SENTENZA N. 100
ANNO 1971
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 255 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1969 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Gonella Gian Franco, iscritta al n. 377 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 280 del 5 novembre 1969.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 21 aprile 1971 il Giudice relatore Paolo Rossi;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un procedimento penale a carico di tale G.F. Gonella, imputato di furto pluriaggravato, il tribunale di Torino sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 255 del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, non escludendosi la recidiva dal novero delle circostanze aggravanti delle quali si deve tener conto ai fini del computo della pena per l'emissione del mandato di cattura, nella specie, obbligatorio.
Si osserva, nell'ordinanza di remissione, che non appare conforme al principio di eguaglianza far discendere l'obbligatorietà del mandato di cattura da una "condizione o qualità personale", giacché dovrebbe considerarsi illegittima la grave limitazione alla libertà personale stabilita dalla norma impugnata per una condizione soggettiva che sembra estranea al fatto oggetto dell'imputazione.
Si é costituita in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, mediante atto di intervento depositato il 28 ottobre 1969 chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta.
Rileva l'Avvocatura che il giudice a quo dà per scontata una premessa assai discutibile, ed inoltre appare fuorviato da un equivoco di natura sostanzialmente terminologica.
Invero non é pacifico in dottrina che la recidiva costituisca una mera condizione o qualità personale, estranea al fatto reato: vari autori pongono infatti in luce che la recidiva sorge da una precedente condotta, caratterizzata spesso dall'essere stata manifestazione di una azione criminosa della stessa indole, compiuta in epoca ravvicinata al fatto per il quale successivamente si procede.
In secondo luogo la condizione di recidivo, essendo indubbiamente ricollegata ad una preesistente qualificata condotta e condanna dell'individuo, non può certamente essere posta sullo stesso piano delle vere "condizioni personali" che per l'art. 3 della Costituzione non possono rappresentare elemento di discriminazione tra soggetti. Tale conclusione potrebbe essere confortata dalle argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 110 del 1968.
Considerato in diritto
La norma per cui nel computo della pena agli effetti del mandato di cattura (artt. 253, 254, 255 c.p.p.) si deve tener conto anche della recidiva non contrasta col principio di uguaglianza fra i cittadini sancito nell'art. 3 della Costituzione
L'ordinanza del tribunale di Torino ritiene "non con forme al principio di uguaglianza il far discendere l'obbligatorietà in ordine al mandato di cattura da quella che dottrina e giurisprudenza considerano come una condizione, o qualità personale dell'individuo, l'essere cioè recidivo".
A prescindere dal rilievo che la recidiva é secondo molti autori non una condizione o qualità personale dell'imputato, ma piuttosto una circostanza aggravante dell'imputabilità e della pena, é fuori dubbio che la recidiva costituisca un fatto oggettivo giudiziariamente accertato.
Le "condizioni personali e sociali", collocate dall'art 3 della Costituzione sullo stesso piano del sesso, della razza, della lingua, della religione, delle opinioni politiche, per escludere ogni discriminazione fra cittadini, non sono certamente quelle che derivano da un'attività illegale, o addirittura criminosa, posta in essere dal soggetto.
Il principio di uguaglianza é invocabile in situazioni obiettivamente uguali, o giuridicamente comparabili. É assurdo pensare che chi ha riportato precedenti condanne penali ed é indiziato di un nuovo delitto non possa, e non debba, venir considerato più pericoloso del cittadino incensurato, in virtù di una astratta uguaglianza.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 255 del codice di procedura penale sollevata dal tribunale di Torino, con l'ordinanza in epigrafe indicata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 1971.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria l'11 maggio 1971.