SENTENZA N. 143
ANNO 1969
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295, sulla prescrizione biennale degli stipendi, pensioni ed emolumenti dovuti dallo Stato, convertito in legge 2 giugno 1939, n. 739, promosso con ordinanza emessa il 23 maggio 1967 dal Consiglio di Stato - Sessione VI - sul ricorso di Ghini Aurelio contro il Ministero delle finanze, iscritta al n. 110 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 203 del 10 agosto 1968.
Visti gli atti di costituzione di Aurelio Ghini e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nell'udienza pubblicata del 29 ottobre 1969 il Giudice relatore Giuseppe Chiarelli;
uditi l'avv. Giulio Cevolotto, per il Ghini, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Il sig. Aurelio Ghini, con ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale depositato il 20 giugno 1961, esponeva di essere stato assunto dall'intendenza di finanza di Verona il 1 ottobre 1951, quale addetto al magazzino compartimentale stampati; di aver prestato lavoro in regime di subordinazione, con orario normale; e di essere stato licenziato il 30 giugno 1959. Chiedeva quindi che il Consiglio di Stato, accertato che il rapporto intercorso con l'Amministrazione aveva natura di pubblico impiego, riconoscesse il diritto dell'istante e per quanto gli spettava per differenze di retribuzione e per indennità di licenziamento e preavviso, con conseguente condanna dell'Amministrazione.
Resisteva il Ministero delle finanze, sostenendo che nella specie non sussisteva un rapporto di pubblico impiego; che comunque era stato corrisposto l'intero compenso pattuito; e, in subordine, che gli eventuali diritti fatti valere dal ricorrente erano in gran parte estinti per prescrizione.
Il Consiglio di Stato, con decisione interlocutoria 11 marzo 1964, accertava che tra il ricorrente e l'Amministrazione era stato instaurato un rapporto di lavoro subordinato, e con successiva decisione 23 maggio 1967 riconosceva che il Ghini doveva essere considerato operaio temporaneo, a norma dell'art. 17 della legge 26 febbraio 1952, n. 67, e dichiarava che gli spettavano le indennità per cessazione dal rapporto di lavoro e le rate di retribuzione per il periodo compreso nel biennio precedente la notifica del ricorso, non prescritte ai sensi dell'art. 2 del decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295, convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739. Per le rate di retribuzione dovute per il periodo anteriore a tale biennio sollevava d'ufficio la questione di legittimità costituzionale del primo comma del predetto art. 2 del decreto legge n. 295 del 1939, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, rimettendo gli atti alla Corte costituzionale con ordinanza 23 maggio 1967.
L'ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, é stata trasmessa a questa Corte il 22 maggio 1968, ed é stata successivamente pubblicata.
2. - Nell'ordinanza si premette che per effetto della sentenza 10 giugno 1966, n. 63, di questa Corte i crediti derivanti da rapporti d'impiego con enti pubblici non sono più soggetti a prescrizione in pendenza del rapporto. Viene quindi prospettata la questione se per le medesime ragioni affermate nella predetta sentenza, l'art. 2, primo comma, del decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295, riguardante i dipendenti dello Stato, non contrasti con l'art. 36 della Costituzione, e se non si é creata una situazione di differente trattamento tra questi ultimi e i dipendenti degli altri enti pubblici, in violazione dell'art. 3 della Costituzione.
3. - Si é costituito nel presente giudizio il sig. Aurelio Ghini, rappresentato e difeso dall'avv. Giulio Cevolotto, con deduzioni depositate il 7 luglio 1968. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 26 luglio 1968.
Nelle deduzioni per il Ghini si osserva che il discorso circa la costituzionalità della norma impugnata deve essere prospettato con riferimento a quel particolare rapporto che, come nella specie, viene qualificato come temporaneo, il quale per la sua natura precaria, non ha quella resistenza che é caratteristica del rapporto di pubblico impiego e presenta invece sostanziali coincidenze col rapporto di impiego privato, in cui, come si é espressa la Corte nella citata sentenza, il timore del licenziamento può spingere il lavoratore a rinunciare a parte dei propri diritti. Si conclude quindi per una pronuncia di incostituzionalità delle norme impugnate.
Nell'atto di intervento del Presidente del Consiglio si premette che le norme che stabiliscono la prescrizione biennale degli stipendi e assegni dovuti dallo Stato corrispondono a particolari necessità, diverse da quelle che costituiscono la ragione delle prescrizioni brevi di cui agli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1 del Codice civile, e che sarebbero obliterate ove si ritenesse che anche per il rapporto di pubblico impiego con lo Stato il corso della prescrizione si inizi dopo la cessazione del rapporto.
Si osserva quindi che le ragioni che hanno portato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dei predetti articoli non sussistono in relazione al rapporto di pubblico impiego in genere, e, in particolare, al rapporto di impiego con lo Stato.
