Sentenza n. 110 del 1968
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SENTENZA N. 110

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI,  

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 708 del Codice penale, promossi con due ordinanze emesse rispettivamente il 14 marzo 1967 dal giudice istruttore del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Messina Carmine ed altri, ed il 30 settembre 1967 dal pretore di Bologna nel procedimento penale a carico di Torre Rodolfo, iscritte ai nn. 82 e 251 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132 del 27 maggio 1967 e n. 321 del 23 dicembre 1967.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 20 giugno 1968 la relazione del Giudice Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Carmine Messina ed altri, imputati del delitto di ricettazione di oggetti d'arte, e del reato di cui all'art. 708 del Codice penale, per essere stati colti in possesso di un basamento di candelabro, oggetto non confacente al loro stato e del quale non sapevano giustificare la provenienza, il giudice istruttore del Tribunale di Torino ha sollevato, d'ufficio, con ordinanza del 14 marzo 1967, questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della norma contenuta nel citato art. 708 del Codice penale, nella parte in cui punisce chi, trovandosi nelle condizioni personali di cui al precedente art. 707, é colto in possesso di "altre cose non confacenti al suo stato", e delle quali non giustifichi la provenienza.

Affermata la rilevanza della questione, il giudice istruttore, sulla sua non manifesta infondatezza, osserva che la norma denunziata, dopo avere indicato i presupposti comuni alle ipotesi in essa considerate, determina l'oggetto del possesso ingiustificato, in relazione alle sue qualità, distinguendo l'ipotesi del possesso di denaro o di oggetti di valore, per i quali si prescinde dallo stato del possessore, dall'ipotesi del possesso di "altre cose" per le quali, invece, si tiene conto di tale stato. E poiché, secondo la giurisprudenza, per "stato" dovrebbe intendersi la condizione personale e sociale della persona, l'art. 708 ridetto, nella suddetta ipotesi, porrebbe in essere, secondo l'ordinanza, una diversità di trattamento, in violazione del principio costituzionale di eguaglianza, che vieta ogni differenziazione dei cittadini di fronte alla legge in ragione delle loro condizioni personali e sociali.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 132 del 27 maggio 1967.

Nel giudizio innanzi a questa Corte, é intervenuto il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 3 maggio 1967, nel quale si chiede che la questione sia dichiarata infondata.

In via preliminare, l'Avvocatura dello Stato osserva che la questione non sarebbe da limitare a quella sola parte della norma enucleata nell'ordinanza di rimessione, concernente l'ipotesi del possesso di "altre cose", bensì da estendere a quella del possesso ingiustificato di denaro e di oggetti di valore, giacché anche a questa ipotesi sarebbe da riferire il requisito che ciò che si possiede non sia confacente allo stato del possessore. Ad avviso dell'Avvocatura, una tale interpretazione della norma denunziata, nonostante la sua imprecisa formulazione, risulterebbe dai precedenti legislativi, dall'opinione di autorevole dottrina e dalla stessa ratio legis, la quale, nel punire un reato di mero sospetto, tiene conto non della pericolosità del fatto in sé, ma di quella relativa alla sicurezza patrimoniale in quanto rilevata dal soggetto, sulla base di determinati elementi subiettivi ed obiettivi.

Nel merito, l'Avvocatura deduce che la norma denunziata non pone su due gradi diversi solo, in relazione al loro diverso stato, due categorie di persone non altrimenti identificabili, ma riguarda soggetti che trovano elementi di identificazione nel fatto di essere in una delle condizioni indicate nell'art. 707 del Codice penale, ed elementi di distinzione nel possesso di certi valori di ingiustificata provenienza e non corrispondenti allo stato del soggetto che li possiede. Per quanto riguarda, in particolare, tale "stato" dell'agente, si ribadisce che nella specie trattasi di reato di mero sospetto, la cui previsione intende provvedere alla sicurezza patrimoniale, e si deduce che il sospetto sarebbe da ravvisarsi non nella diversa condizione del soggetto, ma nella diversa rilevazione di una situazione di fatto, e più precisamente nel rapporto fra tale situazione e lo stato del soggetto, con la conseguenza che, a diversità di stato della persona, quella stessa situazione assumerebbe un significato del tutto diverso.

2. - Con ordinanza del 30 settembre 1967 il pretore di Bologna ha sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione contenuta nell'art. 708 del Codice penale, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo e terzo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione, nel procedimento penale a carico di Rodolfo Torre, colto in possesso di un apparecchio radio, di cui non aveva saputo giustificare la provenienza, installato nell'autovettura di sua proprietà.

Osserva il pretore che il reato previsto dalla disposizione denunziata, per il riferimento alle condizioni personali indicate nel precedente art. 707, appartiene alla categoria dei reati propri, e, come reato di mero sospetto, pone la presunzione della provenienza illecita degli oggetti posseduti e mette a carico del possessore la prova della legittima provenienza di tali oggetti, non essendo sufficiente neppure la prova che non provengano da delitto.

