SENTENZA N. 119
ANNO 1967
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 19 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360 (legge mineraria), promosso con ordinanza emessa il 14 giugno 1966 dal Tribunale di Montepulciano nel procedimento civile vertente tra Rossi Galliano e la Società acque radioattive del Bagno Santo di Sarteano, iscritta al n. 195 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del 12 novembre 1966.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Rossi Galliano;
udita nell'udienza pubblica del 18 ottobre 1967 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;
uditi l'avv. Ignazio Orecchio, per il Rossi, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Piero Peronaci, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza emessa il 14 giugno 1966 dal Tribunale di Montepulciano, nel procedimento civile vertente tra Rossi Galliano e la Società acque radioattive del Bagno Santo di Sarteano, veniva rimessa a questa Corte la questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 19 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360 (cosiddetta "legge mineraria"), limitatamente alla parte in cui viene imposto un pati a carico dei proprietari dei terreni compresi nel perimetro di ricerca e di concessione mineraria, in relazione all'art. 42, terzo comma, della Costituzione.
L'ordinanza é stata notificata alle parti in causa ed é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica a norma di legge.
In detta ordinanza il Tribunale ha escluso che la causa ad esso sottoposta, concernente i provvedimenti amministrativi con i quali era stato concesso alla Società acque radioattive del Bagno Santo di Sarteano il permesso di ricerca su un terreno di proprietà del Rossi, potesse essere risolta alla stregua della legge 16 luglio 1916, n. 947, e del relativo regolamento di esecuzione 28 settembre 1919, n. 1924, in quanto tale normativa darebbe disciplina unicamente alla ipotesi di apertura, di esercizio di stabilimenti termali, nonché di vendita delle acque minerali naturali ed artificiali, prescrivendo che in tali casi é necessario, rispettivamente, un provvedimento autorizzativo del prefetto e del Ministro dell'interno per l'esercizio delle predette attività.
Il Tribunale ha ritenuto pertanto che il caso in questione rientri nella disciplina normativa del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360, che ha quale oggetto, tra l'altro, le concessioni di coltivazione e di ricerca delle acque minerali o termali (art. 2, secondo comma, lett. E), ed ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 19 di tale legge, i quali, rispettivamente, da un lato imporrebbero un pati ai proprietari dei fondi compresi nel perimetro al quale si riferisce il permesso di ricerca e la concessione di coltivazione, e quindi comprimerebbero il diritto di proprietà dei terreni compresi nel perimetro, dall'altro non prevederebbero per tale sacrificio alcun indennizzo.
L'ordinanza aggiunge che la questione sollevata é rilevante agli effetti della decisione della causa principale in corso, in quanto, ove si ritenesse che é illegittima la mancata previsione dell'indennizzo per la soppressione di una facoltà contenuta nel diritto soggettivo di proprietà, verrebbe meno la norma che attribuisce al concessionario il diritto di compiere lavori di ricerca e di coltivazione nel fondo compreso nel perimetro di concessione. Sulla base di un confronto fra le norme denunciate e l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, il Tribunale conclude infine che la questione non può considerarsi manifestamente infondata.
Nel giudizio davanti a questa Corte si sono costituiti il signor Galliano Rossi ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.
Nelle deduzioni depositate in cancelleria la difesa del Rossi premette di non condividere il convincimento del tribunale di Montepulciano circa l'applicabilità al caso concreto della legge mineraria, trattandosi di una sorgente, regolata "da secoli" come acqua pubblica, che sarebbe divenuta oggetto di concessione mineraria, con costituzione di un ampio comprensorio, ma sarebbe poi stata invece utilizzata per alimentare uno stabilimento balneare, cioè per scopi che nulla hanno a che vedere con la legge mineraria.
Condivide invece la conclusione, secondo la quale si é in presenza di un caso di espropriazione, e si richiama ad una sentenza di questa Corte (n. 6 del 20 gennaio 1966), nella quale venne chiarita l'ampiezza di tale concetto.
Sostiene poi che, nel caso in questione, la limitazione alla proprietà privata non deriverebbe soltanto dai due articoli denunciati dal tribunale, perché questi si riconnetterebbero tanto alle norme che istituiscono il comprensorio, quanto a quella che dichiara di pubblica utilità tutte le opere successive. Conclude quindi augurandosi che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 27 della legge n. 87 dell'11 marzo 1953, la Corte estenda la dichiarazione di illegittimità costituzionale anche alle altre norme della legge mineraria da essa citate (artt. 18, lett. C, e 32, primo comma).