Tali rapporti, come é stato affermato nella citata sentenza della Corte, presentano una maggiore forza di resistenza, che si manifesta nel sistema di garanzie in base alle quali é agevole il controllo di legittimità del provvedimento risolutivo del rapporto, il cui annullamento porta all'integrale restituzione del dipendente al suo posto di lavoro. Non sussiste quindi, secondo la difesa del Presidente del Consiglio, il prospettato contrasto con l'art. 36 della Costituzione.
Né vi é contrasto con l'art. 3 della Costituzione: la dichiarazione di illegittimità costituzionale dei ricordati articoli del codice civile pronunciata dalla Corte, riguarda il rapporto di lavoro di diritto privato e non anche il rapporto di pubblico impiego con enti diversi dallo Stato. Comunque la norma impugnata risponde a esigenze di semplicità, chiarezza e stabilità, che sono proprio della contabilità e del bilancio dello Stato e hanno minore rilevanza per gli altri enti pubblici. Esse, diversificando le situazioni giuridiche, valgono a giustificare, non solo la diversa durata del periodo di prescrizione, ma anche la diversa decorrenza del periodo stesso.
L'atto di intervento conclude per la dichiarazione di infondatezza.
4. - Nella discussione orale i difensori delle parti hanno sviluppato i rispettivi argomenti.
Considerato in diritto
1. - La prima questione proposta nel presente giudizio é se per l'art. 2, primo comma, del decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295, che stabilisce la prescrizione biennale del diritto agli stipendi ed assegni degli impiegati dello Stato, sussistano le medesime ragioni di contrasto con l'art. 36 della Costituzione, che questa Corte, nella sentenza 10 giugno 1966, n. 63, ravvisò negli artt. 2948, n. 3, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile, limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro.
La risposta negativa é implicita nella stessa menzionata sentenza, la quale ebbe a rilevare, come si ricorda nell'ordinanza di rimessione, la particolare forza di resistenza che caratterizza il rapporto di pubblico impiego. Questa forza di resistenza é data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l'illegittima risoluzione di esso, le quali escludono che il timore del licenziamento possa indurre l'impiegato a rinunziare ai propri diritti.
Tale situazione é comune ai rapporti di pubblico impiego intercorrenti con lo Stato o con enti pubblici minori, e pertanto il regime delle prescrizioni di cui alla norma impugnata non contrasta con l'art. 36 della Costituzione.
2. - A diversa conclusione non si può giungere per i rapporti di pubblico impiego statale di carattere temporaneo, sui quali si é particolarmente soffermata la difesa del Ghini.
Anche in essi l'impiegato é assistito dalle garanzie dei rimedi giurisdizionali contro l'arbitraria risoluzione anticipata del rapporto: rimedi che si estendono al sindacato sull'eccesso di potere, come é confermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Va inoltre considerato che, secondo l'ordinamento del pubblico impiego, le assunzioni temporanee (che, in linea di principio, sono escluse) hanno carattere precario, e la rinnovazione del relativo rapporto non presenta carattere di normalità. La non rinnovazione costituisce, invece, un evento inerente alla natura del rapporto stesso. La previsione di essa non pone, pertanto, il lavoratore in una situazione di timore di un evento incerto, al quale egli sia esposto durante il rapporto, qual é il licenziamento nel rapporto di lavoro di diritto privato.
Non ricorrono perciò, nel rapporto d'impiego temporaneo con lo Stato, le ragioni su cui si é basata, nella precedente sentenza di questa Corte, la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dei ricordati articoli del Codice civile.
3. - Infondata é anche la questione di legittimità costituzionale della norma impugnata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dei menzionati articoli del Codice civile, contenuta nella sentenza n. 69 del 1966 di questa Corte, riguarda i rapporti di lavoro regolati dal diritto privato e non si estende ai rapporti di pubblico impiego, sia che si tratti di rapporti con lo Stato, sia che si tratti di rapporti con altri enti pubblici: il che, come si é accennato, si ricava inequivocabilmente dalla motivazione della detta sentenza (n. 3: "In un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti"), alla stregua della quale va interpretato il dispositivo. Dalla parziale perdita di efficacia di quelle norme, conseguita alla pronuncia della Corte ed ai sensi della medesima, non é, pertanto, derivata una situazione di differente trattamento per i dipendenti dello Stato rispetto ai dipendenti di altri enti pubblici, egualmente garantiti dall'ordinamento del pubblico impiego.
Spetta al giudice di merito stabilire, nei singoli casi, se é stato posto in essere un rapporto di pubblico impiego, o se lo Stato o l'ente pubblico si é assoggettato alla disciplina di diritto comune del rapporto di lavoro.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295, sulla prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed emolumenti dovuti dallo Stato, convertito in legge 2 giugno 1939, n. 739, sollevata con l'ordinanza di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 1969.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 20 novembre 1969.