Anche in questa ordinanza vengono richiamati i precedenti legislativi della norma denunziata, per illustrarne la ratio, che sarebbe ispirata ad un fine persecutorio nei confronti del sospettato, e per sottolineare il maggiore rigore nella disciplina vigente rispetto alla legislazione penale anteriore, sia per la sua estensione ad una più ampia categoria di persone e ad oggetti diversi da quelli di valore, sia per l'inasprimento della pena e per la irrogazione della misura della libertà vigilata come conseguenza eventuale della condanna (art. 713 del Codice penale).

Sulla violazione del principio di eguaglianza, si deduce che, in contrasto con il precetto per il quale il legislatore deve trattare in modo uguale situazioni soggettive uguali, la norma denunziata darebbe luogo, a parità di condizioni soggettive, ad una ingiustificata discriminazione tra chi si trovi nella condizione personale di condannato per mendicità o per altre cause, e chi non versi in tale condizione, e, altresì, si rifarebbe a criteri di disparità sociale per il fatto di riferirsi a cose non confacenti alle condizioni di censo, sociali e professionali del possessore.

Sotto altro profilo, il principio di eguaglianza sarebbe ancora violato, e cioè per l'indiscriminato livellamento, cui la norma darebbe luogo, col richiamo a categorie di persone molto differenziate e non omogenee, enunciate nel già citato art. 707, tra le quali é da notare che é compresa quella degli "ammoniti" (mentre l'istituto dell'ammonizione ha cessato di avere applicazione a seguito della sentenza n. 11 del 1956 di questa Corte).

Si deduce, poi, che la norma in esame configura una presunzione legale di colpevolezza dell'imputato, ispirata a criteri informatori del Codice del 1930 quali risultano dai lavori preparatori, in contrasto col principio accolto nell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, sia che tale principio debba intendersi come "non presunzione di colpevolezza", sia che debba intendersi come "presunzione di innocenza", nel senso che esplicitamente risulta dall'art. 6, par. 2, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, assunto come fonte di diritto interno. Al riguardo si fa richiamo alla citata sentenza n. 11 del 1956 di questa Corte con la quale si sono dichiarate illegittime le disposizioni del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza riguardanti l'ammonito che dava ragione a sospetti; e si deduce che, nell'odierna fattispecie, la presunzione legale di colpevolezza risulterebbe dal rilievo con l'esistenza di un fatto ignoto, qual é quello della reale provenienza dell'oggetto, non consegue ad un accertamento probatorio che incombe all'accusa e che deve essere valutato alla stregua del principio del favor rei, ma é indotta dalla rilevanza di fatti noti, quali le condizioni personali dell'imputato e l'attualità del possesso di cose non confacenti al suo stato, nel presupposto che si sia verificato ciò che ordinariamente avviene in casi simili. Da ciò deriverebbe che, per l'inversione dell'onere della prova, il giudice, nell'assenza o inerzia dell'imputato e quando non riesca aliunde a trarre elementi di giustificazione, nella generalità dei casi in cui dovrebbe assolvere per insussistenza del fatto, sarebbe, invece, tenuto a condannare, sicché il reato risiederebbe nel destare sospetto, indipendentemente dalla sussistenza del fatto che si sospetta commesso.

In quanto la norma denunziata parta da una presunzione a carico di taluni condannati si avrebbe, inoltre, la violazione del precetto contenuto nel terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, sulla funzione rieducativa della pena, che, come risulta dalla sentenza n. 12 del 1966 di questa Corte, deve essere tenuta costantemente di mira dal legislatore. Al riguardo si osserva che, ove non si voglia ridurre l'affermazione costituzionale ad un vago richiamo romantico, occorrerebbe anzitutto incominciare a considerare il condannato come socialmente recuperato al termine dell'esecuzione della pena, se non altro al limitato effetto di non creargli e, anzi, di rimuovere condizioni di iniquo sfavore, come quella di cui alla disposizione impugnata, tenuto conto delle ordinarie e già pesanti conseguenze che sogliono seguire ad una condanna.

