SENTENZA N. 56
ANNO 1968
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Aldo SANDULLI, Presidente
Dott. Antonio MANCA
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe VERZÌ
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, secondo comma, della legge provinciale di Bolzano 24 luglio 1957, n. 8, sulla tutela del paesaggio, promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1966 dal Consiglio di Stato - sezione V - sul ricorso di Menegot Vittorio contro la Giunta provinciale di Bolzano, iscritta al n. 180 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 258 del 15 ottobre 1966 e nel Bollettino Ufficiale della Regione Trentino-Alto Adige n. 44 del 25 ottobre 1966.
Visti gli atti di costituzione di Vittorio Menegot e del Presidente della provincia di Bolzano;
udita nell'udienza pubblica del 22 aprile 1968 la relazione del Giudice Michele Fragali;
uditi l'avv. Angelo Facchin, per il Menegot, e l'avv. Giuseppe Guarino, per la provincia di Bolzano.
Ritenuto in fatto
1. - Decidendo su un ricorso proposto da Menegot Vittorio contro i decreti del Presidente della Giunta provinciale di Bolzano 16 novembre 1959, 30 luglio e 30 settembre 1963, con i quali rispettivamente era stato approvato l'elenco delle particelle da sottoporre alla tutela del paesaggio ai sensi della legge provinciale 24 luglio 1957, n. 8, era stata disposta l'immediata sospensione del lavori di costruzione di una casa di abitazione intrapresi dal Menegot e si era diffidato quest'ultimo a rimuovere l'opera eseguita, il Consiglio di Stato, con ordinanza del 13 maggio 1966, denunziava a questa Corte l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, secondo comma, della legge provinciale suddetta, in riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione. L'ordinanza riteneva che, pur essendo mancate le norme di attuazione dello Statuto, la legge impugnata doveva ritenersi legittima perché non interferiva nell'organizzazione degli uffici statali, di cui alla legge 29 giugno 1939, n. 1497, non avendo disposto trasferimento di personale, di servizi ed uffici; dichiarava perciò manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale che, al riguardo, era stata proposta dal Menegot in relazione all'art. 95 dello statuto del Trentino-Alto Adige e della VIII disposizione transitoria della Costituzione. Il Consiglio di Stato rilevava invece il sospetto di illegittimità dell'art. 15 della legge impugnata, nel suo secondo comma, perché statuisce che, nel caso di divieto assoluto di costruire sopra aree da considerarsi fabbricabili, può essere concesso uno speciale contributo, nei limiti delle somme da stanziarsi in apposito articolo del bilancio provinciale: quel divieto, secondo il Consiglio predetto, svuota completamente del suo contenuto il diritto di proprietà quando si riferisce ad un'area che, come nella specie, é da ritenersi fabbricabile, e il contributo che, in tal caso, può essere concesso, non solo ha natura e consistenza ben diversa dall'indennizzo, ma, dovendo misurarsi sull'importo degli stanziamenti di bilancio, non é oggetto di un diritto certo e perfetto.
L'ordinanza é stata notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri il 18 luglio 1966; é stata comunicata ai Presidenti delle due Camere il 30 dello stesso luglio; é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 15 ottobre 1966, n. 258, e sul Bollettino Ufficiale della Regione Trentino-Alto - Adige del 25 ottobre 1966, n. 44.
Nel processo così instaurato si sono costituiti tanto il Menegot quanto il Presidente della Giunta provinciale di Bolzano, che hanno anche depositato memorie.
