SENTENZA N. 134
ANNO 1971
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10, sesto e settimo comma, e 11, primo e secondo comma, del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, promosso con ordinanza emessa il 18 dicembre 1968 dal tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Casile Domenico, la società Industria Grafica (SAIG) e l'INAIL, iscritta al n. 340 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 256 dell'8 ottobre 1969.
Visti gli atti di costituzione di Casile Domenico, della SAIG e dell'INAIL e l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 marzo 1971 il Giudice relatore Costantino Mortati;
uditi l'avv. Luciano Ventura, per il Casile, l'avv. Carlo Fornario, per la SAIG, l'avv. Massimo Ungaro, per l'INAIL, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso della causa civile promossa da Casile Domenico, operaio tipografo, contro il suo datore di lavoro, soc. SAIG, per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla malattia professionale derivatagli per inosservanze colpose di norme previdenziali, valutabili a questo fine come illecito penale nonostante l'intervenuta amnistia, e nella quale é volontariamente intervenuto l'INAIL per ottenere la distrazione a proprio favore di una somma pari a quanto erogato a vantaggio dell'assistito, il tribunale di Roma ha sollevato - con ordinanza in data 18 dicembre 1968 - questione di legittimità costituzionale delle norme che prevedono il diritto di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro civilmente responsabile, le quali venivano in applicazione ai fini della decisione da adottare sulla domanda dell'interveniente.
Precisamente il tribunale si é chiesto se siano incostituzionali, per violazione degli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione: a) l'art. 10, sesto e settimo comma, del testo unico approvato con decreto presidenziale 30 giugno 1965, n. 1124, per il quale non si fa luogo a risarcimento per gli infortuni sul lavoro (né, in virtù del rinvio di cui all'art. 131, per le malattie professionali) quando il giudice riconosca che esso non ascende a somma maggiore dell'indennità liquidata dall'Istituto assicuratore e che, ove si faccia luogo a risarcimento, questo é dovuto solo per la parte che eccede tale indennità; b) l'art. 11, primo e secondo comma, del testo unico stesso, nella parte in cui prevede il diritto di regresso dell'Istituto assicuratore anche nei confronti del datore di lavoro per le somme pagate a titolo d'indennità e per le spese accessorie e stabilisce che la sentenza che accerta la responsabilità civile é sufficiente a costituire l'Istituto assicuratore in credito verso la persona civilmente responsabile.
Tale questione é apparsa al tribunale non manifestamente infondata in considerazione del fatto che la disciplina legislativa in esame, originariamente giustificata dal carattere "transattivo" che essa presentava tra le opposte esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori, avrebbe successivamente mutato la sua ragion d'essere in virtù del riconoscimento, compiuto dall'art. 38 della Costituzione, dell'interesse pubblico alla previdenza ed all'assistenza sociale.
Mentre infatti la legislazione anteriore alla Costituzione regolava il rapporto assicurativo come un rapporto unico a carattere triangolare che collegava inscindibilmente datore di lavoro, prestatore d'opera e l'INAIL, con reciproche agevolazioni ed oneri, essa sarebbe stata radicalmente modificata per effetto dei sopravvenuti principi della Costituzione del 1948, con conseguente scissione del rapporto assicurativo, che lega il lavoratore agli istituti cui spetta adempiere alla funzione previdenziale per quanto concerne gli infortuni sul lavoro, dal rapporto di responsabilità, che eventualmente vincoli al lavoratore il datore di lavoro o il terzo responsabile per colpa dell'infortunio.
Attualmente, perciò, le prestazioni assicurative spetterebbero al lavoratore in virtù di un suo diritto autonomo, completamente indipendente dal sistema prescelto dal legislatore per finanziare gli istituti assicuratori. Tale eliminazione della base transattiva a struttura triangolare del rapporto assicurativo ha trovato una riaffermazione nella sentenza n. 22 del 1967 della Corte costituzionale che, esaminando la questione di costituzionalità dell'art. 4 del regio decreto n. 1765 del 1935, ha esteso la responsabilità del datore di lavoro anche al caso di accertata colpevolezza del commesso (e non solo del preposto) ed ha altresì riconosciuto al giudice civile il potere di accertare incidentalmente la sussistenza del reato, anche se estinto per prescrizione, con la conseguenza di un radicale mutamento dell'equilibrio economico su cui poggiava il rapporto assicurativo.
