Sentenza n. 83 del 1966
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SENTENZA N. 83

ANNO 1966

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,  

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 202, 233, primo comma, lett. c, e, f, h, 235, 236, primo e secondo comma, e 237 del T.U. delle leggi sulle imposte dirette approvato con D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, promosso con ordinanza emessa il 6 febbraio 1965 dal Pretore di Santhià nel procedimento civile vertente tra l'Esattoria consorziale di Livorno Ferraris e Pozzi Carlo, iscritta al n. 53 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 122 del 15 maggio 1965.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Pozzi Carlo;

udita nell'udienza pubblica del 17 maggio 1966 la relazione del Giudice Costantino Mortati;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un procedimento di esecuzione immobiliare promossa dall'esattore di Livorno Ferraris a carico del debitore di imposta, ing. Carlo Pozzi, sull'intero complesso di immobili di proprietà del predetto nel Comune di Santhià, l'esattore fece istanza all'Intendente di finanza affinché si procedesse a nuova valutazione di detti immobili per la migliore determinazione del prezzo base di incanto. Eseguita questa nuova valutazione e fissata l'udienza pel primo incanto avanti al Pretore di Santhià, il convenuto ha proposto in quella sede eccezione di incostituzionalità degli artt. 210 e da 233 a 237 del D.P.R. n. 645 del 1958 di emanazione del T.U. delle leggi sulle imposte dirette, per violazione degli artt. 23 e 113 della Costituzione. Il Pretore, propostosi preliminarmente il dubbio circa la propria legittimazione, quale giudice dell'esecuzione esattoriale, a sollevare questioni di costituzionalità, lo ha risolto in senso positivo, nella considerazione che il solo fatto della presenza, in veste di giudice, di un organo dell'autorità giudiziaria ordinaria nel procedimento esattoriale sia sufficiente a conferirgli tale legittimazione. Nel merito, il Pretore, dopo avere dichiarato infondate le eccezioni relative agli artt. 210 e 234, ha ritenuto invece fondate quelle attinenti agli artt. 233, primo comma, lett. c, e, f, h, 235, 236, primo e secondo comma, e 237, nonché dell'art. 202 (non denunciato dalla parte, ma avente carattere di presupposto delle altre norme del detto T.U.) nella considerazione che le disposizioni dell'art. 236 non consentono al debitore di imposta (e tanto meno ai terzi creditori) alcuna valida difesa in ordine alla valutazione dei beni staggiti, che pure é cardine del processo esecutivo, poiché la richiesta di siffatto accertamento é rimessa alla piena discrezionalità dell'Intendente di finanza, così che l'amministrazione finanziaria, che é parte, viene a svolgere attribuzioni tipiche del giudice dell'esecuzione, mentre il giudice di fronte a cui si svolge l'incanto, non solo non può disporre la valutazione che venisse omessa dall'Intendente, o la rinnovazione di quella che risultasse inadeguata, ma deve uniformarsi a quanto l'esattore procedente dispone in ordine al tempo e alle modalità delle vendite. Dalla non manifesta infondatezza della censura proponibile riguardo a detto art. 236 deve, ad avviso del Pretore, farsi discendere analogo giudizio in confronto agli altri articoli denunciati, poiché, ove questi permanessero in vita, sarebbe resa difficile o impossibile l'esplicazione dei compiti che, in seguito all'annullamento del primo, dovessero venire assegnati al giudice in applicazione delle ordinarie disposizioni del Codice di rito. Accertata la rilevanza della questione sollevata sull'ulteriore corso del procedimento, il Pretore, con ordinanza del 6 febbraio 1965, ha disposto la sospensione del medesimo e l'invio degli atti alla Corte costituzionale.

L'ordinanza, debitamente comunicata e notificata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 maggio 1965 n. 122.