2. - Il Menegot fa proprie le osservazioni svolte dal Consiglio di Stato; ma in via pregiudiziale risolleva la questione di legittimità costituzionale di tutta la legge, che il Consiglio di Stato aveva ritenuto manifestamente infondata, e ritorna a prospettare la mancanza di norme d'attuazione dello statuto regionale: all'uopo si richiama alle sentenze di questa Corte, le quali, da un lato, hanno dichiarato illegittime leggi regionali o provinciali che, nel disciplinare materie di competenza, avevano sostituito organi provinciali a quelli statali, e, d'altro lato, hanno ritenuto che le norme d'attuazione sono non solo in ogni caso necessarie, ma sono necessarie per delimitare i poteri trasferiti. Ritiene che la Corte possa promuovere in via incidentale anche d'ufficio la questione stessa, dato il carattere assorbente che essa ha rispetto all'altra che riguarda soltanto un articolo della legge, e dato che questa contiene norme sostitutive di quelle corrispondenti contenute nella legge statale del 1939, e istitutive di organi provinciali aventi poteri spettanti ad organi statali. Il Menegot rileva inoltre che l'ordinanza nella quale si fissa l'ambito di una questione non forma limite alla rilevabilità di ufficio, da parte della Corte, di altra questione che il giudice a quo ha dichiarato manifestamente infondata, e che si pone come pregiudiziale rispetto al giudizio sul processo rinviato alla Corte.
3. - Il Presidente della Giunta provinciale osserva anzitutto che la questione prospettata dal Consiglio di Stato attiene al diritto alla corresponsione di un indennizzo, e che pertanto il Menegot l'avrebbe potuta promuovere solo nel corso di un giudizio concernente la liquidazione di tale indennizzo o quando avesse formulato, dinanzi al giudice amministrativo, un motivo di illegittimità del provvedimento provinciale, sotto il profilo della mancanza della copertura finanziaria, o sotto quello della rilevanza della norma impugnata ai fini della formazione dell'atto amministrativo oggetto del ricorso al giudice stesso. Il provvedimento del 30 settembre 1963, impugnato con tale ricorso, si fonda invece sull'art. 13 della legge, che abilita l'autorità provinciale ad ordinare la remissione in pristino nel caso di lavori effettuati senza autorizzazione; e della norma impugnata non deve farsi applicazione al provvedimento, non sapendosi nemmeno se l'autorità amministrativa provvederà all'imposizione del vincolo di inedificabilità. Nel ricorso amministrativo non v'é traccia di un'affermazione per cui, sulla determinazione della pubblica amministrazione, abbia influito la circostanza che essa riteneva di potere in seguito imporre un divieto di assoluta inedificabilità contro versamento di un contributo a sua discrezione: anzi, nella parte finale del provvedimento, la Giunta provinciale si riservava, in base a successivo esame, di applicare l'art. 15, secondo comma, oggi denunziato a questa Corte.
Viene altresì rilevato che la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale fa riferimento solo alle aree da considerarsi come fabbricabili, e che il Consiglio di Stato aveva riconosciuto apoditticamente la fabbricabilità dell'area in contestazione, senza chiarire cioè se di essa, per effetto di disposizioni di piano regolatore o di regolamento edilizio, é prevista l'utilizzazione a scopi edilizi, e senza considerare inoltre che l'area predetta é adibita ad usi agricoli, é utilizzata come tale e non ha mai avuto altra destinazione.
Nel merito il Presidente della provincia osserva che l'edificabilità non é la sola possibilità di utilizzazione che possa aversi per un terreno, né é una qualità indefettibile del suolo, dipendendo anche dalla destinazione che al terreno sia data dalla pubblica autorità nel quadro delle esigenze urbanistiche. La compressione della facoltà di costruire, a tutela degli interessi paesistici, non comporta espropriazione, ma solo limitazione di una delle possibilità di godimento e quindi non dà luogo ad indennità. In occasione della questione del compenso conseguente all'imposizione di servitù militari, la Corte ha giudicato che le limitazioni della facoltà di costruire da sole ed in astratto non sono idonee a configurare atti di espropriazione; e si é sempre escluso che spetti un indennizzo per quelle destinazioni di piano regolatore che, pur escludendo l'utilizzazione edilizia o contenendola in limiti molto ristretti, lasciano impregiudicato il godimento del bene sotto altro profilo (verde privato o area sportiva privata).