Da tali considerazioni deriva che, pur dovendosi ammettere, sulla base dell'art. 1916, quarto comma, del codice civile, il diritto dell'INAIL di surrogazione, fino alla concorrenza di quanto esposto, verso i terzi responsabili, sembra invece inficiata di incostituzionalità la disposizione che gli accorda altresì il diritto di regresso nei confronti del datore di lavoro, il quale é parte del rapporto assicurativo, dato che paga i relativi contributi, e non terzo, come invece va ritenuto il lavoratore, ormai estraneo al rapporto assicurativo dal momento che trae il diritto all'assistenza direttamente dall'art. 38 della Costituzione.
La disciplina vigente, infine, appare al tribunale di dubbia costituzionalità sotto il profilo della violazione dell'art. 3, primo comma, da due distinti punti di vista: a) in primo luogo, in quanto stabilisce, rispetto all'ipotesi dell'assicurazione per gli infortuni sul lavoro, un trattamento più oneroso per il privato assicurato di quello stabilito in via generale dall'art. 1916, codice civile; b) in secondo luogo, in quanto stabilisce una differenza di trattamento fra il lavoratore infortunato ed il comune danneggiato il quale vede ridotto il proprio risarcimento di quanto abbia percepito dall'istituto solo in quanto questi effettivamente eserciti il diritto di surrogazione con la prescritta formale domanda rivolta nei confronti del terzo responsabile, mentre il lavoratore vede ridotto ope legis il proprio risarcimento. Analogo ragionamento vale altresì per la norma che stabilisce la compensazione dell'indennità corrisposta dall'INAIL con il risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro in conseguenza della responsabilità penale sua o del commesso.
Si sono costituite avanti la Corte le parti del processo a quo ed é intervenuto in causa il Presidente del Consiglio dei ministri.
L'attore Casile ha presentato una comparsa nella quale si limita a concludere per l'accoglimento della questione così come proposta dal tribunale di Roma.
La convenuta SAIG chiede anch'essa che la questione sia accolta nella parte relativa all'art. 11, primo e secondo comma, e deduce invece l'infondatezza di essa nella parte relativa all'art. 10, sesto e settimo comma, del decreto presidenziale n. 1124 del 1965. L'illegittimità dell'art. 11, primo e secondo comma, deriverebbe dalla disparità di trattamento che tale norma determina rispetto all'art. 1916, codice civile, nello stabilire la surrogazione per il danno causato da fatto illecito, non già nei confronti del terzo responsabile, ma nei confronti dell'assicurato. Sarebbe altresì irragionevole sottoporre il datore di lavoro, a differenza del comune assicurato, alla restituzione di quanto corrisposto dall'assicuratore dopo che egli ha già pagato i contributi.
L'INAIL deduce l'infondatezza dell'intera questione osservando che la Costituzione non ha affatto innovato il preesistente sistema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, per cui risulta fuori luogo il richiamo all'art. 38 della Costituzione. Né vi é disparità di trattamento, ai fini della responsabilità per danni, del datore di lavoro rispetto agli altri soggetti, giacché egli é coperto dall'assicurazione obbligatoria nei casi cui essa si riferisce, mentre in quelli da essa esclusi (di colpa penale sua, o del commesso) deve rimborsare le indennità corrisposte e integrare se del caso il risarcimento al danneggiato.
Né ricorre una sperequazione nel fatto che il comune assicurato, danneggiato dal fatto altrui, possa eventualmente avvantaggiarsi dell'inerzia o della benevolenza dell'assicuratore che trascuri di esercitare il diritto di surroga, non sembrando iniquo che il legislatore attribuisca all'assicurante e non all'infortunato il vantaggio di questa ipotetica liberalità, essendo il primo a sopportare per legge l'onere finanziario dell'assicurazione.
Al contrario, un indebito arricchimento deriverebbe al lavoratore dall'accoglimento del punto di vista del tribunale giacché egli beneficerebbe, oltre che dell'indennizzo assicurativo (procuratogli dal datore di lavoro attraverso il pagamento dei premi di assicurazione), anche dell'integrale risarcimento (pagato anch'esso dal datore di lavoro).
Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha concluso per l'infondatezza della questione muovendo dall'osservazione che il rapporto intercorrente fra lavoratore, datore di lavoro ed INAIL in ordine all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro non é generalmente configurato come un'assicurazione contro la responsabilità civile del datore di lavoro, ma come un mezzo di tutela del lavoratore che può agire jure proprio nei confronti dell'Istituto assicuratore per il conseguimento delle prestazioni, indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro risulti sollevato da responsabilità che eventualmente ricadano su di lui.
La limitazione della responsabilità civile del datore di lavoro é giustificata dalla difficoltà di determinarla in alcune ipotesi di infortunio che si vuole siano comunque coperte dall'assicurazione (donde la qualifica del sistema come "transattivo") ma non esclude la responsabilità per colpa penale onde evitare che essa si risolva in un disincentivo rispetto all'attuazione delle misure di prevenzione antinfortunistiche.
La sussistenza della responsabilità in tali ipotesi non significa però che l'imprenditore venga a rispondere due volte dei danni causati dalla sua colpa, una prima volta in sede di pagamento dei contributi assicurativi ed una seconda volta in sede di rimborso dell'indennità pagata dall'istituto. In realtà i premi dovuti dall'imprenditore debbono corrispondere all'effettivo onere finanziario dell'istituto ed é ovvio che in tale onere non rientrino le somme che esso riesce a recuperare dai datori di lavoro nei casi di esclusione del c.d. esonero dalla responsabilità civile: in questi casi l'assicurazione é volta esclusivamente a garantire il lavoratore dai rischi di insolvibilità del datore di lavoro, di difficoltà di accertamento, di eccessiva lunghezza dei procedimenti giudiziari e simili; ma il premio dovuto dall'assicurante sarà comunque commisurato all'effettivo onere finanziario che deriva all'istituto dall'assunzione del rischio.
La tesi dell'incompatibilità di questo sistema con la Costituzione repubblicana é stata respinta dalla Corte nella sentenza n. 22 del 1967 che ha colpito soltanto gli "spigoli più aguzzi" della normativa vigente, confermandone invece le linee fondamentali. Nello stesso ordine di idee é da contestare la fondatezza anche dell'attuale questione, non potendosi ammettere che l'art. 38 della Costituzione abbia conferito al lavoratore un nuovo ed autonomo diritto alle prestazioni assicurative in caso di infortunio, più ampio o diverso da quello che già gli apparteneva. L'art. 38 ha lasciato al legislatore piena libertà di determinare i modi in cui rendere operante tale diritto ed in questa libertà é compresa anche la facoltà di conservare il sistema preesistente.
Ancor più evidente poi, secondo l'Avvocatura dello Stato, é l'infondatezza della violazione degli artt. 3 e 35 della Costituzione, per escludere la quale é sufficiente il richiamo alla citata sentenza n. 22. Né sussiste differenza di trattamento tra le norme previdenziali e le norme del codice civile, entrambe costituendo attuazione di identici principi generali.
Le posizioni dell'attore Casile e dell'INAIL sono state ulteriormente illustrate nelle rispettive memorie depositate il 25 febbraio 1971. Il primo, concentrando le sue censure sul penultimo comma dell'art. 10 della legge, che limita l'obbligo di risarcimento del datore di lavoro responsabile, deduce che tale norma contrasta col principio relativo al diritto del danneggiato di conseguire l'integrale risarcimento dal responsabile; e con quello in base al quale non può esservi "compensatio lucri cum pretio" quando il lucro deriva da causa creditoria diversa da quella che ha determinato il danno.
La difesa del Casile afferma che l'INAIL attualmente provvede alle prestazioni assicurative utilizzando i beni che gli sono forniti, materialmente dagli industriali, ma per un obbligo legale stabilito dallo Stato, e quindi attraverso un meccanismo parafiscale il cui onere grava in definitiva su tutta la collettività e non soltanto sugli industriali stessi. Di conseguenza la previsione del regresso risulta incompatibile con la struttura del servizio che ha carattere pubblicistico e rilievo costituzionale.
