dell'art. 9 del testo unico, non potrebbero essere date dal Capo dello Stato.
A proposito dei singoli profili di illegittimità costituzionale prospettati dal pretore, deduceva, anzitutto, richiamando la sentenza n. 26 del 1966 di questa Corte, che le norme del t.u. delle leggi di pubblica sicurezza concernenti la disciplina dei pubblici esercizi contengono ampie precisazioni circa i comportamenti dei pubblici esercenti, tali da "far considerare delineato e delimitato l'ambito entro il quale le prescrizioni dell'Autorità possono spaziare"; in secondo luogo, che, anche a voler prescindere dalla validità generale della prescrizione contenuta nell'art. 185, l'art. 665 tende a conformare gli ordini dell'Autorità alle diversità ambientali al fine di adeguarne le prescrizioni alla concreta realtà; ed infine, che non poteva riscontrarsi alcuna violazione dell'art. 2 della Costituzione, atteso che le autorizzazioni di polizia non si riferiscono a diritti inviolabili del cittadino.
2. - In due procedimenti penali a carico, il primo di Angela Puttilli ed il secondo di Giuseppe Rodolfo e Luigi Mennoia, imputati della contravvenzione di cui all'art. 665, comma terzo, del codice penale, per avere tenuto aperti i loro esercizi (di pane fresco e di calzature), rispettivamente la domenica e al di là dell'orario di chiusura, il pretore di Barletta, con due ordinanze, aventi identico contenuto, emesse l'8 luglio 1971, sollevava questione di legittimità costituzionale del detto art. 665, comma terzo, "limitatamente all'inciso relativo all'inosservanza delle prescrizioni dell'Autorità", in riferimento agli artt. 25, comma secondo, e 3 della Costituzione.
Il pretore, premesso che l'ultimo comma dell'art. 665, allo stesso modo del precedente art. 650, costituisce un tipico esempio di norma penale in bianco, riteneva anzitutto che esso si pone in contrasto con l'art. 25, comma secondo. In base alla riserva di legge prevista in questa disposizione, non é consentito alla norma primaria di rinviare a regolamenti o ad atti amministrativi per la determinazione dei precetti penali. E perché la detta riserva (assoluta) sia soddisfatta, non é sufficiente che dalla legge provenga l'imposizione di ottemperare all'ordine dato dall'Autorità amministrativa. Né, d'altra parte, ed in contrario, vale obiettare che le prescrizioni dell'Autorità di cui parla l'art. 665 costituiscono un mero presupposto di fatto per l'applicazione della norma e come tale estrinseco rispetto alla statuizione della norma penale stessa, dovendosi, secondo la giurisprudenza, ritenere invece che di essa il provvedimento dell'autorità é parte integrante.
Non essendo contenuta nella norma denunciata alcuna specificazione del provvedimento dell'autorità di cui é sanzionata l'inosservanza, secondo il pretore l'art. 665, comma terzo, determinerebbe e sanzionerebbe unicamente l'obbligo di ottemperare ad un provvedimento del tutto indeterminato e successivo dell'Autorità amministrativa, e quindi solo all'esecutivo sarebbe consentito di scegliere di volta in volta e determinare il comportamento vietato.
In conclusione, con la norma denunciata verrebbe sostanzialmente ad essere violato il principio della riserva di legge in materia penale, secondo l'atteggiamento di questa Corte manifestato in alcune recenti pronunce e soprattutto nella sentenza n. 26 del 1966.
Riteneva inoltre il pretore che, essendo concreto e particolare il provvedimento amministrativo integrante il precetto penale, il ripetuto art. 665, comma terzo, fosse posto in violazione dell'art. 3 della Costituzione. La determinazione della condotta dei cittadini, infatti, non é affidata a norme generali ed astratte, ed é possibile un'identica sanzione per inosservanza di diversi o diversamente motivati provvedimenti.
Le due ordinanze sono state ritualmente notificate, comunicate e pubblicate (nella Gazzetta Ufficiale n. 4 del 5 gennaio 1972).
Davanti a questa Corte non si costituiva nessuna delle parti e non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.
3. - All'udienza del 24 gennaio 1973 il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri, insisteva nelle conclusioni già prese.
