Sentenza n. 39 del 1969
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SENTENZA N. 39

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10 del regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148, modificato dalla legge 24 luglio 1957, n. 633, recante "coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione", promosso con ordinanza emessa il 17 marzo 1967 dal tribunale di Palermo nel procedimento civile vertente tra Aiello Giovanni ed altri, la ditta ITACO e l'Azienda siciliana trasporti, iscritta al n. 109 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 dell'8 luglio 1967.

Visti gli atti di costituzione di Aiello Giovanni ed altri, della ditta ITACO e dell'Azienda siciliana trasporti;

udita nell'udienza pubblica del 29 gennaio 1969 la relazione del Giudice Ercole Rocchetti;

uditi l'avv. Francesco Santoro Passarelli, per Aiello ed altri, l'avv. Raffaele Oriani, per la ditta ITACO, e l'avv. Santi Cacopardo, per l'Azienda siciliana trasporti.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con decreto 1 febbraio 1965, n. 2200, l'Assessore per il turismo, le comunicazioni ed i trasporti della Regione siciliana dichiarò la ditta ITACO decaduta dalle concessioni di autolinee di cui era titolare ed accordò la concessione provvisoria delle stesse autolinee alla Azienda siciliana trasporti, con l'onere di rilevare il personale già dipendente dalla ITACO.

Con atto di citazione, notificato in data 16 luglio 1965, Aiello Giovanni ed altri lavoratori convenivano dinanzi al tribunale di Palermo la ditta ITACO, in persona del suo titolare Cecala Luigi, e l'Azienda siciliana trasporti chiedendo che la ITACO fosse condannata al pagamento di alcune differenze di retribuzione ad essi dovute in forza del contratto collettivo nazionale di lavoro 6 maggio 1964, e che l'Azienda siciliana trasporti fosse condannata al pagamento in loro favore delle differenze di retribuzione dipendenti dal riconoscimento delle qualifiche e della anzianità conseguite presso la ITACO sino al 6 febbraio 1965, previo accertamento del loro diritto al riconoscimento delle anzidette qualifiche ed anzianità.

Costituitasi in giudizio, la ditta ITACO contestava nel merito le domande proposte dagli attori ed eccepiva preliminarmente, ai sensi dell'art. 10 del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148 (esteso al personale delle autolinee extraurbane dalla legge 22 settembre 1960, n. 1054), l'improponibilità di quelle domande proposte dagli attori che non avevano formato oggetto del ricorso in via amministrativa, e l'improponibilità di tutte le domande proposte dagli attori Filiberto Rosalia, Davì Antonina, Tralongo Mariano che non avevano presentato alcun reclamo.

Anche l'Azienda siciliana trasporti, costituitasi ritualmente in giudizio, oltre a chiedere nel merito il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti, eccepiva, la improcedibilità e proponibilità delle domande proposte da Filippone Liborio e Davì Antonietta per inosservanza del disposto di cui all'art. 10 del R.D. n. 148 del 1931.

La difesa degli attori contestava in linea di fatto che il Filippone e il Tralongo noh avessero proposto reclamo e deduceva la illegittimità costituzionale dell'art. 10 del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148 e successive modificazioni con riferimento all'art. 36 della Costituzione.

Il tribunale di Palermo, con ordinanza del 17 marzo 1967, riteneva rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 del regio decreto citato, in relazione all'art. 36 della Costituzione e, sospendendo il giudizio in corso, ordinava la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione di legittimità.

2. - Sotto il profilo della rilevanza il tribunale osserva che la dedotta questione di legittimità é determinante ai fini della decisione della causa, non solo per coloro che hanno totalmente omesso il reclamo, ma anche per gli altri che, pur avendo presentato un reclamo, nello stesso non hanno fatto menzione di tutte le domande di poi proposte con l'atto introduttivo del giudizio.

In ordine alla manifesta infondatezza, il giudice a quo, dopo aver richiamato le argomentazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale 10 giugno 1966 n. 63 (con cui é stata dichiarata la incostituzionalità degli artt. 2948 n. 4, 2955 n. 2 e 2956 n. 1 del Codice civile, limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorre durante il rapporto di lavoro), rileva che "lo stato di disagio in cui si trova il lavoratore di fronte al proprio datore di lavoro e per il quale sono state ritenute incostituzionali le norme sulla prescrizione (nei limiti sopra precisati) ricorre anche per il lavoratore che ometta di presentare il reclamo di cui al citato art. 10, entro il previsto termine di giorni 60".