Si é costituito nel giudizio avanti alla Corte l'ing. Carlo Pozzi, assistito dal curatore provvisorio dott. Giuseppe Carnevale e difeso dagli avvocati Giovanni Urbani e Ugo Montella. Con deduzioni depositate il 1 giugno 1965 questi mettono in rilievo come nell'esecuzione esattoriale il giudice della esecuzione viene a rivestire una posizione del tutto diversa da quella che assume negli altri casi di esecuzione forzata. Infatti, mentre in questi ultimi tutta la procedura é accentrata nelle sue mani, così da impedire che il debitore sia lasciato alla mercé del creditore, nell'altro caso egli non é competente ad autorizzare la vendita e neppure a fissarne le modalità di tempo e di luogo, il prezzo base d'incanto o la misura minima di aumento delle offerte, o gli eventuali successivi incanti, ed egualmente incompetente a decidere sui ricorsi che fossero proposti dal debitore, o da altri creditori, sicché tutto il suo potere si riduce nel presiedere all'incanto e ad emanare il decreto di trasferimento dell'immobile. Osservano in particolare, con riferimento alla determinazione del prezzo base, che é rimesso alla decisione assolutamente discrezionale, che può risolversi in incontrollato arbitrio, dell'Intendente disporre una perizia, e questa, dovendo rimanere affidata necessariamente, senza che ricorra alcuna giustificazione, all'ufficio tecnico erariale, cioé ancora alla parte creditrice, viene sottratta al controllo del giudice, con la possibilità di vendita a prezzo vile di beni che potrebbero soddisfare anche i diritti di terzi creditori. Né vale far riferimento ai ricorsi in via amministrativa o giurisdizionale avanti agli organi di giustizia amministrativa, poiché questi rimedi risultano in realtà meramente illusori, e d'altra parte l'azione per risarcimento si rende esperibile solo nella ipotesi che il danno sia dipendente da comportamento doloso o colposo dell'esattore, ipotesi che difficilmente si realizza nel caso di normale esercizio da parte dell'esattore dei poteri discrezionali a lui consentiti dalla legge. Concludono chiedendo che venga dichiarata la illegittimità costituzionale degli articoli denunciati.

Si é costituito anche il Presidente del Consiglio dei Ministri, assistito e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha prodotto le deduzioni in data 13 aprile 1965 ed una successiva memoria il 22 aprile 1966. In tali scritture, dopo avere espresso l'opinione che sia da riconoscere l'ammissibilità della questione, alla stregua di quanto deciso dalla Corte nella sua sentenza n. 12 del 1957, sostiene che essa si palesa priva di fondamento. Premessa la menzione delle divergenze esistenti in dottrina circa la natura della procedura esattoriale, da alcuni ritenuta amministrativa, da altri giurisdizionale, sia pure di natura eccezionale, e richiamata la sentenza n. 87 del 1962 con cui la Corte ha ritenuto che l'esecuzione esattoriale rientra fra le procedure amministrative, costituendo applicazione del principio dell'esecutorietà dell'atto amministrativo, deduce da questa la estraneità della fattispecie rispetto alla norma consacrata nell'art. 24, che può trovare applicazione solo per le procedure giudiziarie. Pertanto il problema delle garanzie costituzionali del cittadino si pone solo sotto il profilo dell'art. 113, del quale però é da escludere la violazione, se si tenga presente quanto dispongono gli artt. 208 e 209 del detto T.U., nonché i principi impliciti invocabili, in base ai quali deve ritenersi che rimane integro il diritto di esperire davanti all'autorità giurisdizionale competente i rimedi contro comportamenti arbitrari e dannosi esplicati nel corso del procedimento. Osserva poi che, in ogni caso, anche a volere accedere all'opinione della giurisdizionalità del procedimento in esame, la censura di violazione dell'art. 24 non si paleserebbe fondata, dato che, sia l'affidamento all'Intendente del potere di disporre sull'istanza di nuova valutazione prodotta dal debitore, sia la predeterminazione fatta dalla legge dell'organo cui va affidata l'esecuzione della perizia (non assimilabile al caso del parere vincolante del Genio civile previsto dalla legge n. 253 del 1950, dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 70 del 1961) risultano giustificate, l'una e l'altra, dall'interesse generale al normale svolgimento della vita finanziaria dello Stato, e non ledono quel grado minimo di difesa che é garantito dall'art. 24. Rileva infine che l'eliminazione di ogni dubbio sulla costituzionalità dell'articolo 236 conduce a far cadere anche l'eccezione relativa alle altre disposizioni denunciate.

