Sentenza n. 190 del 1972

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 SENTENZA N. 190

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

  composta dai signori:

Prof. Michele FRAGALI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI, Giudici,

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Giulio GIONFRIDA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 217, primo e secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 23 dicembre 1971 dal tribunale di Macerata nel procedimento penale a carico di Sbarbati Mario, iscritta al n. 37 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 dell'8 marzo 1972;

2) ordinanza emessa il 1 aprile 1972 dal pretore di Bologna nel procedimento penale a carico di Landi Maria, iscritta al n. 163 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 158 del 21 giugno 1972.

Udito nella camera di consiglio del 9 novembre 1972 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Il tribunale di Macerata, nel procedimento penale a carico di Mario Sbarbati, imputato del delitto di cui all'articolo 217, comma secondo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), per avere, quale imprenditore commerciale dichiarato fallito, omesso di tenere i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge, sollevava, con ordinanza del 23 dicembre 1971, questione di legittimità costituzionale del detto art. 217, comma secondo, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione.

Riteneva, a proposito della rilevanza, che la stessa ricorreva, giacché lo Sbarbati, che dal pretore di Macerata era stato riconosciuto responsabile in ordine al reato ascrittogli, aveva in sede d’appello lamentato difetto di motivazione circa l'elemento psicologico del reato; e che una dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma denunciata "nella parte in cui esclude ogni indagine sulla qualità d’imprenditore del fallito, anche sotto il profilo della consapevolezza da parte dell'autore del reato", avrebbe avuto influenza nella specie.

Nel merito, assumeva che, in contrasto con l'art. 3, comma primo, della Costituzione, l'art. 217, comma secondo, del r.d. n. 267 del 1942 "rendendo superflua, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione ogni indagine sulla qualità d’imprenditore dell'imputato ai sensi del codice civile, una volta che questo sia dichiarato fallito", considera pari due situazioni che altrove sono ritenute diverse dallo stesso legislatore (e cioé quelle d’imprenditore, piccolo imprenditore, artigiano) ed in modo irragionevole, in relazione all'obbligo di tenere i libri contabili.

Riteneva, d'altra parte che la norma denunciata, in quanto esclude ogni indagine sull'atteggiamento psicologico dell'imputato in ordine alla riconoscibilità degli elementi della fattispecie penale (qualità d’imprenditore, sussistenza dell'obbligo della tenuta dei libri e d’altre scritture contabili), sia in contrasto con l'art. 27 della Costituzione nella parte in cui questo richiede che la responsabilità penale sia personale.

L'ordinanza, che nella parte dispositiva era stata letta in dibattimento, veniva notificata allo Sbarbati e al Presidente del Consiglio dei ministri e regolarmente comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento. Veniva infine pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 dell'8 marzo 1972.

2. - Il pretore di Bologna, chiamato a conoscere dei delitti ascritti a Zerelia Morelli e Paolo Rossi (imprenditori dichiarati falliti con sentenza del 16 marzo 1970) ed alla loro socia di fatto Maria Landi (dichiarata fallita con successiva sentenza del 10 novembre 1970) per mancata o irregolare tenuta dei libri contabili prescritti e per avere fatto spese personali eccessive, procedeva nei confronti degli imputati Morelli e Rossi e disponeva lo stralcio del processo nei confronti della Landi.

Rilevava che, pur essendo tutte e tre gli imputati rinviati a giudizio per aver compiuto gli stessi fatti, il Rossi (essendo la Morelli nel frattempo deceduta) avrebbe potuto usufruire dell'amnistia di cui al d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, essendo stato dichiarato fallito in data anteriore al 6 aprile 1970, mentre la Landi ne rimaneva esclusa dato che la sentenza di fallimento che la concerneva, era, come si é detto, del 10 novembre 1970. E ciò in base all'orientamento giurisprudenziale, che esso pretore riteneva di dover seguire, per cui la dichiarazione di fallimento costituisce una condizione del reato o più esattamente un elemento al cui concorso é collegata l'esistenza del reato relativamente a fatti verificatisi anteriormente alla dichiarazione stessa, e per cui, quindi, i reati di bancarotta devono ritenersi consumati nel momento in cui viene emessa la sentenza dichiarativa di fallimento.

Stante ciò, il pretore, con ordinanza del 1 aprile 1972, sollevava, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 217, primo e secondo comma, del r.d. n. 267 del 1942 nella parte in cui "facendo coincidere la consumazione del reato di bancarotta semplice col momento in cui viene emessa la sentenza dichiarativa di fallimento, non consente di godere del beneficio dell'amnistia solo a quegli imputati per i quali la dichiarazione di fallimento sia intervenuta dopo il termine ultimo d’efficacia del beneficio, prescindendo dall'epoca in cui ebbe a realizzarsi la condotta ancorché anteriore all'indicato termine".

Il principio d’eguaglianza sarebbe violato per ciò che, per i medesimi fatti commessi nello stesso periodo di tempo da due soggetti, uno é ammesso ad usufruire del beneficio di un'amnistia, mentre l'altro, per motivi indipendenti dalla sua volontà, deve rispondere penalmente.

L'ordinanza, letta in dibattimento nella parte dispositiva, veniva notificata all'imputata e al Presidente del Consiglio dei ministri, comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 158 del 21 giugno 1972.

3. - Davanti a questa Corte nelle due cause non si costituiva nessuna delle parti e non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

Le due cause, pertanto, sono state discusse in camera di consiglio ai sensi dell'art. 26, secondo comma, della legge Il marzo 1953, n. 87, e dell'art. 9 delle Norme integrative.