L'Avvocatura generale dello Stato ha depositato un atto di intervento, nel quale si osserva che i limiti imposti alla proprietà privata con gli artt. 10 e 19 della legge mineraria hanno lo scopo di assicurare una funzione sociale, quale é la valorizzazione del sottosuolo minerario, in armonia con il precetto sancito dal secondo comma dell'art. 42 della Costituzione.
In quanto al disposto degli articoli citati, si rileva che la limitazione alla proprietà privata nel corso della ricerca ha carattere solo temporaneo, mentre nella ipotesi che occorra invece dar corso ad opere permanenti, queste non si sottraggono alla regola della dichiarazione di pubblica utilità ed alla conseguente procedura di normale espropriazione ai sensi della legge 25 giugno 1865, n. 2359.
Infine, l'Avvocatura dello Stato richiama l'attenzione sul fatto che l'art. 10 citato sopra stabilisce l'obbligo del ricercatore di prestare cauzione e di risarcire i danni causati dai lavori di ricerca, istituendo anche una rapida procedura per il deposito di una congrua somma a titolo provvisorio, mentre l'art. 19 fa espressamente salvo il diritto alle indennità spettanti ai proprietari per i danni subiti in conseguenza della concessione.
Entrambe le parti hanno ribadito le proprie argomentazioni, richiamando anche altre decisioni della Corte, e insistito nelle conclusioni già formulate, tanto nelle rispettive memorie depositate nella cancelleria della Corte il 5 ottobre 1967, quanto nella discussione in pubblica udienza.
Considerato in diritto
Come risulta dalla esposizione dei fatti della causa, il Tribunale di Montepulciano ha ritenuto di dover fare richiamo alla disciplina normativa contenuta nel R.D. n. 1443 del 29 luglio 1927, modificata poi dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360, ed ha limitato l'ambito delle questioni sottoposte al giudizio della Corte costituzionale agli artt. 10 e 19 della legge stessa, osservando che la mancata previsione di un indennizzo, in relazione alla soppressione di una facoltà contenuta nel diritto di proprietà, potrebbe importare la illegittimità costituzionale della norma, la quale prevede il diritto di compiere lavori di ricerca e di coltivazione nel fondo compreso nel perimetro di concessione.
La Corte ha già avuto altre occasioni di pronunciarsi in materia di legislazione mineraria, precisando gli aspetti di pubblico interesse inerenti alla ricerca ed alla coltivazione delle cave e delle miniere, in relazione ai quali aspetti essa ha affermato che, pur dovendosi considerare sproporzionata una sottrazione originaria del bene al proprietario del fondo, si deve ritenere congrua l'assegnazione di un limite al diritto di questi, e che, mentre si può riconoscere che l'iniziativa privata potrebbe bene attendere alla realizzazione dell'interesse generale, tale diritto convive tuttavia con un potere della pubblica amministrazione, così che la coltivazione delle cave é assoggettata alla vigilanza di questa. Tale vigilanza, prescritta rispetto alla coltivazione delle miniere (art. 29 della legge citata), é infatti estesa anche alle cave (art. 45, ultimo comma), e può pure importare un intervento diretto a tutela dell'interesse generale, senza il tramite del procedimento tipico di espropriazione, qualora venga meno la fiducia nel proprietario del fondo (sentenza n. 20 del 28 febbraio 1967).
In quanto alla salvaguardia dei diritti del proprietario stesso, la Corte aveva pure avuto occasione di esprimere il proprio pensiero, affermando che la legge può non disporre indennizzi quando i modi ed i limiti che essa segna, nell'ambito della garanzia accordata dalla Costituzione, attengano al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale, o di intere categorie di beni, ovvero quando essa regoli la situazione che i beni stessi presentino rispetto a beni o ad interessi della pubblica amministrazione, sempre che la legge sia destinata alla generalità dei soggetti, i cui beni si trovino in date situazioni, e salva la possibilità di accertare con singoli atti amministrativi l'esistenza di tali situazioni rispetto a singoli soggetti ed a singoli beni.
La Corte stessa precisava però, che se le imposizioni non abbiano carattere generale ed obiettivo, e comportino un sacrificio per singoli soggetti e gruppi di soggetti, si prospetta il problema dell'indennizzabilità; ed aggiungeva che si deve attribuire carattere espropriativo anche all'atto, il quale imponga tali limitazioni da svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo tanto profondamente sul godimento del bene, da renderlo inutilizzabile in rapporto alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio (sentenza n. 6 del 19 gennaio 1966).