"In sostanza, afferma l'ordinanza in esame, come si ritiene che il lavoratore possa rinunciare, durante il rapporto di lavoro, all'esercizio dei diritti soggetti a prescrizione, così non può escludersi che lo stesso lavoratore possa rinunciare alla presentazione del reclamo nei termini di cui al citato art. 10, in costanza dello stesso rapporto, poiché tale situazione si risolverebbe in ogni caso nella rinuncia del diritto alla giusta retribuzione".

L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica dell'8 luglio 1967, n. 170.

3. - Dinanzi alla Corte si sono costituite soltanto le parti private. L'Azienda siciliana trasporti, rappresentata e difesa dagli avvocati Santi Cacopardo e Massimo Annesi, con deduzioni depositate in cancelleria il 20 maggio 1967, rileva che il tribunale non ha esattamente valutato i limiti della pronuncia di incostituzionalità alla quale ha fatto riferimento e la normativa della legge denunciata.

In ordine al primo profilo, essa osserva che il necessario esperimento di un ricorso in via gerarchica, quale presupposto per l'ammissibilità dell'azione giudiziaria, non incide su una ipotizzabile situazione psicologica di disagio del lavoratore che potrebbe temere di essere licenziato: difatti, i lavoratori che citano il proprio datore di lavoro, come é avvenuto nella controversia sottoposta all'esame del tribunale di Palermo, dimostrano chiaramente di non essere soggetti ad alcun timore, nei confronti del proprio datore di lavoro; essi quindi avrebbero potuto benissimo proporre un reclamo in via amministrativa.

Relativamente poi alla disciplina del rapporti di lavoro dei dipendenti delle aziende esercenti trasporti in concessione, la difesa dell'Azienda siciliana trasporti osserva che quel rapporto é caratterizzato da un notevole grado di stabilità che risulta da tutta la disciplina legislativa contenuta nel regio decreto n. 148 del 1931 e nell'annesso regolamento: in relazione a questa disciplina, si é parlato, di "semistabilità" e di "stabilità condizionata", per distinguere il rapporto in esame, da un lato dal rapporto di pubblico impiego, caratterizzato da una piena stabilità, e dall'altro, dal rapporto di lavoro di diritto comune, nel quale é consentito il licenziamento ad nutum. Più precisamente, la forza di rapporto a stabilità condizionata é subordinata soltanto al perdurare delle condizioni di esercizio dell'azienda, nel senso che il rapporto di lavoro può avere termine nei casi di limitazione, semplificazione e soppressione dei servizi, debitamente autorizzati dall'autorità governativa.

In una memoria depositata il 16 gennaio 1969, l'Azienda siciliana trasporti, premessa una esegesi storica del sistema legislativo relativo al trattamento del personale addetto ai servizi di trasporto, osserva che la progressiva generalizzazione delle disposizioni contenute nel R.D. n. 148 del 1931, con le leggi n. 628 del 1952 e n. 1054 del 1960, costituisce una inversione della tendenza di lasciare una sfera d'azione sempre più ampia all'iniziativa privata, e rappresenta un momento più avanzato della posizione del lavoratore nell'azienda, in applicazione delle leggi dell'equo trattamento, nel cui ambito si colloca perfettamente la norma impugnata, dopo le modifiche apportate dalla legge 24 luglio 1957, n. 634.

L'Azienda siciliana trasporti, pertanto, conclude chiedendo il rigetto della questione di legittimità dell'art. 10 del regio decreto citato.

4. - Anche gli attori rappresentati e difesi dagli avvocati Eduardo Pitucco e Lorenzo Gorgone Querini si sono costituiti dinanzi alla Corte con deduzioni del 22 maggio 1968, deducendo il contrasto tra la norma denunciata e l'art. 36 della Costituzione: difatti, alla stregua di principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 63 del 1966, dovrebbe ritenersi costituzionalmente illegittima la norma che consente la perdita dei diritti del lavoratore per semplice breve inazione nel corso del rapporto di lavoro e cioè mentre il lavoratore si trova in condizioni di inferiorità e di subordinazione nei confronti del datore di lavoro.