L'INAIL richiama invece il principio per cui un fatto dannoso, le cui conseguenze debbano, per legge o per contratto, essere indennizzate da un responsabile o da un assicuratore, non può mai costituire fonte di lucro per l'avente diritto all'indennizzo, e fa presente come l'assetto dato dal legislatore all'assicurazione infortuni comporti di necessità l'adozione di regole come quelle impugnate. Sarebbe infatti proprio l'accoglimento del punto di vista avversario che determinerebbe una iniqua ed incostituzionale disparità di trattamento a carico del datore di lavoro imponendogli di far ottenere all'infortunato tanto le prestazioni assicurative quanto l'integrale risarcimento del danno civilistico.
Abolire il diritto di regresso dell'INAIL significherebbe inoltre istituire una speciale assicurazione contro la responsabilità civile degli imprenditori per quella parte del risarcimento, da essi in ipotesi dovuto, che corrisponde all'importo delle prestazioni percepite per legge dal danneggiato; ma una tale garanzia, pur astrattamente configurabile, non può essere istituita attraverso una pronuncia di incostituzionalità delle norme impugnate e non senza che venga predisposta la copertura degli oneri aggiuntivi che essa implicherebbe.
Richiamate ed illustrate con ulteriori argomentazioni le precedenti difese, l'INAIL conclude invocando la sentenza n. 22 del 1967 di questa Corte, laddove essa ebbe ad affermare che nessuna illegittimità costituzionale o ingiusta sperequazione può ravvisarsi - a parte quelle specificamente indicate ed eliminate con la pronuncia stessa - nel complessivo "sistema previdenziale assicurativo in materia di infortuni sul lavoro, del quale l'art. 4 é parte integrante" e secondo il quale "nessuna eccezione più si oppone all'impero del diritto comune allorché l'infortunio risulti dovuto a colpa grave del datore, penalmente sanzionata", e quindi comportante per lui l'obbligo dell'integrale risarcimento del danno.
Considerato in diritto
1. - La questione sollevata dal tribunale di Roma in ordine all'art. 10, sesto e settimo comma, del testo unico approvato con d.P.R. n. 1124 del 1965 (secondo cui dall'importo della somma spettante al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento va detratta l'indennità percepita dall'istituto assicuratore), nonché al successivo art. 11, primo e secondo comma (che consente all'istituto assicuratore di esperire l'azione di regresso nei confronti del datore di lavoro civilmente responsabile) nella considerazione che essi violino gli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione, deve ritenersi infondata.
2. - Per la migliore valutazione delle censure formulate nell'ordinanza si rende opportuno, anche in presenza delle differenti interpretazioni datene dalle parti, ricordare che la sentenza della Corte n. 22 del 1967, nel respingere l'eccezione di incostituzionalità sollevata nei confronti dell'art. 4, r.d. n. 1765 del 1935 (corrispondente all'art. 10 del citato testo unico del 1965), ebbe ad osservare come il sistema introdotto con la legge infortunistica non ingiustificatamente sia ispirato a criteri non in tutto uniformi a quelli del diritto comune: infatti ha riguardo alle speciali condizioni nelle quali si svolge l'attività del lavoratore, e quindi non viola sotto quest'aspetto l'art. 3; mentre d'altra parte non é neppure in contrasto con l'art. 38 poiché questo, limitandosi a porre solo principi generali relativi ad ogni specie di prestazioni previdenziali, non esclude che la legge ne disciplini variamente le attuazioni, allo scopo di meglio adeguarle alle particolarità delle singole specie in cui le prestazioni medesime si ripartiscono, curando la predisposizione dei correlativi mezzi finanziari. É riservato poi alla discrezionalità del legislatore provvedere all'eventuale diversa strutturazione del sistema che riesca meglio favorevole al lavoratore, adeguando ad essa le modalità del finanziamento.