Nella memoria l'Avvocatura illustra il carattere di concessionario di pubblico servizio rivestito dall'esattore, per dedurne che la sua attività nel procedimento espropriativo viene a coincidere con quella esplicata dalla pubblica Amministrazione, sicché l'intervento del giudice ordinario, interferendo nello svolgimento dell'azione amministrativa, si porrebbe in contrasto con i principi della divisione dei poteri. Insiste perché la questione sia dichiarata infondata.

 

Considerato in diritto

 

1. - In via preliminare é da accertare se il Pretore, quale giudice preposto all'esecuzione esattoriale immobiliare ai sensi dell'art. 200 del T.U. 29 gennaio 1958, n. 645, sia legittimato a sollevare le questioni di illegittimità costituzionale di cui all'articolo 134 della Costituzione. La Corte, nelle sue precedenti pronunce, ha ritenuto che gli artt. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948, 23 della legge n. 87 del 1953 e 1 delle Norme integrative consentano una determinazione dei requisiti necessari alla valida proposizione delle questioni stesse, tale da condurre, per una parte, a far considerare "autorità giurisdizionale" anche organi che, pur estranei all'organizzazione della giurisdizione ed istituzionalmente adibiti a compiti di diversa natura, siano tuttavia investiti, anche in via eccezionale, di funzioni giudicanti per l'obiettiva applicazione della legge, ed all'uopo posti in posizione super partes, e per un'altra a conferire carattere di "giudizio" a procedimenti che, quale che sia la loro natura e le modalità di svolgimento, si compiano però alla presenza e sotto la direzione del titolare di un ufficio giurisdizionale.

Poiché pertanto, alla stregua dell'interpretazione adottata, i due requisiti, soggettivo ed oggettivo, non debbono necessariamente concorrere affinché si realizzi il presupposto processuale richiesto dalle norme richiamate, e poiché nella specie ricorre uno di essi, e cioè l'intervento di un soggetto appartenente all'autorità giudiziaria ordinaria, anche se non destinato (almeno nella fase del procedimento esecutivo riguardante la vendita dei beni pignorati) alla risoluzione di controversie, la questione sollevata con l'ordinanza in esame si deve ritenere ammissibile.

2. - Nel merito la questione é infondata. Deve anzitutto essere confermato quanto la Corte ha già in precedenza statuito in ordine al carattere sostanzialmente amministrativo del procedimento previsto dagli artt. 200 e seguenti del citato T.U. (sentenza n. 87 del 1962). Dal che deriva che non potrebbe mai riscontrarsi nella disciplina disposta dalle norme sottoposte alla Corte una violazione del diritto di difesa, che l'art. 24 vuole sempre garantito, ma per i soli procedimenti giurisdizionali. Nessuna questione di costituzionalità può pertanto proporsi in confronto all'art. 236, nella parte in cui non consente il ricorso ad altro consulente tecnico che non sia l'ufficio tecnico erariale, allorché si debba procedere a perizia del prezzo base di incanto del bene pignorato, essendo proprio dei procedimenti amministrativi di giovarsi, quando occorra, dell'opera di consulenza degli uffici appositamente costituiti a tale scopo nel seno della pubblica Amministrazione. Nessun accostamento si rende possibile fra la norma in esame e quella che la sentenza n. 70 del 1961 ha dichiarato incostituzionale perché sottraeva al giudice, cui erano sottoposte controversie in materia di diritti soggettivi, il potere di scelta del perito e lo vincolava all'accertamento dei fatti compiuto dall'ufficio tecnico designato dalla norma stessa.

