SENTENZA N. 48
ANNO 1971
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, del r.d. 21 novembre 1923, n. 2480 (nuove disposizioni sulle pensioni normali del personale dell'Amministrazione dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 9 dicembre 1968 dalla Corte dei conti - sezione quarta giurisdizionale - sul ricorso di Stanco Michele, iscritta al n. 239 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 172 del 9 luglio 1969.
Udito nella camera di consiglio del 28 gennaio 1971 il Giudice relatore Ercole Rocchetti.
Ritenuto in fatto
Il maresciallo maggiore dell'esercito Stanco Michele, processato per furto di energia elettrica, venne riconosciuto colpevole e condannato con sentenza del tribunale di Roma in data 23 febbraio 1951, passata in giudicato il 31 luglio stesso anno.
Egli, che non era stato sospeso durante la pendenza penale, continuò a prestare servizio sino al marzo 1956, e cioè fino alla data sotto la quale fu rimosso dal grado e collocato in congedo mediante il dispaccio ministeriale 21 febbraio e il decreto 22 maggio dello stesso anno.
Con successivo decreto ministeriale in data 19 settembre 1958 n. 2310 gli venne liquidata la pensione, con riferimento però al solo servizio prestato sino alla data del 31 luglio 1951, e cioè a quella del passaggio in giudicato della sentenza penale, che aveva determinato la rimozione dal grado e il collocamento in congedo.
Contro tale decreto lo Stanco, in data 28 gennaio 1960, proponeva ricorso alla Corte dei conti chiedendo che la pensione gli venisse invece liquidata sull'intero servizio prestato, e cioè computandosi in esso anche il periodo dal 31 luglio 1951 al 1 marzo 1956, di cui non era stato tenuto conto in sede di liquidazione.
La Corte dei conti, Sezione IV giurisdizionale, con ordinanza 9 dicembre 1968, rilevava che il periodo di cui sopra avrebbe dovuto essere escluso dal computo in base al disposto dell'art. 1, secondo comma, del r.d. 21 novembre 1923, n. 2480, il quale dispone che "per l'impiegato civile o per il militare collocato a riposo o comunque dispensato dall'impiego, che venga di fatto, per qualsiasi causa, trattenuto in servizio, il tempo trascorso in tale condizione non é valutato agli effetti di pensione".
La stessa Corte, pero, sollevava su tale disposizione di legge questione di legittimità costituzionale, ritenendo che essa fosse in contrasto con i seguenti articoli della Costituzione:
a) con l'art.36, perché se la pensione costituisce retribuzione differita, essa deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e quindi comprendere l'intero servizio, senza esclusione di quello così detto di fatto;
b) con l'art. 38, perché se il trattamento di pensione assolve un ruolo previdenziale, ed é qualificato come un vero e proprio diritto soggettivo, esso deve assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore e non può essere diminuita rispetto a quella normalmente dovuta;
c) con l'art. 3, perché se per il lavoratore privato vige il principio sancito dall'art. 2126 del codice civile, e secondo il quale "la nullità o l'annullamento del contratto non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione", il diverso principio dell'esclusione per il pubblico dipendente del così detto servizio di fatto viola, a danno di quest'ultimo, il principio di eguaglianza.
L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata e la causa viene portata e trattata in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9 delle Norme integrative, non essendovi stata nel presente giudizio costituzione di parti.
Considerato in diritto
1. - La Corte dei conti, Sezione IV giurisdizionale, sottopone alla Corte questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, del r.d. 21 novembre 1923, n. 2480, il quale dispone che "per l'impiegato civile o per il militare collocato a riposo o comunque dispensato dall'impiego, che venga, di fatto, trattenuto in servizio, il tempo trascorso in tale condizione non é valutato agli effetti di pensione".
Secondo il giudice a quo, tale norma contrasterebbe con gli artt. 36, 38 e 3 della Costituzione, perché escludendo, per i pubblici dipendenti, dal computo del tempo pensionabile quello relativo al suddetto servizio di fatto, disconoscerebbe il carattere retributivo e previdenziale che qualifica il trattamento di quiescenza e violerebbe il principio di eguaglianza, in quanto, per i dipendenti delle aziende private, vige un diverso e più favorevole principio, che é quello sancito nell'art. 2126 del codice civile.
La questione, nei termini in cui é proposta, può ritenersi solo parzialmente fondata.