Da quanto allora statuito si traggono elementi sufficienti per respingere la tesi enunciata nell'ordinanza secondo cui, in virtù dell'art. 38 della Costituzione, il rapporto assicurativo avrebbe perduto il carattere triangolare collegante fra loro i soggetti i quali entrano a costituirlo, e si sarebbe invece sdoppiato, eliminando per il lavoratore la qualità di parte del rapporto medesimo e facendolo divenire titolare di un diritto autonomo derivabile dall'articolo predetto. Si deve invece riaffermare che, nei comuni casi di infortunio, non viola la Costituzione il principio mutualistico cui si informa il sistema, che, mentre garantisce al lavoratore un indennizzo per ogni specie di infortunio, senza riguardo al fattore causale, sottrae poi il datore all'azione di danno da parte dell'infortunato.
3. - L'anzidetta regola subisce un'eccezione, ai sensi dell'art. 10, secondo comma, allorché, come nella specie, l'evento dannoso risalga a colpa del datore, penalmente sanzionabile, riprendendo allora vigore la norma di diritto comune in materia di responsabilità civile, sia pure con quelle differenziazioni poste, come si vedrà, a tutela del lavoratore leso da tale comportamento colposo.
La disciplina di legge dettata per siffatte ipotesi viene denunciata sotto i due punti di vista che si sono prima ricordati, in quanto, per una parte, ritenuta dannosa al lavoratore e, per l'altra, ingiusta nei riguardi del datore. Converrà iniziare l'esame da quest'ultima censura che l'ordinanza considera preminente, se non pregiudiziale, nel presupposto che, una volta dichiarata l'incostituzionalità dell'azione di regresso prevista dall'art. 11 contro il datore, verrebbe meno l'ostacolo alla pretesa del lavoratore di ricevere l'intero risarcimento, senza riguardo all'indennità posta a carico dell'INAIL e da questo erogata.
Si assume che l'ammissione, contro il datore di lavoro in colpa, dell'azione di regresso da parte dell'Istituto assicuratore determini una violazione dell'art. 3 della Costituzione, operando a suo danno una sostanziale ingiustizia e ponendolo in condizione deteriore rispetto a chi abbia dato vita ad un rapporto assicurativo con un istituto privato; ciò per il fatto che in quest'ultimo caso all'istituto che ha pagato l'indennità é consentito di surrogarsi nei diritti dell'assicurato (fino alla concorrenza dell'indennità) solamente verso i terzi responsabili del danno, secondo dispone l'art. 1916 del codice civile, mentre nel caso in esame l'art. 11 consente l'azione anche contro il datore di lavoro, che non riveste figura di terzo.
É da osservare come il riferito ragionamento del tribunale trovi una smentita in quella parte della stessa ordinanza in cui si sostiene che i contributi pagati dal datore obbligatoriamente assicurato coprono solo i rischi addebitabili a colpa presunta e sono ad essi commisurati. Appare infatti evidente che, una volta inteso in tal modo il rapporto assicurativo, se ne dovrebbe dedurre che ogni specie di rischio non riconducibile al fortuito, o a presunzione di colpa, perché derivato dall'accertato fatto illecito penalmente punibile del datore di lavoro, dovrebbe essere considerato estraneo al rapporto medesimo e configurato in modo non diverso da quello addebitabile all'opera di un terzo, con conseguente assoggettamento ad analoga disciplina (differenziata tuttavia per la diversità della natura dell'azione ex art. 11, che riveste carattere di regresso, rivolta a reintegrare l'Istituto di quanto erogato per conto e in vece del datore, rispetto all'altra di surrogazione ex articolo 1916: diversità che assume anche riflessi pratici sui quali non é qui da indugiare).
É appunto nella rilevata peculiarità dell'assicurazione obbligatoria in forma mutualistica per danni in occasione della prestazione di attività lavorativa che deve rinvenirsi la ragione della non applicabilità alla medesima dei principi stabiliti per i rapporti assicurativi regolati dal diritto comune (principi secondo i quali l'assicuratore rimane vincolato - per i sinistri cagionati anche da colpa grave del contraente - in virtù o di patto espresso, a termine dell'art. 1900, o ope legis, secondo l'art. 1917 che riguarda la speciale assicurazione per responsabilità civile; con la sola esclusione pertanto di quella dovuta a fatto doloso volontariamente messo in atto dall'assicurato).
Il che, mentre corrisponde alla rilevata specificità del rapporto assicurativo per gli infortuni sul lavoro, adempie anche allo scopo pratico di incentivare l'adempimento dell'obbligo del datore di adottare ogni misura idonea a prevenire i sinistri.