Neppure fondate, sotto l'aspetto dell'allegata violazione dell'art. 24, possono considerarsi le censure riguardanti la diversa posizione che nella esecuzione esattoriale viene attribuita al giudice rispetto all'altra che questi riveste nell'ordinario procedimento esecutivo, ed in particolare la censura rivolta all'art. 202, secondo cui la vendita dei beni pignorati si effettua a cura dell'esattore senza autorizzazione dell'autorità giudiziaria. Infatti tale diversità corrisponde alla specifica finalità del primo tipo di esecuzione, intesa a tutelare il preminente interesse della pubblica finanza, che esige il ricorso a strutture più agili e rapide, nelle quali il posto predominante é rilasciato all'attività di impulso le di decisione dei soggetti dell'amministrazione, come l'Intendente di finanza, o operanti per suo conto, come l'esattore. Il quale ultimo, essendo tenuto all'obbligo del non scosso per riscosso, non potrebbe adempierlo se non fosse messo in condizione di venire rapidamente in possesso della somma dovuta dal debitore di imposta.

3. - Risulta dalle precedenti considerazioni che la questione di costituzionalità in esame é prospettabile solo con riferimento al primo comma del detto art. 24, che garantisce a tutti di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Principio che trova applicazione, quando si contesti la legittimità degli atti amministrativi, nella norma dell'art. 113, al quale esclusivamente deve aversi riguardo per la soluzione della questione prospettata. Tale articolo ha, nel secondo comma, inibito al legislatore di disporre esclusioni o limitazioni della tutela giurisdizionale per singole categorie di atti o per singoli mezzi di impugnativa, consentendogli solo, nell'ultimo comma, di determinare in quali casi sia possibile disporre l'annullamento dell'atto (escludendone eventualmente alcuni), nonché gli organi competenti a dichiararlo e gli effetti consequenziali.

Non é esatta l'interpretazione che nell'ordinanza si dà della norma dell'art. 236 del T.U. (che é quella direttamente rilevante per la soluzione del giudizio a quo), secondo cui al debitore d'imposta sarebbe riconosciuto il solo potere di rivolgere istanza all'Intendente di finanza, diretta a chiedergli che si disponga una nuova stima degli immobili pignorati, mentre i conseguenti provvedimenti dell'Intendente stesso non sarebbero assoggettabili ad alcun sindacato. É invece da ritenere che, contrariamente a quanto afferma il Pretore, le norme generali sulla giustizia amministrativa trovino piena applicazione anche in confronto al sub-procedimento di cui all'art. 236, che si conclude con la decisione dell'Intendente di finanza in ordine alla determinazione del prezzo base. Il principio consacrato nell'art. 113 appare suscettibile di piena applicazione anche in confronto alle decisioni relative alla determinazione del prezzo base, impugnabili, per qualsiasi motivo di illegittimità compreso quello dell'eccesso di potere, o mediante il ricorso straordinario (entro il minore termine stabilito dall'art. 208) o con ricorso al Consiglio di Stato, al quale compete anche il potere di disporre la sospensione del procedimento in corso di svolgimento.

4. - L'infondatezza della questione relativa agli artt. 202 e 236 deve essere dichiarata anche per quelle sollevate in correlazione alla prima con riferimento agli artt. 233, 235 e 237 del T.U. citato.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione proposta dal Pretore di Santhià sulla legittimità costituzionale degli artt. 202, 233, primo comma, lett. c, e, f, h, 235, 236, primo e secondo comma, e 237 del T.U. delle leggi sulle imposte dirette approvato con D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, in relazione agli artt. 24 e 131 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 giugno 1966.

 

Gaspare AMBROSINI - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO

 

Depositata in cancelleria il 2 luglio 1966.