Al riguardo é da osservare che il giudice a quo, ponendo l'accento soltanto sul carattere retributivo del trattamento di quiescenza - secondo questa Corte ha più volte avuto occasione di affermare, traendone le conseguenze relative: sentenze 1966 n. 3, 1967 n. 78 e 1968 n. 112, omette di tener conto che il così detto servizio di fatto interviene dopo un provvedimento assunto dalla pubblica Amministrazione che dispone, per l'impiegato civile o per il militare, il collocamento a riposo o la dispensa dal servizio. Da tale atto non può non derivare la cessazione del rapporto di servizio, con tutte le conseguenze che ne discendono quanto ai vincoli giuridici intercorrenti fra i due soggetti del rapporto e alla determinazione del trattamento di quiescenza.
Né ciò può violare il principio che, per l'art. 36 della Costituzione, assicura al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, perché al dipendente trattenuto di fatto in servizio dopo la cessazione del rapporto viene, come é ovvio, corrisposto il normale stipendio che lo compensa di queste sue ulteriori prestazioni. E se é vero che, per questo periodo, non gli é riconosciuta la corrispondente quota di pensione, ciò avviene solo perché esso é successivo alla cessazione di quel tipo di rapporto cui la legge, nell'ambito della sua discrezionalità, riconnette, con gli altri effetti, quello di determinare, come quota differita della retribuzione, la maturazione del diritto alla pensione.
Per le stesse ragioni deve, peraltro, escludersi che ricorra, nel caso, la pur denunziata violazione dell'art. 38 della Costituzione.
2. - Piuttosto é da considerare che la norma impugnata, nell'ampiezza della sua formulazione e nella interpretazione che di essa viene comunemente fornita, consente che venga ad essere considerato servizio di fatto, e come tale non computabile ai fini di pensione, anche quello compiuto prima che intervenga un provvedimento di collocamento a riposo o di dispensa dal servizio, allorché i suoi effetti siano però, nell'atto che lo dispone, stabiliti con data di decorrenza anteriore a quella della sua assunzione.
Tale retroattività agli effetti del provvedimento deve ritenersi contrastare col principio di retributività sancito nell'art. 36 della Costituzione giacché se il rapporto di servizio non può aver termine senza un legittimò provvedimento, finché questo non é adottato, esso vive e produce tutti i suoi effetti, compresa l'attribuzione del diritto a quella parte differita di retribuzione che é la pensione. E se vive, i suoi effetti non possono essere decurtati da un provvedimento che, ponendovi termine, ne faccia risalire le conseguenze a un tempo anteriore.
In proposito la Corte, già nella sentenza n. 78 del 1967, ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 54 n. 4 del testo unico sulle pensioni (r.d. 21 febbraio 1895, n. 70) in base al quale veniva esclusa la computabilità, ai fini del trattamento di quiescenza, del tempo trascorso in attesa di giudizio seguito da condanna.
Nel fare richiamo a tale precedente e alle ragioni che lo sorreggono, qui, in un più ampio contesto, che é quello contenuto nell'art. 1, secondo comma, del r.d. n. 2480 del 1923, che accomuna tutte le cause di cessazione del rapporto di servizio per determinarne gli effetti ai fini del trattamento di quiescenza, può e deve affermarsi che il provvedimento che accerta quella cessazione non può avere effetto retroattivo e che la norma, per la parte che lo consente, deve essere perciò dichiarata costituzionalmente illegittima.
3. - Infine, l'altro motivo dedotto dal giudice a quo, e che si riferisce all'art. 3 della Costituzione, va dichiarato infondato.
Fra i dipendenti dell'Amministrazione pubblica e quelli delle aziende private, secondo la Corte ha anche recentemente ritenuto (sentenza 1970 n. 179), non sussiste identità di situazioni e di corrispondenti valutazioni giuridiche tali da giustificare un giudizio di equivalenza in tema di rispetto del principio di eguaglianza.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 1, secondo comma, del r.d. 21 novembre 1923, n. 2480, sulle pensioni dello Stato, nella parte in cui consente che il provvedimento di collocamento a riposo o di dispensa dall'impiego, per l'impiegato civile o per il militare collocato in pensione o comunque dispensato dall'impiego, ma trattenuto di fatto in servizio, possa, ai fini della decorrenza del trattamento di quiescenza, avere effetto da data anteriore a quella dell'anzidetto provvedimento.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 1971.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 16 marzo 1971.