SENTENZA N. 119
ANNO 1969
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 510, secondo comma, del Codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 18 aprile 1968 dal pretore di Livorno nel procedimento penale a carico di Lottini Luana ed altri, iscritta al n. 95 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del 13 luglio 1968.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 3 giugno 1969 la relazione del Giudice Ercole Rocchetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
Il Pretore di Livorno, con decreto penale 10 febbraio 1968, condannava Lottini Luana, Sammuri Mario e Baldi Giovanna alla pena di lire 10.000 di ammenda ciascuno perché colpevoli della contravvenzione prevista dall'art. 731 del Codice penale, in relazione all'art. 175 del regio decreto 5 febbraio 1928, n. 577 per avere, i primi due, quali genitori esercenti la patria potestà, e la terza, quale datrice di lavoro, del minore Sammuri Roberto, omesso di far frequentare allo stesso la scuola d'obbligo.
I tre imputati proponevano opposizione, limitando ogni loro richiesta alla sola concessione dei benefici di legge. Espletato il dibattimento, il pretore, con ordinanza 18 aprile 1968, dopo aver osservato che, all'esito di esso, si profilava la concreta possibilità della affermazione della responsabilità penale degli imputati, con l'accoglimento però della loro unica istanza relativa alla concessione dei suddetti benefici, rilevava che, nonostante tale pronunzia a loro favorevole, essi avrebbero dovuto essere tuttavia condannati anche alle spese successive alla opposizione, ai sensi dell'art. 510, comma secondo, ultima parte. E poiché ciò non gli sembrava né logico né equo, egli proponeva d'ufficio, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale di tale norma, con riferimento agli artt. 24, comma secondo, e 3 della Costituzione.
In relazione al primo profilo di legittimità il giudice a quo osserva che la norma impugnata costituisce un grave ostacolo all'estrinsecazione del diritto di difesa, in quanto, relativamente alle opposizioni che non si risolvono nella richiesta di una totale assoluzione, il condannato ha la certezza, anche nel caso di totale accoglimento dei motivi di opposizione, di dover subire la sanzione della condanna al pagamento delle ulteriori spese del procedimento.
Circa la violazione del principio di eguaglianza, nell'ordinanza si afferma che la opposizione al decreto penale, sebbene non possa considerarsi in senso stretto una forma di impugnazione, presenta la stessa ratio legis delle impugnazioni propriamente dette, per le quali vige una regola ben diversa, in quanto é per esse sufficiente una qualsiasi reformatio in melius del provvedimento impugnato per escludere la condanna alle spese.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 177 del 13 luglio 1968.
Si costituiva in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato che, con deduzioni depositate in cancelleria il 31 luglio 1968, chiedeva che venisse dichiarata insussistente la dedotta illegittimità costituzionale.
In ordine alla violazione dell'art. 24, l'Avvocatura, dopo aver richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale per quanto concerne il diritto di difesa e l'istituto del giudizio per decreto, rileva che la struttura del procedimento di opposizione rende impossibile qualsiasi raffronto del dispositivo della sentenza con quello del decreto, perché, proposta che sia l'opposizione, seguita dalla comparizione dell'opponente, il decreto e la pena con esso irrogata cessano di esistere e quindi di produrre qualsiasi effetto giuridico: di guisa che il giudice, nell'emanare la sentenza, non é vincolato ai motivi della opposizione e all'opposizione stessa perché, con la decisione, egli non accoglie o rigetta l'opposizione proposta, ma decide semplicemente in via ordinaria il processo.
Quanto alla violazione del principio di eguaglianza, l'Avvocatura osserva che, sia o non sia la opposizione a decreto penale un mezzo di impugnazione, - il che, nel caso non occorre risolvere - é certo che sussiste una netta differenziazione nella disciplina positiva dei due istituti che denunzia la mancanza del presupposto della identità delle situazioni giuridiche, e quindi la insussistenza di qualsiasi giustificazione alla pretesa esigenza costituzionale della parità di trattamento.
Considerato in diritto
Secondo il pretore di Livorno, la norma contenuta nell'art. 510, comma secondo, ultima parte, del Codice di procedura penale sarebbe costituzionalmente illegittima perché pone a carico dell'opponente a decreto penale le spese del giudizio di opposizione anche quando la sentenza che conclude quel giudizio con la condanna dell'imputato, contenga statuizioni per lui più favorevoli di quelle del decreto opposto. In particolare, per quanto attiene al contrasto con l'art. 24 della Costituzione, la certezza della condanna alle spese determinerebbe "un'ingiustificata compressione del diritto di difesa dell'imputato", il quale ritenga di opporsi solo parzialmente alle sanzioni comminate nel decreto penale; questa situazione violerebbe altresì il principio costituzionale di eguaglianza, in quanto porrebbe in evidenza la disparità di trattamento cui, per la norma impugnata, é sottoposto l'opponente, rispetto a quello riservato all'imputato che propone impugnazione il quale, invece, ai sensi dell'art. 213 del Codice di procedura penale, é esonerato dal pagamento delle spese nel caso di parziale accoglimento di essa.