Ma, secondo la difesa degli attori, la norma incriminata si presenta incostituzionale anche con riferimento all'art. 24 della Costituzione, in quanto consente una tacita rinuncia del lavoratore ad un altro diritto costituzionalmente garantito, quale é quello di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti.

Per gli attori, sono state inoltre prodotte due distinte memorie, depositate in cancelleria il 10 e 16 gennaio 1969 e rispettivamente redatte dall'avv. Lorenzo Gorgone Querini e dagli avvocati Eduardo Pitucco e Francesco Santoro Passarelli.

Gli attori, richiamandosi alla sentenza n. 63 del 1966 osservano che se la Corte, nella motivazione, ha fatto richiamo alla eventualità del licenziamento, lo ha fatto solo per menzionare la forma di rappresaglia più grave, non certo per limitare la pronunzia di incostituzionalità soltanto ai rapporti che prevedano la possibilità del recesso ad nutum da parte del datore di lavoro.

Osservano inoltre gli attori, che le garanzie di stabilità dei lavoratori delle aziende di trasporto in concessione non sono maggiori di quelle che godono tutti i dipendenti di aziende che occupano più di trentacinque persone, ai sensi della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Questa situazione determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, contrastante con l'art. 3 della Costituzione, se si ammettesse che i lavoratori addetti ai servizi di trasporto debbano sottostare, per l'esercizio giudiziale dei loro diritti, a un termine di decadenza che decorra anche in costanza del rapporto di lavoro.

D'altra parte, il fatto che le richieste degli attori dinanzi al tribunale di Palermo non fossero di natura meramente patrimoniale, non escluderebbe il richiamo all'art. 36 della Costituzione, in quanto, nel disposto costituzionale, l'irrinunziabilità deve essere intesa nel senso più lato, con riferimento al trattamento economico e normativo previsto dalla legge e dai contratti collettivi.

5. - Con deduzioni depositate in cancelleria il 28 luglio 1967 si é, infine, costituita col patrocinio dell'avv. Raffaele Oriani la ditta ITACO, la quale, con argomentazioni analoghe a quelle prospettate dalla difesa della Azienda siciliana trasporti, chiede che la Corte dichiari non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148.

6. - Nella discussione orale le difese delle parti hanno illustrato le tesi già proposte negli scritti difensivi e insistito nelle già prese conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

Per la risoluzione delle controversie individuali relative ai rapporti di lavoro fra gli agenti dipendenti e i privati concessionari di trasporti in concessione, l'art. 10 del decreto n. 148 del 1931, modificato dalla legge n. 633 del 1957, stabilisce che l'azione avanti l'autorità giudiziaria non possa essere iniziata dagli agenti se non sia stato previamente esperito un complesso procedimento amministrativo, che si articola nel seguente modo. La domanda giudiziale non può essere, in ogni caso, proposta se non sia stato prima presentato un reclamo in via gerarchica all'amministrazione dell'ente concessionario e non siano trascorsi trenta giorni dalla presentazione di esso. Inoltre, mentre per le controversie aventi per oggetto competenze arretrate ed altre prestazioni di natura esclusivamente patrimoniale (comma quarto dell'art. 10) il termine per l'inizio dell'azione, nonché - deve intendersi - per la presentazione del reclamo, é quello stesso della prescrizione previsto nei richiamati artt. 2948, 2955 e 2956 del Codice civile; per le controversie, invece, aventi ad oggetto diritti non patrimoniali o, comunque, non esclusivamente patrimoniali (diritti relativi alla carriera, alla qualifica, ecc.) sono stabiliti, ed a pena di decadenza, altri termini (commi secondo e terzo dell'art. 10) di sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento contro cui si ricorre, per la presentazione del reclamo, e di sessanta giorni, decorrenti dalla scadenza dei trenta dopo la presentazione del reclamo anzidetto, per l'inizio dell'azione giudiziaria.

