SENTENZA N. 58
ANNO 1964
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 27 della legge 16 settembre 1960, n. 1014, promosso con ordinanza emessa il 29 novembre 1963 dal Pretore di Barcellona Pozzo di Gotto nel procedimento civile vertente tra Salvo Giuseppe e Nicolaci Tommasa contro l'Esattoria comunale di Furnari, iscritta al n. 211 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 21 del 25 gennaio 1964.
Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e l'atto di costituzione in giudizio di Salvo Giuseppe e Nicolaci Tommasa;
udita nell'udienza pubblica del 3 giugno 1964 la relazione del Giudice Giuseppe Branca;
udito l'avv. Arturo Carlo Jemolo, per Salvo Giuseppe e Nicolaci Tommasa.
Ritenuto in fatto
1. - In un procedimento di esecuzione esattoriale promosso, per debito di imposta, dall'Esattoria comunale di Furnari nei confronti dei signori Giuseppe Salvo e Tommasa Nicolaci, il Pretore di Barcellona Pozzo di Gotto, con ordinanza 29 novembre 1963, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 della legge 16 settembre 1960, n. 1014, in riferimento all'art. 23 della Costituzione.
L'ordinanza é stata ritualmente notificata e pubblicata.
Il Pretore osserva che, pur potendo dubitarsi, nel caso, della propria competenza, il giudizio su di essa non é pregiudiziale al giudizio relativo alla fondatezza della predetta questione di legittimità costituzionale; questione che non sarebbe manifestamente infondata poiché l'art. 27 della legge 16 settembre 1960, n. 1014, lascia alla discrezionalità dell'Amministrazione comunale la determinazione delle eccedenze da applicare "sulle aliquote massime delle imposte e delle sovrimposte in misura superiore al limite massimo fissato dalla stessa legge": secondo il Pretore, tale norma intaccherebbe arbitrariamente la sfera patrimoniale del soggetto, che invece non può essere colpita se non attraverso un meccanismo di imposizione disciplinato in modo tassativo dal legislatore e perciò conoscibile a priori dal contribuente; il cui diritto, avendo tutela nella riserva di legge contenuta nell'art. 23 della Costituzione, non troverebbe sufficiente garanzia nella predisposizione dei controlli amministrativi previsti dalla legge e neanche nella fissazione di minimi e massimi di imposta, entro i quali può spaziare a piacimento la discrezionalità amministrativa.
La difesa dei signori Salvo e Nicolaci, con atto depositato il 3 gennaio 1964, afferma anch'essa l'incostituzionalità dell'art. 27 della legge n. 1014 del 1960. Questa disposizione non farebbe altro che rinnovare l'efficacia dell'art. 332, quinto comma, della legge comunale e provinciale, già dichiarato illegittimo con la sentenza 30 gennaio 1962, n. 2, della Corte costituzionale: infatti la norma denunciata consente ai Comuni di pretendere per altri 10 anni quelle eccedenze di sovrimposta che essi avevano potuto applicare solo in virtù di tale articolo. Ma poiché questo é stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, il sistema, di cui esso era il portatore, non potrebbe essere rinnovato senza violare l'art. 136, primo comma, della Costituzione.
2. - Il Presidente del Consiglio dei Ministri, intervenuto a mezzo dell'Avvocatura dello Stato con atto depositato il 28 dicembre 1963, innanzi tutto rileva la stranezza dell'ordinanza di rinvio (anche senza elevare formalmente un'eccezione pregiudiziale): nella quale ordinanza il Pretore, pur dubitando d'essere competente nel giudizio di merito, solleva la questione di legittimità costituzionale prima d'aver giudicato della propria competenza.
Quanto poi alla norma impugnata, la difesa del Presidente del Consiglio nega che essa contrasti con l'art. 23 della Costituzione: infatti il limite massimo delle eccedenze da applicare risulta fissato tassativamente dalla legge, coincidendo per il primo anno con la misura già autorizzata dalla Commissione centrale per la finanza locale per il 1960 e, per ciascuno degli anni successivi, nel decimo della misura dell'anno precedente: con ciò l'imposizione del tributo non sarebbe lasciata all'arbitrio della pubblica Amministrazione sia perché non può andare oltre quel massimo, sia perché si può applicare l'eccedenza solo nei casi di provata necessità di bilancio: quanto basta perché la riserva di legge sia salva secondo quello che é l'insegnamento della Corte costituzionale e contro l'opinione del giudice di merito.
3. - I signori Salvo e Nicolaci hanno depositato il 19 maggio 1964 una memoria, nella quale respingono l'eccezione di inammissibilità, proposta, sì e no, dal Presidente del Consiglio:
infatti, a loro avviso, il Pretore ha largamente motivato la rilevanza della questione di legittimità costituzionale e la Corte costituzionale non usa delibare le questioni di competenza risolte dai giudici a quo.
Quanto al merito, nella memoria si afferma che la norma impugnata, consentendo le supercontribuzioni, si ricollega a esigenze di bilancio e non, come dovrebbe ex art. 53 della Costituzione, alla capacità contributiva del cittadino; esigenze che molti Comuni, durante l'iter dell'approvazione della norma, hanno artificiosamente esagerato, sfuggendo così, almeno per 10 anni in virtù di tale norma transitoria, al limite preciso posto dallo stesso legislatore del 1960: cosa che é stata possibile, poiché , data la materia, il controllo della Giunta provinciale amministrativa (voluto dalla norma impugnata) é di fatto illusorio, e che ha prodotto, fra l'altro, una stridente disparità rispetto agli altri Comuni che non hanno avuto l'accortezza di gonfiare le spese e il passivo dei loro bilanci.