Tali principi fondamentali consentono di risolvere le questioni sollevate dal tribunale di Montepulciano con l'ordinanza di rimessione che ha dato luogo al presente giudizio, ove si interpretino le norme contenute negli artt. 10 e 19 della legge mineraria alla stregua della giurisprudenza della Corte.
É da escludere anzitutto che nella fase preliminare di ricerca, regolata dagli articoli 10 e seguenti della legge, si attui una espropriazione dei beni in questione, come ha sostenuto la difesa del Rossi; e si deve ritenere esatta l'asserzione della Avvocatura generale dello Stato, che le limitazioni alla proprietà privata stabilite dalle citate disposizioni della legge mineraria hanno carattere non permanente, ma temporaneo, posto che nella ipotesi in cui occorra dare corso ad opere permanenti dovranno applicarsi le normali procedure previste dalla legge di espropriazione 25 giugno 1865, n. 2359, la quale é espressamente richiamata dall'art. 32, primo comma, del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, in questione.
É anche vero che il citato art. 10, dopo avere disposto che i possessori dei fondi compresi nel perimetro al quale si riferisce il permesso non possono opporsi ai lavori di ricerca, soggiunge che "é fatto obbligo al ricercatore di risarcire i danni cagionati dai lavori di ricerca" e che "il proprietario del terreno soggetto alle ricerche ha facoltà di esigere una cauzione", la cui misura può essere concordata fra le parti o, in mancanza di accordo, stabilita d'ufficio, provvisoriamente dall'ingegnere capo del distretto minerario, sentito, ove occorra, l'avviso di un perito; e in tal caso il ricercatore potrà dare esecuzione ai lavori solo dopo avere eseguito il deposito.
In quanto all'art. 19 della suddetta legge mineraria si deve osservare poi che esso, integrando le disposizioni del primo comma dell'art. 10 per quanto concerne le attività successive al decreto di concessione, stabilisce che "i possessori dei fondi non possono opporsi alle operazioni occorrenti per la delimitazione della concessione, alla apposizione dei termini relativi ed ai lavori di coltivazione, "salvo il diritto alle indennità spettanti per gli eventuali danni".
Si possono ricordare del resto anche altre disposizioni della stessa legge, che offrono ulteriori garanzie agli interessati, come l'art. 31, a norma del quale "il concessionario é tenuto a risarcire ogni danno derivante dall'esercizio della miniera" e "per quanto riguarda la prestazione di eventuale cauzione, si osservano le norme stabilite nell'art. 10 (riferito sopra)".
Se si confrontano poi le disposizioni vigenti in materia con i principi generali definiti dalla Corte nelle sentenze sopra citate, appare evidente che tali disposizioni non si possono considerare costituzionalmente illegittime, in quanto risultano sufficienti a contemperare l'interesse pubblico con quello dei privati.
L'obbligo del ricercatore di risarcire i danni cagionati dai lavori e, a garanzia della osservanza di tale dovere, di prestare una adeguata cauzione prima ancora dell'inizio dei lavori stessi, sembra tutelare sufficientemente il titolare del fondo, il quale deve pure ammettere che la ricerca e la coltivazione di giacimenti, la cui scoperta potrebbe recare notevoli utilità all'economia nazionale, non possono essere rimesse esclusivamente alla sua discrezione. Si deve ricordare infine che, a norma dell'art. 45 della citata legge mineraria, le cave e le torbiere sono lasciate in disponibilità del proprietario del suolo e che l'ingegnere capo del distretto minerario può dare ad altri la concessione relativa solo quando il proprietario non intraprenda la coltivazione e non vi dia sufficiente sviluppo, previa la prefissione di un termine e la scadenza infruttuosa di questo. Contro tale provvedimento é poi ammesso il ricorso gerarchico al Ministro per l'industria, il commercio e l'artigianato, il quale decide sentito il Consiglio superiore delle miniere.
Il fatto, infine, che al proprietario viene corrisposto il valore degli impianti, dei lavori utilizzabili e del materiale estratto disponibile presso la cava o la torbiera, conferma la conclusione che il legislatore non ha inteso affatto trascurare gli interessi dei titolari dei fondi, ma solo contemperarli con quelli generali, che non possono evidentemente essere del tutto subordinati ai primi.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 19 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360 (legge mineraria), in riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, proposta dal Tribunale di Montepulciano con ordinanza 14 giugno 1966.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 novembre 1967.
Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI
Depositata in cancelleria il 23 novembre 1967.