Il Presidente della provincia osserva infine che l'art. 9 della Costituzione tutela il passaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione senza prescrivere obblighi di indennizzo in conseguenza delle limitazioni che questa tutela può implicare: nel contrasto tra l'articolo predetto e il successivo art. 42 deve darsi preferenza al primo, perché compreso nella parte della Costituzione dedicata ai principi fondamentali, onde la possibilità che un indennizzo, se é dato, possa essere determinato con criteri diversi e in misura inferiore rispetto a quelli normali, tenuto conto del carattere prioritario dell'interesse pubblico da soddisfare.
Nell'ambito di questo quadro normativo, la norma impugnata si giustifica pienamente.
4. - Nella sua memoria difensiva, il Menagot fa presente che il Consiglio di Stato, con ordinanza 3 novembre 1967, in contrasto con quanto aveva considerato nell'altra che ha dato inizio a questa causa, ha promosso giudizio di legittimità costituzionale di tutta la legge provinciale 24 luglio 1957, n. 8, per i motivi che nell'ordinanza in esame esso aveva disatteso; chiede pertanto che la Corte sospenda l'odierno giudizio, per la sua trattazione assieme a quello successivamente proposto.
Circa il merito rileva che non é dubbio che l'area in oggetto é edificabile: non é stato contestato dalla provincia, anzi questa lo ha espressamente affermato quando ha proposto di accordare un indennizzo; rileva inoltre che il Consiglio di Stato ha denunciato l'art. 15 della legge, perché il provvedimento di vincolo é preordinato all'applicazione di una norma che si assume costituzionalmente illegittima in quanto non prevede un indennizzo.
5. - A sua volta, la memoria difensiva del Presidente della provincia contesta che sia possibile sollevare in questa sede la questione di illegittimità dell'intera legge provinciale proposta dal Menegot e disattesa dal Consiglio di Stato: la Corte ha affermato che essa deve esaminare le sole questioni enunciate nell'ordinanza di rimessione, e nei limiti in cui risultano in concreto formulate, senza che si possa tener conto delle deduzioni difensive che sollevano profili nuovi. La questione non potrebbe nemmeno essere riesaminata dal Consiglio di Stato, ostandovi la preclusione dipendente dalla precedente decisione, definitiva e inoppugnabile. La Corte ha proposto di ufficio questioni di legittimità costituzionale solo in quanto rilevanti ai fini della propria decisione; ma nella specie tale estremo non sussiste, perché la questione prospettata può essere decisa senza che sia necessario indagare se sia legittima nel suo complesso la legge in cui trova sede la norma alla quale si riferisce l'ordinanza di rimessione. La norma sull'indennizzo potrebbe infatti essere legittima anche se fosse illegittima l'intera legge; e l'asserto dell'insufficienza dell'indennizzo non dipende direttamente ed esclusivamente dall'assunta illegittimità di tutta la legge, perché tale illegittimità produrrebbe quella della norma impugnata solo perché la comprenderebbe, non perché servirebbe a far decidere la questione sollevata dal Consiglio di Stato. Il Presidente della provincia ripete poi le considerazioni svolte dal Consiglio stesso per ritenere manifestamente infondata la questione oggi riproposta; e soggiunge che lo Stato non ha impugnato la legge, e che questa é stata indicata, nel memorandum presentato all'Assemblea delle Nazioni Unite il 12 ottobre 1960, come una delle leggi che aveva reso effettiva l'autonomia provinciale.
Si considera che, in ogni caso, la dichiarazione di illegittimità della norma impugnata dovrebbe coinvolgere anche l'art. 16 della legge statale 29 giugno 1939, n. 1497, che ha formulazione identica alla disposizione oggetto dell'ordinanza di rimessione.
Si ribadisce che i provvedimento della provincia contro i quali il Meneigot ha ricorso al Consiglio di Stato non avevano imposto alcun vincolo di inedificabilità, e perciò non poteva farsi alcuna questione di indennizzo.