Sulla violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, si sostiene, infine, che la norma de qua non offre una determinazione sufficientemente precisa del fatto punibile, come richiede, invece, l'indicato precetto costituzionale, che, visto anche in relazione agli artt. 1 e 2 del Cod. penale, dovrebbe garantire una formulazione tassativa della fattispecie legale, al fine, tra l'altro, di evitare che gli organi di polizia possano discrezionalmente procedere all'adozione di misure cautelari, come il sequestro dell'oggetto, in ipotesi altrimenti non consentite. Ciò premesso, si deduce che l'espressione "o di altre cose non confacenti al suo stato" contenuta nella forma denunziata, sarebbe inidonea a porre il cittadino imputabile nella condizione di conoscere l'oggetto del divieto ed il confine tra le cose di cui gli é consentito il possesso e quelle per cui gli é negato. Né, ad avviso del pretore, potrebbe trarsi argomento in contrario della sentenza n. 27 del 1961 nella quale questa Corte esaminando l'art. 121 del T.U. delle leggi di p. s., ha ritenuto che espressioni estensive o esemplificative contenute in norme penali, ai fini della determinazione del fatto punibile, non comportano un'interpretazione analogica, vietata in materia penale, ma soltanto un ordinario procedimento di interpretazione. Si osserva, infatti, nell'ordinanza, che la disposizione denunziata non contiene indicazioni esemplificative del genere suindicato, ma ricorre all'impiego di termini come "cosa" e "stato" di pregnante valore connotativo, nonché ad una clausola generale, riconducibile, alle forme dell'anticipata analogia, da considerare illegittima per difetto di tassatività e per il divieto del ricorso all'analogia che, in regime di costituzione rigida, varrebbe non solo per l'interprete, bensì anche per il legislatore ordinario.

La rilevanza della questione viene prospettata sotto i seguenti principali profili.

Precisato che l'imputato risulta essere stato diffidato dal questore di Modena a non fare ritorno in quella città per un periodo di tre anni, si argomenta che, qualora al termine "ammonito", dell'art. 707 del Codice penale, richiamato dall'art. 708, dovesse ritenersi equivalente il termine "diffidato" per la sopravvenuta legge 27 dicembre 1956, n. 1423, l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma denunziata - anche solo della espressione "essendo ammonito" - (in conseguenza della citata sentenza n. 11 del 1956 di questa Corte), comporterebbe la sua disapplicazione al caso concreto.

Si prospetta, poi, in via alternativa, l'ipotesi che non ricorra l'equivalenza dei termini sopra indicati, perciocché il giudice dovrebbe assolvere, ai sensi dell'art. 152 del Codice di procedura penale, con la formula "il fatto non costituisce reato": e, anche in tal caso, si assume che la questione sollevata sarebbe rilevante per la priorità logica e giudica della pregiudiziale di legittimità costituzionale e per le dannose conseguenze che potrebbero derivare all'imputato in caso di assoluzione con la formula ora richiamata.

L'ordinanza, regolarmente comunicata e notificata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 321 del 23 dicembre 1967.

Nel giudizio dinanzi a questa Corte non vi é stata costituzione di parti.

Alla pubblica udienza del 20 giugno 1968 l'Avvocatura dello Stato ha insistito nelle sue tesi e conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le due cause hanno il medesimo oggetto, poiché investono entrambe l'art. 708 del Codice penale. sul possesso ingiustificato di valori, anche se una di esse si limita a denunziare la violazione dell'art. 3 della Costituzione, mentre l'altra si estende a quella degli artt. 25, secondo comma, e 27, secondo e terzo comma.

Sono state, perciò, trattate congiuntamente e vengono riunite per essere decise con unica sentenza.

2. - Le censure muovono da un'interpretazione della norma denunziata, che la Corte ritiene di condividere solo in parte.

É, anzitutto, da escludere che lo "stato" del possessore debba essere tenuto presente nella sola ipotesi di possesso di cose diverse dal denaro o da oggetti di valore.

Una tale opinione, che condurrebbe all'inaccettabile conseguenza di considerare ingiustificato anche il possesso di una, sia pure minima, somma di danaro, é contrastata dal rilievo che il vigente art. 708 del Codice penale, per quanto concerne la determinazione dell'oggetto del possesso (cfr. Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo del Codice penale, vol. II, pag. 509), ha inteso semplicemente rendere più dettagliate quelle stesse ipotesi di possesso di danaro e di oggetti, che, anche nella corrispondente norma del Codice abrogato del 1889 (art. 492), erano indicate con riferimento alla condizione personale del possessore.

3. - In senso del tutto equivalente al concetto, testé riferito, di "condizione" deve essere, poi, intesa la nozione di "stato" del possessore, la quale, per il fatto stesso di riguardare soltanto chi sia stato condannato o sottoposto a misure penali o di polizia, non può, come tale, essere ricondotta ad una significazione che sia in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Infatti, il Codice penale, per altri fini particolari e senza alcun intento discriminatorio, impone, ad esempio, al giudice di stabilire la misura della pena, tenendo conto della capacità a delinquere, che deve essere desunta, tra l'altro, dalla condotta del reo e dalle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale (art. 133, secondo comma). Analogamente, la norma denunziata si richiama al concetto di "stato" per esprimere il rapporto che intercorre tra una situazione oggettiva, quale é il possesso delle cose nelle particolari condizioni indicate nell'art. 707 del Codice penale, e la vita che il possessore abitualmente conduce, non al fine di operare una differenziazione tra soggetti in diversi condizioni economiche e sociali, ma di rendere possibile una valutazione adeguata della giustificazione che, per la stessa disposizione, deve essere data dal soggetto incriminato sulla provenienza del danaro o delle cose possedute.