Considerato in diritto
1. - Dai pretori di Recanati e di Barletta, con le ordinanze indicate in epigrafe, é sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 665, comma terzo, del codice penale, limitatamente all'inciso relativo all'inosservanza delle prescrizioni dell'Autorità, in riferimento agli artt. 25, comma secondo, e 3 comma primo, della Costituzione; e solo dal pretore di Recanati é denunciata la stessa norma nella parte in cui "consente all'Autorità di limitare ovvero di non rispettare diritti inviolabili costituzionalmente garantiti per motivi diversi dalla tutela della sicurezza, incolumità, igiene e sanità pubbliche o da motivi di giustizia", per contrasto con l'art. 2 e con le disposizioni di cui al titolo I della parte I della Costituzione.
Le tre cause possono pertanto essere riunite e decise con unica sentenza.
2. - Sia nell'ordinanza del pretore di Recanati che in quelle del pretore di Barletta viene dato preminente rilievo alla prospettata violazione dell'art. 25, comma secondo, della Costituzione. É il caso quindi che la Corte esamini con priorità nei confronti degli altri, codesto specifico profilo della dedotta illegittimità costituzionale.
Ad avviso dei due pretori, il precetto relativo all'ipotesi criminosa di cui al terzo comma dell'art. 665 del codice penale non sarebbe contenuto nella norma penale; e, escluso o ammesso che in questa sia ravvisabile l'obbligo per il pubblico esercente di ottemperare ad un provvedimento del tutto indeterminato e futuro dell'autorità amministrativa, esso precetto, invece, sarebbe posto, o la condotta del reato in esame sarebbe individuata, dalla prescrizione concreta dell'autorità.
Tale interpretazione della norma denunciata, però, non può essere condivisa dalla Corte.
Non é sostenibile che, in base al riferimento dell'art. 665, comma terzo, alle prescrizioni dell'autorità, per l'individuazione del precetto, si possa e si debba fare ricorso, oltre che alla norma penale, solo a dette prescrizioni, ed a quelle che in concreto vengono emesse dall'autorità. É di tutta evidenza, infatti, che il collegamento tra la norma penale e le prescrizioni, si instaura attraverso un termine medio che é rappresentato dalle norme di legge che consentono o impongono ad autorità di emettere prescrizioni nei confronti degli esercenti pubblici (considerati singolarmente o per categorie); ed é logico quindi ritenere che, in sede d'interpretazione dell'art. 665, comma terzo, si debba tener conto dell'esistenza, del contenuto e della portata di quelle norme di legge.
Operando sopra codesto più ampio terreno, all'interprete é dato così di rilevare, in contrasto con l'assunto dei giudici a quo, che le prescrizioni dell'autorità, per la cui inosservanza sono previste le sanzioni dell'ammenda o dell'arresto, non sono del tutto indeterminate circa l'autorità legittimata ad emetterle, i presupposti, la forma, il contenuto, i motivi ed i limiti. Può notarsi, invece, che esse sono emesse da date autorità, nei casi previsti dalle leggi che le riguardano, hanno un dato contenuto ed una data forma e sono adeguatamente motivate.
A tale conclusione, come é ovvio, si perviene anche attraverso la considerazione di ciò che accade normalmente e secondo la legge, dei rimedi consentiti alle parti interessate alla singola vicenda e dei controlli (e specie di quello di legittimità) riservati agli organi giurisdizionali.
D'altra parte, é da tener presente che la stessa conclusione può essere tratta ove si proceda dalla premessa che la norma in esame costituisca uno speciale modo di essere di quella contenuta nell'art. 650 del codice penale. E, infatti, accettata tale premessa, le prescrizioni dell'Autorità di cui all'art. 665, comma terzo, si presentano come provvedimenti legalmente dati, per ragioni sufficientemente giustificatrici e specifiche (data la peculiarità della materia nella quale possono aversi).
Nella specie, la riserva di legge in materia penale, risulta di conseguenza pienamente rispettata.
Siccome é stato rilevato in precedenti occasioni per altre norme da questa Corte (sentenze nn 26 del 1966. ) , 168 del 1971 e 113 del 1972), l'art. 25, comma secondo, della Costituzione non é violato "quando sia una legge (o un atto equiparato) dello Stato non importa se proprio la medesima legge che prevede la sanzione penale o un'altra legge a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena".
E nel caso che ora si considera, come si é precisato, queste condizioni ricorrono.
3. - Non sussiste neppure la dedotta violazione dell'art. 3. comma primo, della Costituzione.
La tesi così prospettata non merita di essere condivisa.
Arduino Salustri – Cancelliere
Depositata in cancelleria l'1 marzo 1973.