Circa il merito viene considerato che la Costituzione garantisce, non tutte le situazioni soggettive che formano il contenuto della proprietà, ma soltanto un contenuto minimo della stessa, rappresentato dall'appartenenza del bene e dalle sue utilizzazioni in atto, quindi dai diritti acquisiti, veri e propri diritti soggettivi: solo rispetto a tale contenuto minimo sorge l'obbligo di indennizzo. Ma lo ius aedificandi, dall'unanime giurisprudenza, non é qualificato come diritto soggettivo: il diritto di costruire si connette infatti a quanto al proprietario del fondo é riconosciuto dalla pubblica amministrazione nell'esercizio di poteri amministrativi discrezionali, quali sono quelli inerenti ai piani regolatori generali e particolari, nonché ai regolamenti edilizi. Rispetto a tale ius non é perciò configurabile un diritto all'indennizzo. solo dopo il rilascio della licenza di costruzione la situazione assume il carattere di diritto soggettivo, e può prospettarsi un obbligo di indennizzo nel caso di provvedimento ablativo.
Ma vi é di più: la giurisprudenza ha negato l'indennizzo in ogni caso in cui il vincolo o la limitazione derivi direttamente dalla legge o abbia comunque carattere generale. In questo caso si é fuori dall'espropriazione, che é sempre l'effetto di un provvedimento a carattere individuale; e l'attività amministrativa, che fosse necessaria, é diretta esclusivamente ad accertare in concreto le condizioni per la sussistenza del vincolo. Anche i vincoli derivanti dai piani paesistici o dai piani regolatori stanno fuori dal concetto di espropriazione se pure pongano il divieto di totale inedificabilità; perché il vincolo sorge direttamente da atti che non sono particolari e concreti, qualunque ne sia la natura giuridica (regolamenti, atti amministrativi generali o programmi o piani) e comunque perché il vincolo fa perdere solo un vantaggio potenziale.
Ed ancora: l'espropriazione si riferisce unicamente a casi nei quali, al sacrificio del proprietario, si connette il vantaggio di un altro soggetto giuridico particolare, cosicché si é fuori da tal concetto ogniqualvolta il vincolo o il limite interviene in vista del soddisfacimento del pubblico interesse, senza che alcun altro soggetto ne tragga vantaggio particolare, come é nel caso del vincoli paesistici.
Il Presidente della provincia si rifà all'assunto da lui esposto nelle deduzioni di costituzione, circa la prevalenza dell'art. 9 della Costituzione sull'art. 42: la proprietà ha sempre carattere di diritto affievolito, ove sussistano esigenze di tutela paesistica, sulla base della stessa norma costituzionale, e la legge e gli atti amministrativi non fanno altro che specificare la volontà del costituente, dettando le norme che siano necessarie al fine, e provvedendo in concreto.
Si fa inoltre richiamo alla dottrina secondo la quale l'assoggettamento di immobili a vincoli paesistici non concreta una misura espropriativa, perché tali vincoli sono connaturati all'essenza della proprietà, non derivano da discrezionale elezione del pubblico potere, e si concretano attraverso un giudizio squisitamente tecnico.
Infine si insiste nel ritenere che l'area di proprietà del Menegot non é edificabile (e si esibisce un certificato tavolare), che nessuna autorizzazione a modifiche dello stato dei luoghi era stata richiesta o concessa, che l'ordine di ripristino é stato causato dal comportamento illegittimo del Menegot, che non si può escludere che l'autorizzazione ad edificare possa essere concessa per un diverso progetto, e che il Menegot può continuare indisturbato a coltivare il fondo secondo la sua destinazione.
6. - All'udienza del 22 aprile 1968 i difensori delle parti hanno illustrato le rispettive tesi ed insistito nelle conclusioni prese.
Considerato in diritto
1. - La Corte ritiene di non poter accogliere l'istanza del Menegot, di sospendere il giudizio su questa causa, per riunirla all'altra promossa dal Consiglio di Stato con ordinanza 3 novembre 1967 su ricorso Tirelli, che investe tutta la legge provinciale 24 luglio 1957, n. 8.
Le due cause sono in diversi stadi processuali: quella odierna é in condizione di essere decisa, l'altra non può essere ancora portata a discussione e non può pertanto ritardare il corso della prima.