Non occorre, a questo punto, indugiare nella critica dell'osservazione dell'ordinanza circa l'ingiustizia che si fa derivare dal duplice obbligo che l'art. 11 imporrebbe al datore, da una Parte di risarcire il danneggiato e dall'altra di rimborsare l'INAIL di quanto da esso erogato, poiché in realtà l'obbligo é uno solo: quello dell'integrale risarcimento a favore della vittima della di lui colpa, mentre la bipartizione fra due destinatari é conseguenza del favor voluto accordare al lavoratore con l'addossare in ogni caso all'istituto le prestazioni previdenziali, le quali assumono perciò carattere di anticipazione rispetto all'assolvimento dell'obbligo a carico del responsabile. Obbligo il cui adempimento non trova corrispondenza nei contributi, dato che la naturale destinazione di questi é solo di costituire la contropartita delle erogazioni a carico dell'INAIL per ogni altra specie di rischio inerente all'attività imprenditoriale dell'assicurato, per il quale non ricorra il suo comportamento colpevole.
4. - Del pari prive di fondamento devono ritenersi le deduzioni rivolte contro quelle disposizioni dell'art. 10 che limitano l'obbligo del risarcimento a carico del datore di lavoro solo alla parte del danno non coperta dall'indennità erogata dall'INAIL, e Pertanto escludono la possibilità del cumulo fra le due specie di erogazioni a favore del lavoratore. Si sostiene che tali norme violino i principi generali secondo i quali vi sarebbe, da una parte, diritto ad ottenere dal responsabile l'integrale risarcimento, e dall'altra il divieto della compensatio lucri cum damno, quando, come si afferma accadere nella specie, il lucro derivi da causa creditoria diversa da quella che ha determinato il danno. É facile opporre che é regola generale consacrata nell'art. 2043 del codice civile, che il risarcimento da fatto illecito deve essere corrispondente al danno effettivamente subito, da effettuarsi secondo le valutazioni stabilite nell'art. 1223, che le limita alla perdita subita ed al mancato guadagno, senza poter mai divenire fonte di lucro per il danneggiato, secondo risulta anche dall'art. 1910, del codice civile.
Né può allegarsi in contrario la diversità della causa creditoria, poiché, se é vero che nella specie all'assicurato sono conferite due pretese, verso l'INAIL, oltre che verso il responsabile, anziché solamente verso quest'ultimo (come a stretto rigore dovrebbe avvenire), ciò é disposto, come si é già rilevato, a favore dell'infortunato cui si vuole garantire in ogni caso (anche quando il risarcimento ritardi, o non riesca ad ottenersi) il diritto alle prestazioni assistenziali. Queste, se trovano un titolo autonomo nel rapporto assicurativo di cui é parte il lavoratore, si effettuano tuttavia in temporanea sostituzione delle erogazioni che, a causa del medesimo evento dannoso, sono poste a carico del datore, e pertanto non possono cumularsi con esse, se non a patto di determinare un indebito arricchimento. Questa considerazione é sufficiente a mostrare l'inconcludenza dei riferimenti che l'ordinanza fa a casi di utilità provenienti all'infortunato per titoli diversi da quello discendente dal danno, e per i quali quindi é giusto che non possano incidere sul risarcimento (ma se mai solo sulla commisurazione del suo ammontare).
Quanto poi ai rilievi della difesa di parte, secondo cui dalla constatazione che al bilancio dell'INAIL concorrono fondi erogati dallo Stato si dovrebbe far discendere il diritto del lavoratore all'integrale risarcimento ove si verifichi l'insolvenza del datore, basterà osservare l'irrilevanza dell'ipotesi formulata nel caso presente in cui, non ricorrendo una situazione di insolvenza, la pretesa fatta valere si risolverebbe nell'ottenimento di prestazione in misura superiore al danno subito.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 10, sesto e settimo comma, e 11, primo e secondo comma, del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro, approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, sollevata, con ordinanza del tribunale di Roma, in riferimento agli artt. 3, 35 e 38 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 giugno 1971.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 22 giugno 1971.