Il tribunale di Palermo, nel giudizio come sopra proposto da agenti dipendenti contro enti concessionari per il pagamento di indennità arretrate e il riconoscimento di qualifiche, ha ritenuto, oltre che rilevante, non manifestamente infondata l'impugnativa di illegittimità costituzionale dell'art. 10 di cui si é detto, proposta dagli attori in ordine al sistema del preventivo obbligatorio esperimento di un procedimento amministrativo nel quale sono contemplati termini di decadenza per la proposizione dell'azione giudiziaria. E tale impugnativa ha collegato al rispetto dell'art. 36 della Costituzione, il cui disposto ha ritenuto possa considerarsi nel caso violato per le stesse ragioni per le quali la Corte ritenne, nella sentenza n. 63 del 1966, illegittimi gli articoli del Codice civile in materia di prescrizione, nella parte in cui consentivano la decorrenza di essa nel corso di un rapporto di lavoro subordinato.

Anche la norma impugnata nel detto art. 10, si legge infatti nell'ordinanza del tribunale di Palermo, "importerebbe che il lavoratore, per semplice breve inazione che, nell'ambito del rapporto di lavoro equivale a una tacita rinunzia, possa perdere il proprio diritto a quella giusta retribuzione costituzionalmente garantita".

Nel corso del giudizio avanti la Corte, le difese degli agenti interessati hanno asserito che la norma impugnata violerebbe, oltre che l'art. 36, anche gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Ma di tali deduzioni non può tenersi alcun conto, dovendo il giudizio essere circoscritto alla questione di legittimità nei termini dell'ordinanza di rimessione.

Ora, nessuna parte dell'art. 10 in esame può ritenersi contrasti col principio della giusta retribuzione tutelato dall'art. 36 della Costituzione. Né la parte di cui al quarto comma dell'art. 10, nel quale il richiamo agli artt. 2948, 2955 e 2956 del Codice civile (da intendersi ormai fatto al contenuto che essi hanno assunto in conseguenza della sentenza della Corte n. 63 del 1966, escludente la decorrenza della prescrizione nel corso del rapporto di lavoro) elimina ogni temuto elemento di coartazione della volontà del lavoratore; e nemmeno la parte di cui ai commi terzo e quarto dello stesso art. 10, così come essi risultano modificati dalla legge n. 633 del 1957 che, con l'aggiunta del quarto comma, ha ristretto il campo di applicazione dei due commi precedenti. I commi secondo e terzo, che prima coprivano l'intera area di tutte le possibili controversie tra agenti e concessionari, ora interferiscono, secondo quanto si é già detto, soltanto in tema di problemi attinenti ai rapporti di natura non esclusivamente patrimoniale.

É però da escludersi che l'art. 36 della Costituzione, oltre ad assicurare il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, tuteli anche i diritti di cui trattasi, benché da essi possano conseguenzialmente derivare, in via mediata, degli effetti di ordine patrimoniale. Tali diritti, fra i quali il più saliente appare quello del riconoscimento di una qualifica maggiore, sono volti, in genere, ad attribuire al lavoratore, con l'acquisizione di una nuova posizione nell'azienda, aumenti di retribuzione e non già ad assicurargli soltanto la corresponsione di una retribuzione proporzionata al lavoro effettivamente da lui prestato e che il citato articolo della Costituzione si limita a garantirgli.

Va infine considerato che, nella visione globale del regime del così detto equo trattamento, disciplinato dal R.D. n. 148 del 1931, non manca in favore degli agenti un complesso di vantaggi (stabilità condizionata del rapporto di lavoro, art. 27 allegato A; tutela degli avanzamenti art. 15; disciplina affidata a una Commissione con membri nominati dall'autorità amministrativa, le cui decisioni possono essere impugnate in Consiglio di Stato artt. 54 e 58) i quali mentre da un lato attenuano gli svantaggi delle modalità e dei termini previsti per la disciplina della risoluzione delle controversie di lavoro, dall'altro eliminano, o almeno riducono di molto, quei pericoli che gli attori in giudizio avanti il tribunale di Palermo dicono di ravvisare in quella disciplina.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, recante "coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tramvie e linee di navigazione interna in regime di concessione", articolo modificato dalla legge 24 luglio 1957, n. 633, in riferimento all'art. 36 della Costituzione, proposta con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 marzo 1969.

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE 

 

Depositata in cancelleria il 21 marzo 1969.