2. - É pure da disattendere la richiesta dello stesso Menegot, con la quale si propone l'esame di legittimità della intera legge suddetta, per la mancanza, nella provincia, del potere legislativo sulla materia regolata.
La Corte trova il limite del suo potere nell'ordinanza che promuove il processo di legittimità. Nella specie, il Consiglio di Stato ha sollevato dubbi unicamente su un articolo della legge (il 15), e dopo aver dichiarato manifestamente infondato il sospetto di illegittimità di tutta la legge sotto il medesimo profilo che oggi il Menegot prospetta. L'ordinanza del Consiglio di Stato é adeguatamente motivata; e ciò impedisce alla Corte, secondo la sua giurisprudenza, di verificare la fondatezza dei motivi addotti.
Né la questione disattesa dal giudice a quo può essere promossa di ufficio, sia perché l'iniziativa si risolverebbe in un riesame della pronuncia del Consiglio, sia perché, come esattamente osserva la provincia, la questione non sarebbe rilevante: infatti il vedere se la norma denunciata nega fondatamente il diritto all'indennizzo dipende soltanto dalla rilevazione della natura del vincolo, mentre l'eventuale illegittimità costituzionale di tutta la legge altra conseguenza non avrebbe se non quella di assorbire la questione proposta. L'esame proposto rimane perciò impregiudicato.
3. - La provincia di Bolzano ritiene che il giudizio promosso é privo di presupposti idonei: non sarebbe, infatti, rilevante la questione relativa al diritto all'indennità ex art. 42, terzo comma, della Costituzione, perché il ricorso proposto al Consiglio di Stato contestava la legittimità di un provvedimento con il quale la provincia aveva ordinato la rimessione in pristino della situazione del luoghi in quanto modificata senza autorizzazione e senza porre alcun vincolo alla proprietà del Menegot; e non sarebbe nemmeno rilevante quella questione perché la norma impugnata disconosce il diritto ad un indennizzo solo con riferimento ad un divieto di edificabilità di aree da considerarsi edificabili, circostanza che il Consiglio di Stato non ha accertato.
Su entrambi i punti il Consiglio ha però motivato nei limiti di quell'esame delibativo entro cui l'indagine sul requisito di rilevanza deve contenersi, considerando, per un verso, che il provvedimento impugnato si preordinava all'applicazione di una norma di cui si assumeva l'illegittimità costituzionale e che aveva influito nella determinazione della provincia; per altro verso, ritenendo che l'area in questione era edificabile, in corrispondenza ad una esplicita allegazione del Menegot, dalla provincia non contestata.
4. - Nel merito la Corte rileva che i beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro localizzazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge. Costituiscono cioé una categoria che originariamente é di interesse pubblico, e l'amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente, ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa. Individua il bene che essenzialmente é soggetto al controllo amministrativo del suo uso, in modo che si fissi in esso il contrassegno giuridico espresso dalla sua natura e il bene assuma l'indice che ne rivela all'esterno le qualità; e in modo che sia specificata la maniera di incidenza di tali qualità sull'uso del bene medesimo.
L'atto amministrativo svolge, vale a dire, una funzione che é correlativa ai caratteri propri dei beni naturalmente paesistici e perciò non é accostabile ad un atto espropriativo: non pone in moto, vale a dire, la garanzia di indennizzo apprestata dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione. Espropriazione presupposta in questo articolo non v'é, come mostra di credere la provincia di Bolzano, soltanto quando v'é coattivo trasferimento ad un soggetto legittimato a dare un'ulteriore destinazione ad un bene nell'interesse pubblico, ma v'é in ogni caso in cui si autorizza la pubblica amministrazione ad incidere un diritto relativo a quel bene, sottraendone il godimento, in tutto o in parte, al suo titolare (sentenza 19 gennaio 1966 n. 6); cioè v'é espropriazione pure in ogni caso in cui la menomazione del diritto sia l'effetto dell'esercizio della potestà amministrativa di ridurre l'uso di un bene originariamente a godimento integrale, così da restringerne il contenuto essenziale, oltre che nel caso di trasferimento in mano pubblica della disponibilità di un bene per la realizzazione di un pubblico interesse. E infatti non si é mai dubitato che espropriazione per pubblico interesse vi sia nell'imposizione di una servitù, il cui esercizio non implica compimento di un'attività di risultato da parte della pubblica amministrazione.
Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le é attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene, così che le sia consentito di confrontare il modo di esercizio di alcune facoltà inerenti a quel godimento con l'esigenza di conservare le qualità che il bene ha connaturali secondo il regime che gli é proprio e di prescrivere adempimenti coordinati e correlativi a tali esigenze. L'amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare sulle aree vincolate che siano considerate fabbricabili (art. 15, secondo comma). Ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull'area, perché questo diritto é nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; né aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com'é nel caso dell'espropriazione considerata nell'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone (sentenza 9 marzo 1967, n. 20).
Che non vi sia garanzia costituzionale di un indennizzo per la limitazione implicata dall'indole del bene non é tanto, nella specie, l'effetto di una prevalenza dell'art. 9 della Costituzione sul successivo art. 42, terzo comma, come sostiene la provincia, ma deriva dall'essere il regime paesistico del diritti immobiliari del tutto estraneo alla materia dell'espropriazione per pubblico interesse quando corrisponde alle caratteristiche interiori di ciò che é oggetto di quei diritti, e dal costituire tale regime un complesso normativo che determina il modo di essere e di godere del diritti stessi, legittimato dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione.
5. - Le ragioni esposte escludono perciò consistenza al dubbio sollevato nell'ordinanza che ha promosso questo giudizio.
Già nella citata sentenza 19 gennaio 1966, n. 6, la Corte ha rilevato che la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i limiti che essa segna ai diritti reali attengono in maniera obiettiva, rispetto alla generalità dei soggetti, al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando essa regola la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o ad interessi della pubblica amministrazione; nel quale caso la legge imprime, per così dire, un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per caratteristiche intrinseche, salva la possibilità di accertare, con atti amministrativi di destinazione individuale, l'esistenza delle situazioni presupposte rispetto a singoli soggetti e a singoli beni. Solo per le imposizioni che comportano un sacrificio riguardo a beni che non si trovino nella situazione suddetta sorge, secondo la predetta sentenza, il problema dell'indennizzabilità; e i beni che formano il patrimonio paesistico della comunità costituiscono essi stessi una categoria a contorni certi, dato il carattere tecnico del giudizio che la pubblica amministrazione é chiamata ad emettere per delinearla in concreto, e che é suscettibile di sindacato giurisdizionale.
L'altra citata sentenza del 9 marzo 1967 n. 20, a proposito del potere statale di dare in concessione le cave che non siano coltivate dal proprietario del fondo, ha affermato che, nella struttura del diritto di quest'ultimo su quei beni, si inseriscono limiti impressi dalla loro rilevanza pubblica, che lo caratterizzano nella loro giuridica essenza, cosicché la possibilità di avocare alla mano pubblica la singola cava quando il proprietario del fondo non la utilizza nell'interesse generale, é sviluppo naturale e normale del rapporto da cui il diritto del privato trae origine, e non induce acquisizione di un valore da parte dello Stato né implica obbligo di un indennizzo: fatte le debite differenze, anche per i beni che costituiscono patrimonio paesistico, le limitazioni al loro godimento che derivano dalla dichiarazione di pubblico interesse o dalla iscrizione negli elenchi svolgono il limite connesso al regime di quei beni come categoria, per la loro inerenza ad un interesse della comunità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, promossa dal Consiglio di Stato con ordinanza 13 maggio 1966 in relazione all'art. 15, secondo comma, della legge della provincia di Bolzano 24 luglio 1957, n. 8, sulla tutela del paesaggio, e in riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 1968.
Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe VERZÌ - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI
Depositata in cancelleria il 29 maggio 1968.