 

Considerato in diritto

 

1. - Dei due giudizi, in cui si discute circa la legittimità costituzionale dell'art. 217, commi primo e secondo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), può essere disposta la riunione, e le relative cause pertanto vengono decise con unica sentenza.

2. - Circa la questione di legittimità costituzionale del citato art. 217 in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, prospettata dal tribunale di Macerata, la Corte rileva, che, pur essendosi essa in precedenza occupata della legittimità costituzionale della norma denunciata, non é stata emessa alcuna pronuncia specificamente in ordine ai profili ora messi in risalto.

Il rapporto tra la sentenza dichiarativa di fallimento e il procedimento penale per i reati previsti e puniti dall'art. 217, é stato infatti oggetto d’esame da parte di questa Corte per asserita violazione dell'art. 24 della Costituzione; e la Corte, con sentenza n. 110 del 1972, ha ritenuto non fondata la relativa questione concernente gli artt. 19 e 21 del codice di procedura penale le cui norme si assumeva che determinassero una paralisi della difesa nel procedimento penale a carico di un imputato del reato previsto e punito dall'art. 217, comma secondo, come conseguenza della paralisi della funzione primaria del giudice penale vincolato a tener fermo un presupposto (status d’imprenditore) contenuto in una sentenza resa in un procedimento non garantito da adeguato contraddittorio.

Con l'ordinanza del tribunale di Macerata ora si assume invece, anzitutto, che l'art. 3, comma primo, della Costituzione sarebbe violato dall'art. 217, comma secondo, nella parte in cui, resa superflua ogni indagine sulla qualità d’imprenditore dell'imputato ai sensi del codice civile, sottopone allo stesso trattamento giuridico (in ordine all'obbligo di tenere i libri contabili) e in maniera non ragionevole, situazioni (altrove ritenute dallo stesso legislatore) diverse.

La questione cosi prospettata non é fondata. Posto che al giudice penale chiamato a giudicare circa l'esistenza di reati fallimentari ed in particolare di quello previsto e punito dall'art. 217, comma secondo, non é consentito di indagare sulla sussistenza delle condizioni soggettive e oggettive richieste per la dichiarazione di fallimento, essendo ogni pronuncia a quest'ultimo riguardo riservata al competente giudice civile, la norma richiamata dell'art. 217, comma secondo, presuppone e comporta che ogni indagine sulla assoggettabilità (in concreto) di un dato imprenditore alla procedura concorsuale venga compiuta dal giudice civile e che la sentenza dichiarativa di fallimento, in ordine a quella condizione giuridica dell'imprenditore, debba fare stato nel procedimento penale.

Non é prospettabile, quindi, una pluralità di situazioni giuridiche soggettive diverse in relazione alle quali si possa parlare di trattamento differenziato e per giunta posto in essere in modo irrazionale.

Del pari, non ha fondamento la prospettata violazione dell'art. 27 della Costituzione nella parte in cui questo richiede che la responsabilità penale sia personale. L'asserito contrasto con detta norma, dell'art. 217, comma secondo, non sussiste, perché, anche a voler ammettere che davanti al giudice penale l'imputato non possa utilmente riportarsi al proprio atteggiamento psicologico in ordine alla riconoscibilità degli elementi della fattispecie penale (qualità d’imprenditore, sussistenza dell'obbligo della tenuta dei libri e d’altre scritture contabili), ricorre nell'ipotesi criminosa de qua, a base della responsabilità penale personale, il rapporto di causalità materiale tra azione ed evento (art. 40 del codice penale) che é sufficiente a stabilire tra il soggetto ed il fatto preveduto come reato il necessario carattere di suità (sentenza n. 107/1957).

Può quindi concludersi con la dichiarazione di non fondatezza della questione come sopra prospettata dal tribunale di Macerata.

3. - Deve invece dirsi manifestamente non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal pretore di Bologna, a proposito dell'art. 217, primo e secondo comma, ed in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

Il principio d’eguaglianza sarebbe violato perché la norma denunciata "facendo coincidere la consumazione del reato di bancarotta semplice col momento in cui viene emessa la sentenza dichiarativa di fallimento, non consente di godere del beneficio dell'amnistia solo a quegli imputati per i quali la dichiarazione di fallimento sia intervenuta dopo il termine ultimo d’efficacia del beneficio, prescindendo dall'epoca in cui ebbe a realizzarsi la condotta ancorché anteriore all'indicato termine", e quindi "in quanto per i medesimi fatti commessi nello stesso periodo di tempo un soggetto é ammesso ad usufruire del beneficio di un'amnistia, mentre un altro deve rispondere penalmente per gli stessi fatti soltanto perché, per motivi indipendenti dalla sua volontà, la di lui qualità di socio del già fallito, e come tale assoggettabile a declaratoria di fallimento, viene riconosciuta in un momento successivo allo spirare del termine utile per l'applicazione del beneficio di legge".

La questione non é nuova. Negli stessi termini sostanzialmente é stata già sollevata con ordinanza del pretore di Siracusa (n. 198 del reg. oR.D. 1971) e del pretore di Napoli (n. 406 del reg. oR.D. 1971) ed esaminata da questa Corte, che, valutati anche altri profili di illegittimità costituzionale prospettati da altri giudici, l'ha, con la sentenza n. 110 del 1972, dichiarata non fondata.

Stante ciò, non ravvisando nell'ordinanza de qua alcuna ragione che possa indurla a modificare il precedente avviso, la Corte ritiene di doverlo confermare, con la dichiarazione di manifesta infondatezza della questione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 217, commi primo e secondo, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal pretore di Bologna con l'ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 217, comma secondo, del citato r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal tribunale di Macerata con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 1972.

Giuseppe CHIARELLI – Vincenzo Michele TRIMARCHI

Depositata in cancelleria il 21 dicembre 1972.