Tutto il ragionamento del pretore di Livorno si fonda sulla ritenuta equivalenza tra l'opposizione al decreto e le impugnazioni in genere "stante la eadem legis ratio", secondo si legge nell'ordinanza.
Per giungere a quelle conclusioni, il giudice a quo si ispira evidentemente a una delle teoriche espresse dalla dottrina sulla natura giuridica dell'opposizione a decreto penale, che si discute se sia mezzo d'impugnazione, o di gravame, o sia mezzo volto soltanto alla ricusazione di un giudizio sommario.
La Corte considera invece irrilevante, ai fini della risoluzione della questione di legittimità proposta dal pretore di Livorno, ogni indagine volta ad accertare la natura giuridica dell'opposizione a decreto penale, ritenendo del tutto sufficiente (per concludere in merito ad essa) l'esame delle disposizioni del codice di procedura penale relative alla struttura del giudizio di opposizione.
Risulta dagli artt. 509 e 510 del Codice di procedura penale che l'opposizione, seguita dalla comparizione dell'imputato, produce la "revoca" del decreto. Dal che risulta altresì, secondo la Corte ebbe già a rilevare nelle sentenze nn. 170 del 1963 e 27 del 1966, che il giudizio che segue all'opposizione é giudizio che si svolge in primo grado di giurisdizione.
E sembra ovvio alla Corte che, se il giudizio di opposizione, revocato che sia il decreto, si svolge in primo grado, debbano ad esso applicarsi tutte le regole proprie di quel grado, compresa quella sulla condanna nelle spese che, per l'art. 488, comma primo, del Codice di procedura penale, consegue in ogni caso alla condanna dell'imputato.
Perciò la sentenza in giudizio di opposizione a decreto penale, anche se contiene statuizioni più favorevoli di quelle del decreto revocato, ma al quale ogni riferimento, stante l'avvenuta revoca, non può aver più luogo, purché non termini con la totale assoluzione dell'imputato, é sentenza di condanna che, ai sensi del già citato art. 488, primo comma, importa appunto la condanna alle spese.
Queste considerazioni risolvono entrambe le questioni proposte nell'ordinanza, senza che occorra aggiungere altro, almeno per quanto riguarda il secondo motivo, che solleva l'eccezione di incostituzionalità, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, bastando per esso osservare che il giudizio sulla situazione ed equivalenza circa le norme sulle spese, va effettuato raffrontando l'art. 510, comma secondo, ultima parte, con l'art. 488, comma primo, e non già, come nell'ordinanza, con l'art. 213, comma primo del codice di procedura penale.
Quanto all'altra questione, sollevata con riferimento all'art. 24, comma secondo, della Costituzione, alla considerazione, già di per sé rilevante, attinente al grado del giudizio, può aggiungersi che la previsione della condanna nelle spese non può per l'opponente rappresentare una forma di coercizione che renda per lui oltremodo gravoso l'esercizio di quel diritto. Egli sa che, come penalmente responsabile, una condanna nelle spese dovrà pur sopportare, perché essa consegue naturalmente alla condanna cui dà luogo il suo illecito comportamento. E se é vero che la legge (arg. art. 510, comma secondo, ultima parte, del cod. proc. pen.) addossa a lui, oltre a quelle del giudizio di opposizione, anche (in parte) le spese dei decreto revocato, eliminata la tassa di decreto non più percepibile a causa della revoca di esso; é altresì vero che nel complesso trattasi di oneri la cui modestia non può incidere sulle decisioni che egli intenda assumere in merito alla sua difesa più di quanto, almeno, ciò non accada in ogni altro tipo di giudizio.
E va ricordato che la Corte, nelle sentenze 113 del 1963 e 80 del 1966, sul problema delle spese giudiziali in rapporti al diritto di difesa, ha escluso che tali oneri possano rappresentare un ostacolo all'esercizio di quel diritto, ove essi siano, come nel caso, razionalmente collegati al processo e siano di tale misura da non rendere oltremodo gravoso lo svolgersi delle attività processuali.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale proposta con l'ordinanza 18 aprile 1968 del pretore di Livorno e relativa all'art.510, comma secondo, ultima parte, del Codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 24, comma secondo, e 3 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 giugno 1969.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Deposito in cancelleria l'8 luglio 1969.