4. - Nella discussione orale la difesa delle parti private ha riaffermato e difeso le proprie tesi.
Considerato in diritto
1. - stato denunciato l'art. 27 della legge 16 settembre 1960, n. 1014, che consente ai Comuni (e alle Province) l'applicazione di "eccedenze, sulle aliquote massime delle sovrimposte, in misura superiore al limite massimo fissato" dalla stessa legge.
Nonostante il dubbio espresso dall'Avvocatura dello Stato la questione é ammissibile. Infatti essa é stata proposta da un organo giurisdizionale che ne ha motivato la rilevanza. Il problema relativo alla competenza di tale organo, nella materia che ha formato oggetto del giudizio di merito, non può essere affrontato da questa Corte, che é chiamata a giudicare su un piano diverso; né doveva essere risolto preventivamente in quel giudizio, se é vero che la soluzione dei problemi di competenza non é necessariamente pregiudiziale rispetto alla denuncia dei vizi di costituzionalità (si veda la sentenza 26 giugno 1962, n. 65, della Corte costituzionale).
2. - Nel merito la questione é infondata.
La legge n. 1014 del 1960 é stata emanata allo scopo di apportare, in attesa d'una radicale riforma dell'ordinamento finanziario locale, una prima sistemazione nei bilanci delle Province e dei Comuni: perciò essa, fra l'altro, ha sottratto agli enti locali talune spese relative a servizi di interesse esclusivamente statale; ha soppresso alcuni tributi oramai anacronistici e l'addizionale dell'imposta sul reddito agrario; ha promosso una più equa distribuzione delle sovrimposte comunali e provinciali perché non ne restassero eccessivamente gravati i redditi fondiari rispetto agli altri redditi; infine ha tolto limitazioni vecchie e antiquate alla potestà di imposizione tributaria delle Province e dei Comuni, sostituendole però, in ossequio ai principi costituzionali, con la fissazione di limiti massimi, precisi e invalicabili, per la misura delle aliquote (artt. 19, 20 e 23).
Uno di questi é diretto a modificare l'art. 332 della legge comunale e provinciale del 1934, secondo cui le Province e i Comuni, su autorizzazione della Commissione centrale per la finanza locale, potevano applicare eccedenze sulle imposte e sovrimposte senz'altro limite che quello delle necessità di bilancio: il legislatore del 1960, avvertendo l'incostituzionalità di tale norma due anni prima della pronuncia di questa Corte (sentenza n. 2 del 1962), introduceva appunto la regola che le eccedenze possano essere autorizzate dalla Commissione centrale solo entro la misura del cento per cento sulle tariffe massime delle imposte e sovrimposte (art. 23). Ma, se questa regola avesse avuto immediata applicazione, ne avrebbero sofferto gravemente le finanze di moltissimi Comuni che avevano impostato i propri bilanci sul gettito delle eccedenze applicate in misura ben più ampia. Di qui l'emanazione della norma impugnata (art. 27), che dà alle amministrazioni locali un termine massimo (dieci anni) perché si adeguino gradualmente a quel limite (cento per cento).
La norma non rinnova il vecchio sistema, che lasciava alla discrezionalità delle amministrazioni l'imposizione di eccedenze e violava la riserva di legge contenuta nell'art. 23 della Costituzione (citata sentenza n. 2 del 1962); ma fa parte d'una nuova disciplina che pone limiti precisi a quella potestà e di essi assicura la graduale attuazione. Per il primo anno di applicazione della legge (1961) il legislatore ha per così dire congelato, quanto alle eccedenze, la situazione di fatto, che risultava dalle autorizzazioni date rispetto al 1960, ed ha consolidato le relative poste dei bilanci (melius, ne ha voluto il consolidamento su cifre non più alte di quelle del 1960). Per ogni anno successivo ha disposto una riduzione non inferiore al dieci per cento, sì che al massimo dopo un decennio le amministrazioni si saranno uniformate alla regola fiscale di non superare la misura stabilita dalla legge. Perciò l'art. 27, quando sia situato nel complesso della nuova disciplina e guardato nella sua funzione di graduale e, ovviamente, non prorogabile adeguamento dell'attività di imposizione ai nuovi principi, é piuttosto un mezzo per attuare una precisa volontà legislativa che per sfuggire alla riserva di legge prevista dall'art. 23 della Costituzione.
É vero che le amministrazioni locali, in virtù della norma impugnata, hanno potuto e possono applicare le eccedenze in misura di gran lunga minore di quella massima fissata dalla medesima norma; ma questo potere di spaziare fra un massimo ed un minimo di imposizione, fra loro ben lontani, non può essere considerato, nel caso in esame, motivo di illegittimità costituzionale; infatti da un lato, una volta adottata la misura minore, le amministrazioni non possono più accrescerla nell'anno successivo ma anzi devono ulteriormente ridurla di almeno il dieci per cento, dall'altro, così facendo, si mettono sul piano d'un più celere adeguamento al nuovo limite: il che é modo di attuazione della precisa volontà legislativa invece che esercizio di poteri non delimitati dalla legge.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 della legge 16 settembre 1960, n. 1014 (recante norme per contribuire alla sistemazione dei bilanci comunali e provinciali), proposta, con l'ordinanza in epigrafe, in riferimento all'art. 23 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 1964.
Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO.
Depositata in Cancelleria il 23 giugno 1964.