4. - É da escludere che la norma denunziata, nel richiedere che si giustifichi la provenienza del possesso, ne imponga anche la prova: quello che si richiede é, invece, l'elemento della coscienza e della volontarietà dell'azione (che nei reati contravvenzionali può esprimersi nella semplice colpa; art. 42, ultimo comma, Cod. pen.), da provarsi in concreto nelle singole fattispecie; solo che l'elemento suddetto va desunto dal giudice, secondo i comuni principi della libertà delle prove e del libero convincimento.

5. - Nell'esame delle censure avanzate nei confronti della disposizione denunziata, intesa nei sensi sopra riferiti, devesi, anzitutto, escludere la violazione del principio di eguaglianza in relazione alla nozione di "stato" del possessore, attesa la particolare accezione nella quale, alla stregua di quanto si é detto, deve essere accolta tale espressione.

Fondata appare, all'opposto, la censura di violazione del suddetto principio, prospettata a motivo dell'ingiustificato livellamento, al quale darebbe luogo la denunziata norma dell'art. 708 del Codice penale col richiamo alle eterogenee categorie di persone menzionate nel precedente art. 707.

Invero, il reato previsto dalla disposizione impugnata, concretandosi nel possesso ingiustificato di valori, é nel Codice annoverato tra le contravvenzioni di polizia dirette alla prevenzione di delitti contro il patrimonio (libro III, titolo I, cap. II, par. 5); sicché la norma trova il suo fondamento logico limitatamente a quelle situazioni soggettive nelle quali l'incolpato abbia dei precedenti penali specifici, relativi a condanne per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni, annoverate nello stesso paragrafo cui appartiene l'art. 708 (che attengono anch'esse alla tutela, sia pure indiretta, del patrimonio).

Non pare, invece, che la norma stessa presenti carattere di ragionevolezza nel suo riferimento alle altre categorie di soggetti.

Per quanto riguarda i condannati per mendicità, é da tener conto della diversa ratio delle relative norme repressive (artt. 670 Cod. pen. e 156 T.U. delle leggi di p. s.) dirette prevalentemente ad evitare molestie e coercizioni (cfr. sentenza n. 2 del 26 gennaio 1957 di questa Corte), e alla sua estraneità alla protezione cui é preordinata la contravvenzione in esame.

Per la stessa estraneità é privo di ragionevolezza configurare il reato nei confronti di soggetti sottoposti a misure di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta - allorché non conseguano a condanne per delitti o a contravvenzioni previste nelle due prime ipotesi dell'art. 707 del Codice penale.

Lo stesso é a dirsi per la categoria dei soggetti sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, irrogata a quei diffidati che non abbiano cambiato condotta, quando siano pericolosi per la sicurezza o la moralità pubbliche (misure che, in forza della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 13, importa ora i medesimi effetti che prima erano dell'ammonizione), data la varietà dei motivi per i quali può essere adottata la suindicata misura di prevenzione.

6. - Infondate debbono ritenersi le ulteriori censure avanzate, con l'ordinanza del pretore di Bologna, al più volte citato art. 708 del Codice penale, sotto il profilo della violazione della riserva di legge in materia penale, della non presunzione di colpevolezza e della funzione rieducativa della pena (artt. 25, secondo comma, e 27, secondo e terzo comma, della Costituzione).

Quanto alla prima censura, é da osservare che la norma denunziata, intesa nei sensi già riferiti, offre un'indicazione precisa del fatto punibile e pone il soggetto nella condizione di conoscere il divieto che forma oggetto della disposizione incriminatrice, tenuto conto, altresì, della possibilità che gli é offerta di dare una soddisfacente spiegazione del possesso di un valore che non sia confacente alle sue abituali condizioni di vita.

Quanto, poi, al "principio di non colpevolezza" dell'art. 27 della Costituzione, esso non investe il modo di provare i "fatti di reato", sicché rimane estraneo alla materia del presente giudizio.

La violazione, infine, del precetto costituzionale sulla funzione rieducativa della pena, a parte la sua portata e i suoi limiti (cfr. sentenza n. 12 del 1966 di questa Corte), non può essere invocata per escludere la legittimità delle norme (e per di più contravvenzionali), il cui oggetto specifico della tutela é la prevenzione di taluni delitti contro il patrimonio.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 708 del Codice penale, limitatamente alla parte in cui fa richiamo alle condizioni personali di condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misura di sicurezza personale e a cauzione di buona condotta.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1968.

 

 

Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI  

 

Depositata in cancelleria il 19 luglio 1968.